sabato 25 ottobre 2014

Vero. Sindacati residuo conservatore del novecento.

Dalla Leopolda critiche a minoranza Pd: “Tentativo di ripristinare schema novecentesco” 

sabato, ottobre 25th, 2014  
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Esposizione Nazionale 1861 478x393 Dalla Leopolda critiche a minoranza Pd: Tentativo di ripristinare schema novecentesco
La Leopolda nell’Ottocento (foto pubblico dominio)
“La Leopolda non è la riunione di una corrente ma una fabbrica di idee aperta a tutti coloro che pensano che la politica non è una materia riservata alle elite con la puzza sotto il naso o ai salotti buoni”, lo dice a margine dei lavori alla Stazione Leopolda di Firenze, il sottosegretario Angelo Rughetti, secondo il quale vi è un “approccio divisivo” che “viene impostato tirando fuori dall’armadio riferimenti valoriali storici della sinistra o stereotipi come la contrapposizione fra capitale e lavoro, fra diritti e sviluppo, garanzie e governabilità”.
Spiega Rughetti: “Questa operazione altro non è che il tentativo di ripristinare lo schema del ‘900 che ha ampiamente fallito e che ha rischiato di far diventare il PD inconsistente nel panorama politico del Paese”. L’esponente Pd denuncia: “Pensare alla Leopolda come ad una corrente vuol dire mortificare una parte consistente, ampiamente maggioritaria, di quel 41% che ci ha dato la spinta e la responsabilità per continuare sulla strada delle riforme strutturali”.
Sceglie la Leopolda e non la piazza, Matteo Richetti, deputato del Partito Democratico, che all’Huffington Post motiva così la sua scelta: “Perché per cambiare l’Italia servono proposte e non proteste. Per me è facile, si dirà. In fondo la Leopolda è anche casa mia, come di chi in questi anni, ha contribuito a pensarla, a realizzarla, a dire la propria. La Leopolda in questi anni ha prodotto le 100 idee, il programma di Matteo Renzi per le primarie del Pd e tante proposte che hanno preso gambe in questi anni. Ma la Leopolda è’ per definizione di lotta”.
“Adesso serve un progetto. Chiaro e definito. Bisogna passare dal tratteggiare come andrebbe fatto allo spiegare perché non si può fare tutto e subito, perché ci vuole gradualità, perché non esiste una via nella quale si risana il Paese, si cambia e riforma l’Italia, si paga tutti meno tasse e si ottiene tutto più facilmente”, dice Richetti, che conclude: “Un’Italia più giusta è un Italia più equa. Dove qualcuno paga di più per consentire ad altri di respirare meglio. E nello specifico a pagare di più deve essere chi non lo ha mai fatto o non lo ha mai fatto fino in fondo. Insomma vado alla Leopolda perché adesso inizia il bello, che coincide con il difficile”.

Camusso è la vera garante del vecchio da spazzare via.

Renzi vuole le riforme. La Cgil lo sciopero generale. Ai dissidenti del Pd vanno i fischi
La Camusso esulta, ma la sua piazza non servirà a nulla


