Bari"Ci sono 300 mld di euro che la Bce ha messo in circolo. Io non parlo ai politici ma alle pmi, alle partite iva, agli artigiani e a chi prende il mutuo. Allora bisogna avere progetti seri e bisogna che le nostre banche, che hanno affrontato stress test con numeri più forti di altre banche in Europa, tirino fuori i denari e corrano il rischio - perché se fai il banchiere devi correre rischi - e li mettano" nel circuito produttivo.
Parla di disoccupazione, di crisi, di geopolitica il premier Matteo Renzi alla cerimonia di apertura della Fiera del Levante di Bari. Ultima tappa del tour del Presidente del Consiglio che in giornata è andato a Peschici per discutere con i sindaci dei Comuni colpiti dalla recente alluvione e con il governatore della Puglia Nichi Vendola.
Plauso a Vendola
Governatore verso cui ha espresso apprezzamento: "La Puglia - ha detto - in 10 anni è cambiata", per questo occorre "dare atto del lavoro serio" compiuto da Vendola, che si vede dal fatto che "questa regione è la numero uno come capacità di spesa dei fondi Ue".
Ilva
Accoglienza di protesta per il premier nel Capoluogo pugliese e a Taranto, dove ad attenderlo c'era un sit-in di operai e ambientalisti. Al centro dell'incontro in Prefettura il caso Ilva - che ha spiegato Renzi - "è una questione prioritaria per il governo", "una questione nazionale, una scommessa di questo governo che vuol dimostrare che si può fare impresa rispettando la salute".
Riforma della scuola
Da Bari Renzi ha fatto il punto sui temi centrali dell'agenda italiana e non solo. "Esigo da me stesso quello che ho sempre detto: la riforma della scuola non si fa sulla testa degli insegnanti, ignorandoli, né sulla testa dei genitori", ha spiegato, sottolineando come la riforma sarà "discussa per un anno" perché, andremo per un anno casa per casa, scuola per scuola".
La malattia "riformite"
E sempre sulle riforme: "Da 20 anni ci promettiamo di cambiare il Paese e non lo facciamo, rimandiamo in nome di una malattia che si chiama 'riformite', ora dobbiamo farle". Obiettivo: "rendere il Paese più semplice e meno caro, meno costoso, in grado finalmente di fare quello che ha fatto nei secoli, innovare, sperimentare, precedere".
"Europa non ci dica cosa dobbiamo fare"
"L'Europa non può essere il posto dove noi dobbiamo andare a farci dire cosa dobbiamo fare da grandi", ha ribadito, "ma siamo noi che andiamo in Europaa chiedere conto dei 300 miliardi di euro. Vogliamo sapere quando li mettono. Siamo l'Italia, siamo alla guida dell'Europa e dobbiamo essere capaci di farci sentire e valere per quello che siamo".
E ribadisce: "Noi rispettiamo il patto di stabilità e di crescita, noi stiamo dentro il 3%".
Liberi cittadini contro il regime partitocratico, i privilegi della casta sindacale della triplice, la dittatura grillina e leghista, la casta dei giornalisti
sabato 13 settembre 2014
Gli sciocchi creduloni grillini diminuiscono ogni giorno. Speriamo che questo paese rinsavisca in fretta.
GRILLO, #DISCARICATOUR SENZA SPETTATORI
Appena un’ottantina di sostenitori. Troppo pochi. È una reazione piccata quella di Beppe Grillo quando scopre che per il suo arrivo in Riviera per il «no alla discarica» la risposta è stata poca cosa. Anzi, Grillo è stato deluso dalla scarsa mobilitazione e si è lasciato addirittura sfuggire un commento inelegante nei confronti di chi nonostante la giornata lavorativa, si era presentato all’appuntamento con il leader del Movimento.
