sabato 17 ottobre 2015

Come facciamo il Made in Italy fino a quando non togliamo dalle mani della mafia i prodotti agricoli?

Allarme Coldiretti: il business dell’agromafia vale 16 miliardi 

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Il business dell’agromafia non conosce crisi: allarme Coldiretti, affari illeciti per 16 miliardi, crescita a due cifre. Nel 2014, denuncia il Rapporto della Coldiretti, il business dell’agromafia ha raggiunto i 16 miliardi con un aumento del 10% «Il fatto che la criminalità organizzata tenti di infiltrarsi anche nel settore agroalimentare - spiega Ettore Prandini, Presidente di Coldiretti Lombardia - è la prova del grande valore di questo comparto e ci deve spronare a una sempre maggior tutela di quelle realtà sane che devono affrontare la concorrenza sleale generata dalle dinamiche mafiose». 
I capitali accumulati sul territorio dagli agromafiosi, attraverso le mille forme di sfruttamento e di illegalità - spiega Coldiretti - hanno bisogno di sbocchi, devono essere messi a frutto e perciò raggiungono le città, in Italia e all'estero, dove è più facile renderne anonima la presenza e dove possono confondersi infettando pezzi interi di buona economia. Vengono rilevati, attraverso prestanome e intermediari compiacenti, imprese, alberghi, pubblici esercizi, attività commerciali soprattutto nel settore della distribuzione della filiera agroalimentare.

Bravi ad amministrare i grillini. Complimenti!!!!

IL COMUNE GRILLINO DI RAGUSA RISCUOTE LE PERCENTUALI DELLE TRIVELLAZIONI PETROLIFERE E FA PAGARE LA TASI

federico-piccittoUn anno fa avevano fatto parlare di sé per un record: l’abolizione della Tasi, la tassa sui servizi indivisibili, cancellata per la prima volta a Ragusa dalla giunta del Movimento 5 Stelle, che dal 2013 ha piazzato la sua bandiera nel capoluogo ibleo.

“Questa è l’ennesima dimostrazione che quando le cose le fa un’amministrazione 5 Stelle riescono meglio” gongolava sul blog di Beppe Grillo il leader dei pentastellati siciliani Giancarlo Cancelleri, complimentandosi con il primo cittadino ragusano Federico Piccitto. Adesso che il premier Matteo Renzi annuncia di volere abolire l’odiata tassa a partire dal 2016, Piccitto è invece costretto al passo indietro: a Ragusa, infatti, la giunta sta per reintrodurre la Tasi.

“Temiamo che il passo indietro dell’amministrazione posso incidere sull’economia locale: consideri che lo scorso anno, la cancellazione della Tasi non aveva poi fatto ripartire più di tanto li consumi”, si lamenta Salvo Ingallinera, presidente della Confcommercio locale. “I rapporti tra giunta e città? Devo dire che quando ho chiesto a sindaco e assessori d’intervenire sui regolamenti comunali obsoleti per i commercianti ho trovato disponibilità: l’impressione è che siano in una condizione di work in progress. Il problema è che comunicano poco, e per questo si ha la sensazione di immobilismo”.

La stessa critica mossa da Valentina Spata, ex dirigente del Pd, poi andata via dai dem insieme a Pippo Civati, che nel 2013 aveva clamorosamente votato per Piccitto, invece di seguire le indicazioni del suo partito. “Probabilmente avrebbero potuto fare di più, ma non si può certo dire che stiano lavorando male: forse peccano nella comunicazione”.

E mentre nei bar della città lamentano l’assenza del primo cittadino all’ora dell’aperitivo (“Quelli di prima si vedevano spesso, lui raramente”), i 5 Stelle di Ragusa potranno disporre nel bilancio comunale di un’entrata unica: le royalties versate dalle compagnie petrolifere. Un tema spinoso che ha esposto la giunta Piccitto al fuoco incrociato delle polemiche. Nel giugno scorso, infatti, gli uffici comunali avevano dato il via libera alla richiesta di concessione edilizia presentata dalla società Irminio, per tre nuovi punti di ricerca.

Ambientalisti ed esponenti pentastellati erano insorti: come è possibile che un comune amministrato dai 5 Stelle dia il via libera alle tanto odiate trivellazioni petrolifere? In città la definiscono come una “contraddizione nei termini”, mentre Piccitto spiega: “L’opera aveva il nulla osta di tutti gli enti competenti, compreso il Comune di Ragusa, che però l’aveva concessa prima del nostro arrivo. La delibera del Comune, quindi è solo un atto tecnico, che non sposta la nostra contrarietà alle trivellazioni, ma che non poteva essere negata, dato che rischiavamo un contenzioso milionario con Irminio”.