Matteo Renzi parla dal palco della Leopolda al suo popolo e lo esorta “a non cambiare ma a cambiare l’Italia“. Poi si avventura in un’affermazione che farà discutere: ”Io al massimo faccio due mandati nello spirito della Leopolda. Al massimo arrivo al 2023″. Parole insomma che sanno di ‘autorottamazione’. Ma dall’ex amico Pippo Civati arriva però una bocciatura pesantissima: “Renzi ormai parla come Berlusconi“.
LEOPOLDA
“Qui parla l’Italia che crea posti di lavoro“. Così Matteo Renzi apre la giornata di lavoro alla Leopolda numero 5, la kermesse più cara all’ex sindaco di Firenze che proprio qui, ormai un lustro fa, diede inizio alla scalata del Paese. ”Stiamo facendo un lavoro molto serio sui contenuti: 52 tavoli stamattina e 52 nel pomeriggio. Ma per un paio di ore ascolteremo storie di impresa: grandissime aziende, alcune tra le più grandi in Italia, chi vive l’esperienza dell’impresa sociale e storie di piccole imprese. L’obiettivo è riuscire a raccontare come anche in tempi di crisi si possa fare impresa”, dice Renzi introducendo alcuni interventi tra cui Brunello Cucinelli e Patrizio Bertelli. ”C’è una polemica in corso perché nella manovra abbiamo recuperato un po’ di denari dalle slot machine – ha detto Renzi -. Polemiche che penso e spero possano essere superabili“.
MANIFESTAZIONE CGIL
Alla manifestazione a Roma dalla Cgil contro il Jobs Act partecipa un milione di persone. La stima arriva da fonti dell’organizzazione. Il segretario della Cgil Susanna Camusso è arrivata alla manifestazione davanti allo striscione “Lavoro dignità e uguaglianza. Per cambiare l’Italia”. Camusso ha quindi annunciato: “siamo pronti allo sciopero generale”.
“La giornata di oggi non è solo una fermata. La Cgil è pronta a continuare la sua protesta per cambiare il Jobs act e la politica di questo governo anche con lo sciopero generale“, ha detto Susanna Camusso nel corso del comizio finale a piazza san Giovanni. Per Camusso, con la delega sul lavoro del governo non si uscirà dalla crisi. “Altri ci hanno provato ma hanno fallito”. “Non si esce dalla crisi – ha detto – punendo il lavoro. La Costituzione dice – ha aggiunto – che bisogna stare dalla parte di chi è più debole e non dare vantaggi a chi è più forte”.
La Cgil è tornata a chiedere al governo una tassa sulle grandi ricchezze, progressività e giustizia fiscale ed avverte che “non si può fare la guerra tra poveri”. Secondo il segretario della Cgil, il governo sta facendo una politica priva di coraggio.
FISCHIATI I PD PRESENTI
I dissidenti alla leadership che hanno partecipato alla manifestazione della Cgil di Roma sono stati fischiati. Gianni Cuperlo e Pippo Civati sono tra i parlamentari Pd presenti al corteo. I due deputati Pd, come concordato ieri anche con altri loro colleghi, hanno scelto di iniziare il corteo dietro lo striscione dei poligrafici dell’Unità. Diversi anche i consiglieri regionali democrat presenti ad un corteo dove, sporadicamente, è comparsa anche qualche bandiera del Pd. Anche se c’è chi non ha gradito la presenza della minoranza dem. “Fuori da questo corteo i parlamentari Pd che voteranno il Jobs act” recitava un cartello esposto nel corteo.

Ma i sindacati mica pensano all'Italia. I sindacati pensano alle tessere ed ai distacchi sindacali che Renzi ha decurtato del 50%. Forse stanno capendo che a breve Renzi toglierà a questi nullafacenti anche l'altro 50%.

“Non si risolve la crisi con le manifestazioni”
Confindustria rilancia la riforma del lavoro

di . Categoria: EconomiaPolitica
squinzi, confindustria
“Francamente non credo che in un momento di grave crisi, manifestazioni o scioperi siano la migliore delle soluzioni”. Sono le parole del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, che è intervenuto al XXIX convegno dei Giovani industriali.
Parole, quelle di Squinzi, che non possono non rimandare alla manifestazione della Cgil in corso a Roma.
Sul lavoro, prosegue il numero uno degli industriali, servono “politiche attive che facilitino un migliore incontro tra domanda e offerta”. Su questo, aggiunge, “attendiamo con fiducia la conclusione dell’iter della riforma del mercato del lavoro. Tutti siamo convinti che la questione cruciale sia far ripartire il lavoro e la domanda interna”. Secondo Squinzi, “questo però non si innescherà senza un robusto impulsi del governo sugli investimenti in infrastrutture”. Nello “Sblocca Italia”‘ “ci sono buoni incipit in questo senso” ma la “profondità della crisi richiede una terapia più robusta”.
Secondo Squinzi Abbiamo assoluto bisogno di tornare a un credito prossimo alle imprese e a costi competitivi e che il sistema bancario torni ad assumersi il suo giusto rischio e a canalizzare le risorse verso i programmi imprenditoriali più innovativi. C’è il merito ma c’è anche la qualità dell’impresa e dell’imprenditore, del suo progetto che spesso in Italia la banca non guarda neppure”.
“Indispensabile – per Squinzi - che la pressione fiscale sia rimodulata e ridotta in modo da favorire l’espansione dell’attività di impresa. Non possiamo che plaudire alla scelta del Governo e del presidente Renzi di eliminare dall’Irap il costo del lavoro, la più perfida delle tassazioni e – prosegue – di decontribuire le assunzioni a tempo indeterminato. Resta aperto il tema del prelievo fiscale sui beni strumentali all’attività aziendale, che noi riteniamo sia una scelta sbagliata. So però che anche questo è un dossier aperto sul tavolo del presidente del Consiglio”.
“A chi è guidato dal principio di realtà si presenta uno scenario preoccupante e denso di stimoli: l’immagine di un Paese sfiduciato, ma ancora ricco di risorse, che sa di non potersi fermare, ma indugia ancora sulla direzione da prendere”, dice il leader degli industriali e  sottolinea i “tre record non invidiabili” del Paese: “La maggiore pressione fiscale sui redditi da lavoro, il più alto tasso di evasione fiscale e il debito pubblico proporzionalmente più elevato di tutta l’Unione europea”. E, aggiunge, “siamo al sesto anno di una crisi di cui non si conoscono ancora gli esiti”.