Al suo fianco i parlamentari impegnati sul fronte delle tematiche ambientali, i consiglieri comunali di Sanremo Paola Arrigoni e Giuseppe Riello, quello di Bordighera David Maria Marani. Ma non si sono visti quelli di Ventimiglia e Imperia e i volti più conosciuti e attivi dei Meetup. Con la folla, sorvegliata da un servizio d’ordine molto rilassato, Grillo si è soffermato appena pochi istanti per poi dedicarsi alla visita in discarica. E appena la sua ecologica «Prius» è apparsa sul piazzale si è confrontato con i lavoratori di «Idroedil» e con i loro cartelli di protesta a tutela del posto, dello stipendio. Una protesta annunciata, senza rabbia, pacata al punto di essere poco convincente visto che a tenere testa alle domande di Grillo non c’è stato nessuno. Lui ha parlato del «reddito di cittadinanza» del lavoro come un diritto e di un lavoro migliore rispetto a quello in discarica. Ma non c’è stato dialogo, confronto.
Poi Grillo ha infilato il caschetto e il gilet fosforescente ed è salito sul pullman di «Idroedil» per la visita alla discarica. L’attenzione si è concentrata sul Lotto 5, sulla lavorazione dei rifiuti, sulla produzione di biogas, sulla lavorazione del «biodigestore». Intorno alle 16 il bus è ricomparso sul piazzale e Grillo dopo qualche altra battuta è ripartito senza neppure andare a salutare i militanti che avevano atteso in strada speranzosi di incontrarlo (intrattenuti dai parlamentari).
A parlare dell’incontro con Grillo è stato il direttore tecnico di Idroedil Sergio Tommasini: «"Abbiamo riscontrato un punto di condivisione per la gestione del rifiuto a monte, apprezzando alcune idee che il Movimento sta portando avanti in sede parlamentare. Confermo che siamo disponibili ad ulteriori confronti». L’amministratore di «Idroedil», Massimo Ghilardi ha spiegato: «Confido nel lavoro della magistratura per una risoluzione delle indagini in tempi brevi per evitare l’emergenza rifiuti. La Provincia ha fatto pervenire a tutti una lettera dove richiede misure alternative e noi cercheremo di fare la nostra parte con grande senso di responsabilità".
mader
Giulio Gavino per La Stampa
La realtà internazionale purtroppo è molto più complessa e variegata di come viene descritta da Di Battista. Ma Di Battista continua a sparare sciocchezze. Povera Italia.
CONFINE BOLLENTE
Escono jihadisti ed entra il petrolio dal confine tra Turchia e Siria. Le autostrade della jihad portano all'Isis, attraverso il territorio turco, aspiranti miliziani da tutto il mondo e nella direzione contraria arriva un fiume di petrolio prodotto nelle terre conquistate dal 'califfato' e venduto in Turchia.
Nulla è semplice nel labirinto di interessi e relazioni che da due anni si è costruito fra i miliziani jihadisti sunniti e la Turchia del presidente islamico Recep Tayyip Erdogan, ora riluttante a partecipare alla coalizione anti-Isis varata da Barak Obama.
NIENTE GUERRA ALL'ISIS. «Ankara non dichiararerà la guerra all'Isis», ha chiarito su Hurriyet l'analista Serkan Demirtas. Ufficialmente Ankara ha spiegato, di fronte alle pressioni degli Usa, di avere le mani legate a causa dei 46 turchi del consolato generale di Mosul, fra cui lo stesso console generale, ostaggio da giugno dell'Isis.
Il governo turco ha promesso più controlli per fermare i jihadisti stranieri, aiuti umanitari e logistici alla coalizione. Ma niente sul piano militare, anche se il 13 settembre il portavoce del Pentagono ha parlato di «contributi agli sforzi militari». La stampa internazionale intanto punta il dito sul flusso di petrolio che dalle regioni occupate dall'Isis in Siria e Iraq arriva in Turchia.