Evitando il contenzioso, Ragusa potrà quindi continuare a godere delle cifre a sei zeri concesse dai cercatori d’oro nero: nel 2014 l’abolizione della Tasi era stata possibile anche grazie ai 14 milioni di diritti lasciati nelle casse comunali dalle società petrolifere, mentre negli ultimi 12 mesi le royalties ammontano addirittura a 29 milioni.

mader

Maroni parla al convegno anti-gender, vietato l'ingresso ai giornalisti. Un grande esempio di democrazia.

Ecco i paesi nei quali vorrei vivere.

Pagamento in contanti? In Danimarca e Svezia sono pronti a farne a meno

Il limite all'utilizzo del contante è argomento difficile, e spesso divide le opinioni quasi fosse una partita di calcio. Ci sono gli incalliti sostenitori del cash free, della serie: se il danaro è di mio decido io. E ci sono quelli che, soprattutto per comodità, delle banconote in tasca fanno volentieri a meno. Dietro questa visione un po' da stadio, si nascondono complessità finanziarie che attraversano territori delicati: corruzione, economia sommersa, ma anche tracciabilità e commissioni bancarie.
Oggi che il governo Renzi si appresta a innalzare il limite dei pagamenti in contante da 1000 a 3000 euro, diventano interessanti gli esempi di due Paesi che da tempo hanno intrapreso la strada del cashless, e che nei prossimi mesi sembrano pronti a dare l'accelerata decisiva. Si tratta di Svezia e Danimarca, nazioni dove – ironia della sorte – un limite vero e proprio al contante non esiste. Da Stoccolma a Copenaghen, l'idea di disfarsi dei pagamenti in cash si sta concretizzando settimana dopo settimana. Uno studio di Mastercard posiziona i due Paesi ai primi posti per l'utilizzo di pagamenti elettronici. E le mosse dei governi spingono in questa direzione.
A Copenaghen pagare un venditore ambulante con la carta di credito è ormai prassi. Anche gli strilloni che vendono i giornali lungo il Nyhavn, o agli angoli dei giardini di Tivoli, hanno un Pos attaccato alla cintura. Secondo uno studio della Danske Bank, oltre un terzo dei danesi utilizza la app MobilePay, che consente il pagamento attraverso gli smartphone. Da qualche mese, inoltre, si sta discutendo dell'eventualità di abolire l'obbligo – per i negozianti – di accettare pagamenti in contanti a partire dal 2016. E non è da escludere che presto molti negozi, ristoranti e pompe di benzina mandino in cantina la vecchia cassa. 
In Svezia la situazione è molto simile a quella danese. Uno studio dello Stockholm's KTH Royal Institute of Technology ha evidenziato un calo progressivo dei pagamenti in cash, con conseguente crescita delle transazioni attraverso carte di credito. Secondo lo stesso studio, molto presto la nazione dirà addio al contante. A Stoccolma, i ticket per i bus cittadini sono acquistabili a bordo, avvicinando lo smartphone alle colonnine connesse del mobile payment (tecnologia introdotta anche a Londra da qualche mese). E nei bar, o nei supermercati, accettano la carta di credito anche per pagare un pacchetto di chewingum. 
Limiti e opportunità tecnologiche
Il modello cashless è sicuramente agevolato dal progresso tecnologico. Titani come Apple e Google stanno spingendo con forza i loro metodi di pagamento in mobile (Apple Pay e Android Pay, già attivi negli Usa). E la propensione a essere sempre più smarphone centrici aiuterà questo processo. Di contro, due fattori importanti. Il primo è quello relativo alle frodi informatiche. Perché se col contante in tasca c'è il rischio di essere scippati attraversando una strada di periferia, una carta di credito è aggredibile in ogni momento e a prescindere dal luogo in cui ci si trova. Poi c'è il discorso della tracciabilità dei pagamenti, strettamente legato a una profilazione degli utenti che diventa estrema. E qui si apre un discorso infinito. Ma forse è un'altra storia.

Padre di Di Battista lo riconferma : non sono di destra , sono fascista

Condivido pienamente il pensiero di Facci. I grillini sono i peggiori parlamentari della storia della repubblica italiana.

http://bc.ilfattoquotidiano.it/rtmp/1328010481001/2015/10/1328010481001_4563593468001_Filippo-Facci-su-Mov5Stelle-deputati-e-senatori-pi--vergognosi-mai-avuti-in-parlamento-.mp4

Il paese nel quale Salvini potrebbe fare il premier.