Riceviamo e pubblichiamo.

Tagli agli Enti locali? Partiamo dai trasporti pubblici

È possibile un trasporto nell’interesse di tutti e che non serva da riserva di consenso elettorale
(Dan Kitwood/Getty Images)

(Dan Kitwood/Getty Images)

     
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Quale contributo può dare il trasporto locale ai 4 miliardi di spesa in meno chiesto alle Regioni, senza penalizzare il servizio? Si potrebbe cominciare a costruire un trasporto nell’interesse di tutti e non di pochi, con aziende che non siano più una riserva di consenso elettorale. 

Non l’hanno presa bene: per molti governatori i tagli ai trasferimenti alle Regioni previsti dalla manovra sarebbero “inaccettabili”. Ma è davvero così? Oppure, come sostiene il presidente del Consiglio, esistono ampi margini per la riduzione delle spese. Analizziamo il caso del trasporto pubblico locale che rappresenta la seconda voce di costo dopo la sanità.
È possibile spendere meno oppure ciò significherebbe tagliare in misura inaccettabile i servizi? Partiamo da una visione complessiva per poi passare ad analizzare alcune situazioni specifiche. Secondo un’analisi della Cassa depositi e prestiti, su 100 posti-km offerti ne vengono occupati solo 22. Il divario è in parte fisiologico, stante la forte variabilità nel tempo e nella direzione degli spostamenti (un autobus che si muove verso il centro nell’ora di punta del mattino effettua la corsa di ritorno con un numero di passeggeri molto ridotto), ma in parte sembra suggerire che, in alcune aree e fasce orarie, vi sia anche un “patologico” sovradimensionamento dell’offerta.
Pendolari, metropolitana

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A tal riguardo è forse utile sottolineare quanto accaduto lo scorso anno nella città di Torino: a seguito di una riduzione dei trasferimenti della Regione, si è proceduto a un taglio dei servizi intorno al 10 per cento; ciò nondimeno il numero di passeggeri trasportati è rimasto pressoché invariato, intorno ai 200 milioni all’anno. E sulla base dei risultati di un recente studio del Politecnico di Torino, nel capoluogo piemontese sarebbe possibile un ulteriore significativo taglio dell’offerta che, accompagnata da una riorganizzazione dei servizi, non comporterebbe nel suo complesso peggioramenti per l’utenza.
Il risultato non appare particolarmente sorprendente se si considera la distribuzione dell’utenza per linea che si riscontra tipicamente in un’area urbana. Un’analisi di alcuni anni fa relativa alla città di Firenze, ad esempio, mostrava come l’80 per cento delle linee coprisse solamente poco più di un terzo dei passeggeri trasportati.
Figura 1 - Curva dei passeggeri cumulati per linea Ataf – Anno 2003
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Fonte: Ataf / Earchimede, 2004
La situazione è analoga in ambito extraurbano: un’indagine svolta alcuni fa nella provincia di Alessandria mostrò come il 70 per cento dell’utenza fosse concentrata sul 30 per cento dei servizi.
Per tentare di porre rimedio a questo amplissimo divario fra offerta e utenza, in alcune aree “a domanda debole” i collegamenti tradizionali di linea effettuati con mezzi di grandi dimensioni sono stati sostituiti da servizi “a chiamata” per i quali si impiegano abitualmente minibus. I dati disponibili mostrano peraltro come questi stessi servizi presentino livelli di frequentazione molto al di sotto della capacità disponibile. Nel caso del servizio “Provibus” della provincia di Torino, per una percorrenza complessiva pari 93mila km all’anno, si è registrato un numero di passeggeri pari a circa 17mila (tabella 1).
Tabella 1 - Offerta, utenza e costi di produzione di alcuni servizi “a chiamata” in Italia
ponti-ramella2
Fonte: Provincia di Torino, 2009
Non diversa appare la situazione relativa al trasporto su ferro caratterizzato da una domanda concentrata su un numero limitato di collegamenti e una parte maggioritaria della rete con livelli di frequentazione molto contenuti.
Sia per la gomma che per il ferro sarebbe quindi opportuno valutare la possibilità di ricorrere a modalità di produzione del servizio meno costose: nel primo caso con l’adozione di servizi gestiti con veicoli ordinari da conducenti non professionisti (modello “Uber pop”) e nell’altro con la sostituzione del treno con autobus.
(Vittorio Zunino Celotto /Getty Images)