2 MILIONI DI DOLLARI AL GIORNO. Secondo le stime del Brookings Doha Center il gruppo armato ricava dal petrolio circa 2 milioni di dollari al giorno. In Turchia la benzina della jihad arriva di contrabbando a prezzi di svendita attraverso i porosi 910 chilometri di frontiera con la Siria e i 380 con l'Iraq.
Le autorità affermano di avere rafforzato i controlli e triplicato i sequestri negli ultimi mesi. Ma il flusso non si è fermato. Per la rivista Foreign Policy oggi l'Isis è il gruppo terrorista più ricco del mondo. Il capo dell'opposizione turca Kemal Kilicdaroglu da tempo ha accusato Erdogan di avere aiutato i miliziani jihadisti sunniti in Siria, in nome dell'assioma «tutto pur di fare cadere Assad», e di avere trascinato l'Occidente in una disastrosa campagna di appoggio a una opposizione armata che «moderata» non è mai stata.
EFFETTO BOOMERANG. Ora parla di un micidiale effetto boomerang per la Turchia che trova il governo con le mani legate. L'Isis è diventata una minaccia diretta lungo le frontiere sud della Turchia. Ma Erdogan - al di là della spina degli ostaggi - frena perché teme che la guerra all' Isis rafforzi Assad, i ribelli curdi del Pkk e il governo a guida sciita di Baghdad: insomma tutti i 'nemici' che ha combattuto negli ultimi anni. E il suo partito islamico Akp è ideologicamente sensibile all'integrismo sunnita di gruppi come Hamas o i Fratelli Musulmani. Ma il pericolo, rilevano diversi analisti non governativi, ora è anche interno.
PARTITI 3MILA TURCHI. Secondo Milliyet, 3 mila turchi hanno raggiunto lo 'Stato Islamico'. L'Isis recluta nelle grandi città turche, da Istanbul partono pulmini di candidati jihadisti, ha scritto Newsweek. Nessuno si nasconde. Bandiere dell'Isis si vedono su macchine e finestre. «Sono sempre di più a partire e la polizia non fa nulla», ha accuato Kenan Beyaztas, fratello di un ragazzo reclutato attraverso una delle tante societaà religiose nate sotto Erdogan. «Eppure se quattro curdi si riuniscono per strada, lo stato li distrugge. Ovviamente», ha aggiunto, «potrebbero fermarli, se volessero». Stretto fra le ambiguità del passato e il ricatto degli ostaggi Ankara sembra in un vicolo cieco. Eppure «nessun altro paese Nato è esposto quanto la Turchia», ha rilevato l'analista Sinan Ulgen, «alla minaccia dell'integralismo dell'Isis».
Nulla è semplice nel labirinto di interessi e relazioni che da due anni si è costruito fra i miliziani jihadisti sunniti e la Turchia del presidente islamico Recep Tayyip Erdogan, ora riluttante a partecipare alla coalizione anti-Isis varata da Barak Obama.
NIENTE GUERRA ALL'ISIS. «Ankara non dichiararerà la guerra all'Isis», ha chiarito su Hurriyet l'analista Serkan Demirtas. Ufficialmente Ankara ha spiegato, di fronte alle pressioni degli Usa, di avere le mani legate a causa dei 46 turchi del consolato generale di Mosul, fra cui lo stesso console generale, ostaggio da giugno dell'Isis.
Il governo turco ha promesso più controlli per fermare i jihadisti stranieri, aiuti umanitari e logistici alla coalizione. Ma niente sul piano militare, anche se il 13 settembre il portavoce del Pentagono ha parlato di «contributi agli sforzi militari». La stampa internazionale intanto punta il dito sul flusso di petrolio che dalle regioni occupate dall'Isis in Siria e Iraq arriva in Turchia.
2 MILIONI DI DOLLARI AL GIORNO. Secondo le stime del Brookings Doha Center il gruppo armato ricava dal petrolio circa 2 milioni di dollari al giorno. In Turchia la benzina della jihad arriva di contrabbando a prezzi di svendita attraverso i porosi 910 chilometri di frontiera con la Siria e i 380 con l'Iraq.
