La crescita potenziale dell’economia è davvero nulla?
Non è pari a zero come dice la Ue ma è bassa. C’è un motivo strutturale se da 20 anni non cresciamo
Fonte: Istat
Uno dei punti di scontro sulla legge di Stabilità tra il governo italiano e la Commissione Ue ha riguardato il Pil potenziale dell’Italia. Una volta individuato il Pil potenziale si può calcolare l’“output gap”, cioè il divario del Pil effettivo rispetto al suo livello normale. È in funzione di questo output gap, come ha fatto notareFrancesco Daveri su lavoce.info, che dopo la revisione del trattato di Maastricht la Commissione e i vari ministeri dell’Economia dei Paesi europei calcolano il deficit di bilancio normale (o “strutturale”), sottraendo dal deficit effettivo la parte imputabile alla fortuna o sfortuna della fase ciclica.
La posizione ufficiale del governo italiano, nei confronti della Commissione Ue, che ha stimato un Pil potenziale vicino allo zero, è stata quella di rilevare in diverse occasioni, l’ultima delle quali nella nota di aggiornamento del Def, degli errori di stima. Per i tecnici del Mef, essendo una variabile non direttamente osservabile, i metodi statistici di stima, spesso molto complessi, non riuscirebbero a catturare il vero potenziale della nostra economia.
Le implicazioni politiche sono abbastanza rilevanti: un potenziale vicino a zero implica tra le altre cose un output gap (la differenza fra Pil osservato e potenziale) più piccolo e un deficit strutturale di bilancio più negativo, a parità di altri fattori. Da qui deriva l’importanza di tale variabile tecnica per la politica economica del governo.
Tralasciando i tecnicismi, ed evitando di avventurarsi in stime noiose, una semplice media della crescita negli ultimi 20 anni aiuta comunque capire l’importanza della questione e a delimitarne quantitativamente i confini. I grafici mostrano i tassi di crescita annuali di diverse misure di prodotto potenziale: il Pil assoluto, Il Pil per persona, il Pil per ora lavorata e per occupato (ovvero due misure di produttività del lavoro). La linea rossa si riferisce alla media nel periodo, mentre quella verde è la media escludendo gli anni della grande crisi. La ratio del mostrare due medie differenti risiede nell’osservazione che, in recessione, probabilmente gli errori di stima del prodotto potenziale sono più alti.
Quale lezione trarne? Se ci si concentra sulla definizione di Pil totale, si nota come il potenziale annuale negli ultimi venti anni è solo dello 0,5%. Non è zero, come i tecnici della Commissione vorrebbe far credere, ma nemmeno è una cifra di cui andar fieri. Escludendo gli anni di recessione (metodo comunque discutibile, poiché il capitale umano tende a diventare obsoleto se si resta a lungo tempo fuori dal mercato del lavoro), il potenziale sale a 1,5 per cento.
Cosa dire, invece, se si astraesse dalla demografia e dall’input lavoro, che è stato ancor crescente nel periodo considerato, sebbene di poco a causa dell’invecchiamento della popolazione? La misura pro-capite ci è più sfavorevole. Nel periodo che va dal 1995 a oggi, il Pil pro-capite è cresciuto in media solo dello 0,2%, e dell’1,2 per cento se si esclude l’ultima recessione. Un risultato onestamente deludente. La situazione è ancora peggiore per quanto riguarda la produttività del lavoro. Anche escludendo il periodo recessivo, la crescita non è mai superiore allo 0,6 per cento. Nel caso della produttività per occupato il potenziale è in pratica zero.
Cosa dedurre da queste cifre? La questione posta con forza dal nostro governo non è del tutto infondata, ma visti i numeri gli effetti sull’output gap e sul deficit strutturale sarebbero comunque minimi. Si usa tanta foga retorica per dei benefici sul budget strutturale nell’ordine di pochi punti percentuali. Forse è tempo per i nostri politici di realizzare che 20 anni di non crescita sono ben causati da arretratezze strutturali, senza eliminare le quali tirare in ballo errori nella stima del Pil potenziale appare come discutere del sesso degli angeli.
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