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Sebbene non siano mancati nell’ultimo decennio alcuni sforzi per cercare di ridurre i costi di produzione, ancora oggi persiste un divario molto rilevante fra l’efficienza delle aziende italiane e le migliori in Europa: il costo unitario per i servizi su gomma in ambito urbano è quasi doppio rispetto a quello delle aree metropolitane inglesi.
Tale divario è da ricondursi in larga misura a un costo del lavoro molto più elevato, superiore ai 45mila euro per dipendente, a una produttività più bassa e a una struttura amministrativa assai più numerosa, tutti elementi che sembrano essere ascrivibili al permanere di una condizione di monopolio de facto con procedure di gara per l’affidamento dei servizi a misura di incumbent.
Da questo stallo verosimilmente non si uscirà fino a quando non verrà eliminato il conflitto di interesse degli enti locali al contempo “arbitri” in quanto enti appaltanti e “concorrenti” in quanto proprietari di società. Sarebbe possibile immaginare un altro caso di acquisto di beni o servizi da parte della Pa nel quale l’ente pubblico partecipa a un appalto con una società sotto il proprio controllo?
treno deragliato

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Non vi è dubbio che:
a) se venissero forniti solo quei servizi di trasporto collettivo per i quali i benefici superano i costi per la collettività,
b) se tali servizi venissero prodotti con il modo di trasporto più economico in grado di soddisfare la domanda,
c) se i costi di produzione fossero allineati a quelli delle aziende più efficienti che operano in contesti analoghi,
l’onere per la finanza pubblica del trasporto pubblico locale potrebbe essere ridotto in misura elevata.
Come dovrebbe essere evidente, ogni euro in più speso per pagare stipendi superiori a quelli “di mercato” o per assumere personale in eccesso rispetto al reale fabbisogno è un euro in più di costo dei servizi e, a cascata, un euro in più prelevato dai contribuenti (o dagli utenti, che però oggi pagano, indipendentemente dal loro reddito a differenza di quanto accade nel Regno Unito, tariffe tra le più basse in Europa).
Certo, un prezzo da pagare ci sarebbe. Il trasporto pubblico non sarebbe più un mezzo per raccogliere il consenso elettorale degli addetti del settore e delle rispettive famiglie e per disporre di assai ambiti incarichi dirigenziali da assegnare ad amici fidati e riconoscenti.
(GABRIEL BOUYS/AFP/Getty Images)

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Vi è un solo, importante, rischio da tenere in considerazione: quello che le amministrazioni locali, invece di procedere a riformare il settore secondo i criteri sopra delineati, lascino indebitare le aziende (molte delle quali già oggi in condizioni assai critiche) e che il problema sia solamente rimandato nel tempo. L’alternativa sembra però peggiore: che, in assenza di tagli, si preferisca mantenere immutato lo status quo.
Considerata l’ampia varianza che sussiste in termini di efficienza fra le diverse aziende sarebbe auspicabile che la riduzione delle risorse adottasse come riferimento il criterio del costo standard. Si potrebbe anche chiedere alle Regioni di programmare aumenti tariffari (abbonamenti, soprattutto) leggermente superiori al tasso di inflazione per i prossimi cinque anni a condizione che non vengano concessi aumenti salariali aziendali superiori al tasso di inflazione.

Non si tratta di un miliardo ma di un miliardo e 800'milioni di euro all'anno. Soldi dei contribuenti italiani che non si sentono rappresentati da questi nullafacenti.