Le autorità affermano di avere rafforzato i controlli e triplicato i sequestri negli ultimi mesi. Ma il flusso non si è fermato. Per la rivista Foreign Policy oggi l'Isis è il gruppo terrorista più ricco del mondo. Il capo dell'opposizione turca Kemal Kilicdaroglu da tempo ha accusato Erdogan di avere aiutato i miliziani jihadisti sunniti in Siria, in nome dell'assioma «tutto pur di fare cadere Assad», e di avere trascinato l'Occidente in una disastrosa campagna di appoggio a una opposizione armata che «moderata» non è mai stata.
EFFETTO BOOMERANG. Ora parla di un micidiale effetto boomerang per la Turchia che trova il governo con le mani legate. L'Isis è diventata una minaccia diretta lungo le frontiere sud della Turchia. Ma Erdogan - al di là della spina degli ostaggi - frena perché teme che la guerra all' Isis rafforzi Assad, i ribelli curdi del Pkk e il governo a guida sciita di Baghdad: insomma tutti i 'nemici' che ha combattuto negli ultimi anni. E il suo partito islamico Akp è ideologicamente sensibile all'integrismo sunnita di gruppi come Hamas o i Fratelli Musulmani. Ma il pericolo, rilevano diversi analisti non governativi, ora è anche interno.
PARTITI 3MILA TURCHI. Secondo Milliyet, 3 mila turchi hanno raggiunto lo 'Stato Islamico'. L'Isis recluta nelle grandi città turche, da Istanbul partono pulmini di candidati jihadisti, ha scritto Newsweek. Nessuno si nasconde. Bandiere dell'Isis si vedono su macchine e finestre. «Sono sempre di più a partire e la polizia non fa nulla», ha accuato Kenan Beyaztas, fratello di un ragazzo reclutato attraverso una delle tante societaà religiose nate sotto Erdogan. «Eppure se quattro curdi si riuniscono per strada, lo stato li distrugge. Ovviamente», ha aggiunto, «potrebbero fermarli, se volessero». Stretto fra le ambiguità del passato e il ricatto degli ostaggi Ankara sembra in un vicolo cieco. Eppure «nessun altro paese Nato è esposto quanto la Turchia», ha rilevato l'analista Sinan Ulgen, «alla minaccia dell'integralismo dell'Isis».
Sabato, 13 Settembre 2014
Occorre cambiare politica economica in Europa. Non basta uno 0.4% per far ripartire l'Italia.
Il piano “segreto” Ue sulla flessibilità
13/09/2014 - di RedazioneL’ipotesi di lavoro della Commissione: in caso di congiuntura sfavorevole la correzione di bilancio scende dallo 0,5 allo 0,1%: significa uno "sconto" per l'Italia da 6 miliardi di euro
FLESSIBILITA’ - A parlarne è Il Messaggero, che rivela:
In base all’ipotesi di lavoro predisposta dalla Commissione, lo sforzo di correzione «strutturale» dei conti per il 2015 al quale Roma verrebbe chiamata potrebbe essere abbassato dallo 0,5% allo 0,1% del Pil. In ballo c’è uno sconto di circa 6 miliardi che potrebbe essere concesso all’Italia.
Ma nei fatti come sarebbe possibile questo sconto? Il “trucco” è nella definizione di flessibilità: nelle regole attuali, infatti, nonostante venga definita nel cosiddetto “braccio preventivo” da applicare ai paesi in difficoltà, non è specificata nella clausola di flessibilità la quantificazione del minore o maggiore “aggiustamento” dell’obiettivo di medio termine per i paesi in difficoltà. Si specifica solo che debba essere correlato alle situazioni favorevoli o sfavorevoli congiunturali. Questo permetterebbe di abbassare lo sforzo strutturale italiano dallo 0,5% del Pil allo 0,1%. Fatti i debiti calcoli, si tratterebbe di un risparmio di 6 miliardi per il paese.