MIGRANTI, "È L'UNGHERIA CHE SI STA CHIUDENDO DENTRO IL FILO SPINATO" Barriere alle frontiere, carcere per i migranti irregolari ed esercito schierato ai confini. Cosa sta accadendo in Ungheria, il Paese del premio Nobel Imre Kertész, di Ágota Kristóf e Sándor Márai e di intellettuali come Lukács e Ágnes Heller? Esistono alternative alla politica di chiusura del premier Orbán? Abbiamo cercato di capirlo con István Hegedűs, sociologo ungherese e presidente della Società ungherese per l'Europa Tweet49 Migranti, dopo il filo spinato al confine con la Serbia, il muro tra Ungheria e Croazia (foto) Migranti, la linea politica dei Paesi dell'Est Europa tra muri, chiusure e cambi di rotta Chi è Viktor Orban, l'uomo che sfida Angela Merkel sui migranti Ungheria, convoglio di auto per portare profughi in Austria Ungheria, il treno carico di migranti bloccato alla stazione. Fotoracconto dell'inviato di Rainews Frontiere blindate tra Serbia e Ungheria Migranti al confine tra Serbia e Ungheria (foto) Migranti, il premier ungherese Orban: "A rischio radici cristiane, leader Ue incapaci" Sui binari in fuga verso l'Europa: il dramma dei migranti al confine tra Serbia e Ungheria Ungheria, le foto degli scontri al confine con la Serbia tra migranti siriani e polizia di Alessandra Solarino 09 ottobre 2015 Frontiere chiuse, polizia schierata, 175 chilometri di filo spinato al confine con la Serbia, barriere in costruzione per bloccare le entrate dalla Romania e dalla Croazia. Nessuna solidarietà verso le migliaia di profughi in fuga da guerre e povertà, tre anni di carcere verso chi entra irregolarmente nel Paese: l'Ungheria dice no all'accoglienza dei migranti e critica Bruxelles e il sistema delle quote. Cosa sta accadendo nel Paese magiaro? "Siamo noi ad esserci confinati dentro un campo di concentramento. Negli ultimi cinque anni molti ungheresi hanno lasciato il Paese, Londra è diventata la nostra seconda città. Sono andati via giovani, laureati, intelligenze critiche che non voterebbero mai per questo governo. Mandarli via è stata per l'establishment una strategia vantaggiosa". Non fa sconti al governo di Budapest István Hegedűs, sociologo ungherese presidente della Società ungherese per l'Europa, a Roma per partecipare ad una tavola rotonda organizzata dalla John Cabot University sul tema "Germania e Paesi dell'Est di fronte all'emergenza profughi". Eppure Hegedűs, figlio di uno dei fondatori del circolo Petőfi, il gruppo di intellettuali che ebbe un ruolo decisivo nella contestazione che portò alla rivoluzione del 1956, è stato un componente di Fidesz, il partito dell'attuale premier, e ha creduto nella "rivoluzione" di Viktor Orbán. (István Hegedűs) "È una lunga storia  - ci spiega -  lasciai Fidesz 21 anni fa, perché Orbán e i suoi sostenitori stavano spostando il partito verso una direzione più conservatrice. Esso era liberale, centrista, alternativo, anti-comunista ma non avevamo nulla a che vedere con il conservatorismo, il populismo, l’autoritarismo che venne dopo. Sono stato costretto a lasciare, quello che stava accadendo era inaccettabile". La svolta autoritaria del premier si traduce, nel 2012, nella nuova Costituzione. E l'Ungheria da Repubblica d'Ungheria diventa soltanto Ungheria. I muri di Orbán Filo spinato al confine con la Serbia, carcere per i migranti irregolari, esercito alle frontiere. E quei nuovi muri in costruzione per chiudere ogni possibilità di entrata dai Paesi confinanti. Una campagna contro l'accoglienza ai migranti ("il governo - aggiunge - non parla mai di rifugiati ma di immigrati illegali") alla ricerca di un consenso politico che rafforzi Fidesz, da anni al potere. "Orbán iniziò questa campagna contro i rifugiati dopo i fatti di Charlie Hebdo - racconta Hegedűs - in realtà non avevano nulla a che fare con l’immigrazione, ma li usò per ragioni interne. Il governo avviò così una campagna xenofoba, con dei cartelloni su cui si leggeva: se entri in Ungheria non devi prendere i nostri posti di lavoro, devi rispettare la nostra cultura. Una campagna rivolta agli ungheresi, non ai rifugiati che non conoscono la nostra lingua, per riguadagnare il sostegno che aveva perduto, i voti di quanti si erano allontanati dal suo partito per avvicinarsi