Un miliardo l'anno: ecco come lo Stato finanzia i sindacati




di Osvaldo De Paolini
«Il sindacato? La coperta di Linus della sinistra». «Non riescono, magari non per colpa solo loro, a rappresentare i ragazzi e le ragazze. E c’è da capirli, visto che il 75% dei loro tesserati sono pensionati». Ecco i sindacati nel pensiero recente di Matteo Renzi. Secondo il premier hanno solo un «sacco di soldi». E dunque, partire dai soldi è sempre un metodo infallibile se si vuole riformare qualcosa.E poiché Renzi si è impegnato a sfornare una riforma al mese fino a maggio, a mettere mano ai rapporti tra Pubblica amministrazione e sindacati ci penserà a cavallo dell'estate. Sempre che, cammin facendo, non cambi idea.

Rappresentanza inattuata Il suo predecessore, Enrico Letta, si era vantato di aver cancellato, sia pure a partire dal 2017, il finanziamento pubblico dei partiti. Un gesto simbolico (un centinaio di milioni di euro l'anno) da tributare all'insostenibile pesantezza della sfacciataggine di alcuni. In cambio la democrazia italiana si incamminerà sulla via del finanziamento privato dell'attività politica. Dunque, resterà solo al sindacato l'esclusiva di un ricco e sontuoso finanziamento pubblico: 1 miliardo di euro almeno, che entra ogni anno nelle casse delle quattro organizzazioni sindacali (considerando Ugl in aggiunta a Cgil, Cisl e Uil) più rappresentative. O sedicenti tali, visto che l'accordo sulla rappresentanza giace inattuato per paura di contare davvero quanti lavoratori pagano ancora la quota associativa.

Un miliardo di euro Un miliardo di euro. Slegato dall’attività tipica. È pur vero che questa espressione dice nulla, visto che nessuno ha mai letto un bilancio di un sindacato, non essendo tenuti a presentarli. Epperò 1 miliardo di euro al netto delle quote associative - che si suppongono sempre meno, tranne che tra i pensionati - non è poco trattandosi di un extra. Un miliardo di euro che non comprende le rendite dell’ingente patrimonio immobiliare (impossibile da quantificare), peraltro recuperato nei modi più creativi a spese di quello pubblico.

A questo punto qualcuno potrebbe osservare: ma chi dice che si tratti davvero di 1 miliardo, visto che nessuno conosce i loro bilanci? Anzi, si tratta di un calcolo prudenziale. Perché questa è solo la cifra che transita dai patronati e dai centri di assistenza fiscale (gli arcinoti caf) che fanno capo alle organizzazioni sindacali. E quando provi a fare domande sul tema, molte bocche si fanno storte, ma restano cucite.

Il peccato Si storcono in virtù del fatto che patronati e caf svolgono un servizio ai cittadini, che perciò - dicono - deve essere remunerato dallo Stato. Già, peccato che non sia sottoposto a verifiche di alcuno sulla qualità effettiva del servizio. Nessun ministro del Lavoro o dell'Economia ha mai sollecitato gli enti vigilati - da Inps a Inail all'Agenzia delle Entrate - a formulare regolamenti e minacciare sanzioni a chi quel servizio non lo svolga con efficienza e senza conflitto di interessi.

600 milioni ai patronati Ma facciamo un po’ i conti prima di affrontare qualche criticità regolamentare. Circa 600 milioni sono i compensi - sottratti a un negoziato di mercato, ma garantiti da norme di legge o convenzioni stipulate dagli enti pubblici - che vengono incassati da patronati e caf per i servizi erogati. Il dato è stato aggiornato circa un anno fa da Giuliano Amato, incaricato dal governo Monti di preparare una «nota sul finanziamento diretto e indiretto del sindacato». Nel dettaglio, si tratta di circa 430 milioni di stanziamento per i patronati e 170 milioni per i caf. Proprio tre delle quattro convenzioni caf sono in scadenza quest'anno all'Inps. Inutile dire quanto sia importante per il sindacato ottenere il rinnovo. Due anni fa furono proprio i tre segretari confederali di Cgil (Camusso) Cisl (Bonanni) e Uil (Angeletti) a prendere carta e penna per scrivere al ministro Elsa Fornero e sollecitare l'approvazione della bozza di convenzione Inps-caf. Nel mentre ciò accadeva, l'allora presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, venne considerato il «nemico numero 1» per avere chiesto di verificare la congruità dei compensi...

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dipocheparole     venerdì 27 ottobre 2017 20:42  82 Facebook Twitter Google Filippo Nogarin indagato e...