LA SITUAZIONE DELL’ITALIA - Per ottenere questo sconto, il paese dovrebbe soddisfare tre requisiti
Secondo Bruxelles la condizione sfavorevole si avrebbe quando si realizzano tre eventi: l’economia va male, il Paese ha un debito-Pil superiore al 60% e un «output gap» compreso tra -1,5% del Pil e -4% del Pil.
L’Italia avrebbe un output gap (la differenza tra quanto il Paese cresce e quanto crescerebbe in piena occupazione dei fattori produttivi) di -3,7 punti percentuali, rispondendo perfettamente ai requisiti richiesti.
Salvador Allende ha preferito morire nel palazzo del governo piuttosto che piegarsi alla tirannide militare. Anche questo è un 11 settembre.
-G.C.- “La storia è nostra e la fanno i popoli”.
Parole che hanno segnato un'epoca. Che hanno raccontato per decenni la storia di un popolo e di un Paese, nonché il desiderio di rivalsa e di umanità, quella che troppo spesso siamo tentati di dimenticare.
Parole che hanno segnato un'epoca. Che hanno raccontato per decenni la storia di un popolo e di un Paese, nonché il desiderio di rivalsa e di umanità, quella che troppo spesso siamo tentati di dimenticare.
L'11 settembre è il giorno in cui le Twin Towers vennero abbattute. Ma, ancor prima, nello stesso giorno del 1973, il Cile iniziava a conoscere il proprio inferno, anche per colpa di quegli stessi Usa, guidati, ai tempi, da Richard Nixon. Ed allora è necessario ricordare anche questo, di 9/11.
Erano le 9.10: il Capo di Stato cileno, Salvador Allende, si era collegato per la quinta e ultima volta in radio. Aveva deciso, improvvisamente, di dire tutta la verità al suo popolo, raccontare quanto, in quegli stessi istanti stava accadendo al Palazzo: i caccia sorvolavano il tetto, sganciando bombe, mentre, fuori dai cancelli, l'esercito tentava di entrare all'interno dei locali e chiudere un'epoca. Di fatto, si stava compiendo in diretta il golpe di Pinochet, uno degli eventi più discussi, tragici e controversi della storia recente.
Erano gli anni della Guerra Fredda. Gli Usa si fronteggiavano con l'Unione Sovietica e, ovunqe, in tutto il mondo, si respirava una pesantissima aria di tensione. Chiunque temeva il tracollo degli equilibri e, conseguentemente, l'esplosione della guerra, che avrebbe visto fronteggiarsi due superpotenze: una previsione devastante.
Per questo non era accettabile, per gli Usa, che un nuovo paese decidesse di dirigere le proprie preferenze verso il comunismo, spostando così pericolosamente l'asse di equilbri e rischiandone la rottura. Per questo, quando, nel 1970, Allende venne nominato presidente con maggioranza relativa (raccolse il 36% dei voti), divenendo il primo leader marxista eletto in America, gli Usa non nascosero l'intenzione immediata di rovesciare il volere del popolo attraverso un colpo di Stato. In un documento dello stesso anno, inviato dal vice direttore delle operazioni della Cia di Santiago, Thomas Karamessines, si leggeva infatti: “È politica ferma e in atto che Allende venga rovesciato da un golpe … è imperativo che queste operazioni vengano intraprese clandestinamente e in sicurezza, in modo tale che la mano americana e dell'USG [Governo degli Stati Uniti] rimanga ben nascosta.”
Non fu subito avanzata un'azione violenta. Dapprima, infatti, si tentò di abbattere Allende conducendo una campagna segreta atta ad aggravare le già devastanti condizioni economiche in cui versava il popolo cileno. Documenti del Consiglio Nazionale per la Sicurezza, in seguito declassificati dalla presidenza Clinton e scritti da Kissinger, danno adito a questa ricostruzione; il fine, ovviamente, era quello di generare scontento nel popolo cileno, impedendo così consolidamento del potere di Allende e facendo precipitare il Cile nel caos.
Una strada che si rivelo efficace, ma non sufficientemente. Salvador Allende, pur intuendo l'ostruzionismo americano, proseguì nella sua missione di realizzare la cosiddetta “via socialista cilena”, mettendo in campo, fin da subito, numerose riforme: l'istruzione venne resa gratuita, così come la sanità. Terreni vennero espropriati e, soprattutto, venne nazionalizzata l'industria del rame, fino a quel momento in mano a società statunitensi. Uno smacco che Nixon non perdonò: fu così che, nel giro di pochi giorni, l'inquilino della Casa Bianca decise di revocare gli aiuti al Cile. In men che non si dica, il Paese sudamericano, scivolò nella recessione.
La situazione si fece tragica. La condizione di crisi aveva scatenato la rabbia nei confronti di Allende da parte di molti cileni: oltre agli esponenti cristiano-democraticie della destra del partito nazionale, i proprietari terrieri privati dei loro possedimenti e i poveri, ridotti al lastrico, iniziarono a puntare il dito contro il governo del Presidente. Di lì ad un primo tentativo di golpe il passo fu più che breve.
Avvenne nel giugno del '73: in quell'occasione un gruppo di soldati, sotto la guida del colonnello Souper, circondò il Palazzo Presidenziale tentando di rovesciare il potere. Le forze lealiste, però, riuscirono a sedare i disordini e reprimere la rivolta, in maniera celere: nel giro di poche ore l'emergenza rientrò. Non per questo Allende poté dirsi tranquillo: un nuovo tentativo di colpo di Stato avvenne a luglio, così che, alla fine, il Presidente, temendo per il futuro, non decise di riformare anche l'esercito. Alla guida del Ministero della Difesa pose così il generale Augusto Pinochet, nonostante, inizialmente, il posto fosse stato assegnato al "fedelissimo" Prats, ritirato per le polemiche suscitate dalla nomina.
Riorganizzata la sua sicurezza e, di conseguenza, quella del suo popolo, Allende accelerò nelle riforme, ma dovette fare i conti con un nuovo attacco: giuridico. I partiti a lui avversi, infatti, iniziavano ad accusarlo di "atti incostituzionali". Secondo quanto denunciavano le opposizioni, Allende stava tentando di “assoggettare tutti i cittadini al più stretto controllo politico ed economico da parte dello Stato con lo scopo di stabilire un sistema totalitario”. Sotto fuoco incrociato, il Presidente respinse tutte le accuse e riconfermò la sua intenzione di proseguire "per il bene del Cile".
Fu così che si dovette scendere nella violenza. Tra il 7 e il 10 settembre, Allende venne informato di un imminente colpo di Stato, previsto per il 14 dello stesso mese. Ad avvisarlo, il suo fedele generale Prats, che gli suggerì anche di lasciare il Paese. Il Presidente declinò l'invito, convocando, anzi, il ministro Pinochet, credendolo suo alleato. A lui raccontò dei rischi che stava correndo e svelò inoltre le sue future mosse: un errore che gli costò la vita.
All'alba dell'11 settembre era già troppo tardi: il golpe era in atto. Alleande abbandonò la sua abitazione trincerandosi a La Moneda, dove venne raggiunto dai suoi uomini. Alle 8 meno cinque, Allend si collegò per la prima volta in radio e riferì ai cittadini quanto era in corso. Poco dopo, cominciarono i bombardamenti.
I militari, guidati da Pinochet, non lasciarono scampo ai lealisti. Assaltata La Moneda, impedirono entrate e uscite, bombardando e sfondando barricate. Per ore, all'interno del palazzo, i lealisti cercarono di resistere alla furia golpista, invano. Pinochet aveva vinto e non c'era più nulla da fare, se non un ultimo gesto rivoluzionari: pur di non lasciarsi uccidere, Allende afferò la sua mitraglietta e se la scaricò addosso, crivellandosi di colpi. I militari sostennero per lungo tempo di essere stati loro a eliminarlo, ma ricostruzioni, testimonianze ed esami hanno sempre confermato la teoria del suicidio.
La dittatura di Pinochet durò dal 1973 al 1990. In diciassette anni, 40mila persone furono uccise, torturate o incarcerate perchè considerate dissidenti, traditori. 1200 di loro sparirono nel nulla, più di 3000 furono le vittime accertate. Il tutto con il contributo e il benestare della Chiesa, che nascondeva i crimini del dittatore.
E della Cia. D'altronde, ebbe a dire Kissinger, riferendosi al golpe: “Non l'abbiamo fatto, ma ne abbiamo creato le basi”.
E della Cia. D'altronde, ebbe a dire Kissinger, riferendosi al golpe: “Non l'abbiamo fatto, ma ne abbiamo creato le basi”.
-11 settembre 2014-
Riceviamo e pubblichiamo.
Renzi dalla Fiera del Levante: "Banche corrano rischio e mettano in circolo fondi Bce"
In mattinata il presidente del Consiglio Matteo Renzi è stato a Peschici per incontrare i sindaci dei Comuni colpiti dal maltempo, a Taranto ha partecipato a un incontro sull'Ilva, a seguire l'inaugurazione della Fiera del Levante di Bari
Grillini incoerenti. Prima dicono che i giornalisti della Rai sono filo partiti e riportano male i fatti e poi oggi chiedono di prendere un conduttore televisivo non all'estero della RAI ma all'interno. C'è qualcosa che mi sfugge o sono i soliti urlatori per qualche voto in più?
L’attacco preventivo e prevenuto di Grillo a Massimo Giannini
VENERDÌ, 12 SETTEMBRE 2014SCRITTO DA
Andrea MollicaCONDIVIDI SU
Il blog di Beppe Grillo ha pubblicato una presa di posizione di Roberto Fico, presidente della Commissione di Vigilanza sulla Rai, contro la conduzione di “Ballarò” affidata a Massimo Giannini. La trasmissione, che per la prima volta dal 2002 andrà in onda senza il suo presentatore Giovanni Floris passato a La7, avrebbe dovuto essere condotta da un giornalista Rai secondoa il deputato dei 5 Stelle. “La Rai, con questa operazione, ammette implicitamente che tra i suoi 1700 giornalisti assunti non ne esiste uno in grado di condurre la trasmissione. Perché non si è valutato di avviare una procedura di selezione interna? Come è possibile che tra i tanti professionisti presenti in Rai non ci sia nessuno che possa ricoprire tale ruolo?”. Fico rimarca come una soluzione interna avrebbe potuto generare un risparmio dei costi di produzione. Il blog di Grillo, l’organo ufficiale di comunicazione del Movimento 5 Stelle, propone però una chiave di lettura ben diversa del comunicato di Roberto Fico. L’attacco infatti è rivolto al passato professionale di Massimo Giannini, “La Repubblica”. Il titolo del post è “Le mani di Repubblica sulla Rai”, e il quotidiano diretto da Ezio Mauro viene attaccato solo perchè il suo ex vicedirettore è passato ad un’altra esperienza professionale. Il titolo poi può anche essere interpretato come un attacco. preventivo e prevenuto a Massimo Giannini, un giornalista che secondo Grillo porterebbe “Repubblica” a controllare la Rai, o una sua trasmissione. Massimo Giannini ha abbandonato il quotidiano per poter dirigere “Ballarò”, un fatto che pare essere completamento ignorato dal leader dei 5 Stelle, o da Rocco Casalino, consulente del movimento per i temi radio-televisivi.
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