all’estrema destra". Non c'è stata solo la campagna cartellonistica. Prima dell'ondata di migranti dello scorso agosto, il governo ha inviato alle famiglie, via mail, un questionario sul tema della sicurezza e dell'immigrazione. Un binomio che ha fatto discutere, così come alcune domande. "C’erano quesiti come: preferiresti avere aiuti per la tua famiglia o per gli stranieri? Come pensate che abbiano risposto le persone? - incalza Hegedűs - Questa campagna sembra non sia stata molto efficace, non quanto quella dei poster. Non hanno cambiato molto la situazione ma credo che abbiano preparato il cambio di atteggiamento, di clima. E la gente all’arrivo dei migranti alle frontiere ha reagito con uno shock". Cosa pensano gli ungheresi? Nel tradizionale appuntamento davanti agli studenti dell'università Estiva in Romania, Orban ha detto che il Paese è con lui, e che l'Europa deve restare agli europei. Secondo dati diffusi dallo Spiegel, il 70 per cento degli ungheresi appoggerebbe la politica di chiusura verso i profughi. "È vero. Tuttavia  - spiega il sociologo - c’è un’altra parte della società che ha mostrato spontaneamente solidarietà verso i migranti, ad esempio in piccole città come Seghedino. Molti volontari sono andati alla stazione e hanno offerto coperte, cibo ed acqua. In questa parte della società c’è una visione liberale molto forte, purtroppo secondo i sondaggi minoritaria". La ricerca del consenso Hegedűs: "Fidesz non è più così popolare. Cinque anni fa Orbán aveva un’ampia maggioranza in parlamento, ha cambiato leggi elettorali, è riuscito ad ottenere i due terzi un anno fa, ma poi ha perso tre elezioni suppletive e sta usando il tema migranti per riconquistare voti". L'opposizione è debole e il leader magiaro, alla ricerca di consensi, ha fatto sue parole chiave e slogan del partito di estrema destra, Jobbik, sfruttando le paure e i pregiudizi di buona parte della popolazione. "Credo che la politica verso i rifugiati abbia portato consensi al partito di Orbán  - continua Hegedűs - ma non sappiamo se l'effetto migranti durerà per tre anni, quando ci saranno le elezioni, se la conquista del consenso sarà un fenomeno stabile o legato solo all'emergenza". Le ragioni storico-culturali​ Quanto incidono sulle scelte del premier magiaro fattori di carattere storico-culturale? L'Ungheria non fa parte del mondo latino né di quello slavo ed è senz'altro un Paese con una sua unicità, anche rispetto alle altre nazioni dell'Est Europa. "Questo è un tema che spesso il governo utilizza - charisce il sociologo - la storia ungherese è così speciale, dicono, che nessuno può comprenderci. C'è l’idea che ci meriteremmo più solidarietà dai Paesi occidentali, ma io credo che nella vecchia Europa si pensi l’opposto: siamo noi che dovremmo mostrare più solidarietà. E' vero che per noi è stato uno shock, non abbiamo mai conosciuto migrazioni nella nostra storia, a differenza di Paesi come l'Italia. Orbán -  prosegue - parla di valori cristiani, di islamismo ma usa un doppio discorso: quello che dice in patria non è quello che dice nei consessi internazionali, all'Onu. L’opinione pubblica non sa quel che dice all’estero, non è preparata, così è più facile per lui portare alla superficie le paure piuttosto che spiegare qual è la situazione reale". (Particolare della rotta dei Balcani) Il ruolo dei media e il dibattito sulla Rete In questo quadro è cruciale il ruolo dell'informazione. "Orbán ha cercato di occupare i media in generale, ma non ha avuto del tutto successo. C’è stata una certa resistenza, internet è abbastanza libero, si possono trovare molti giornali online abbastanza popolari che lo attaccano, ce ne sono anche vicini all’opposizione". E se la tv pubblica è sotto il controllo del governo "al cento per cento, così come l’agenzia stampa ungherese, su internet c’è un dibattito aperto", e "se molti cittadini guardano la tv ufficiale", ci sono anche alcuni esempi controcorrente. "Recentemente  - ci racconta - uno dei più importanti canali, in conflitto con il governo, ha iniziato ad ospitare politici ungheresi e lo share è aumentato. In genere si ritiene che la gente non sia interessata alla politica, ma questo dimostra che non è vero".  Orbán e la Russia di Putin La linea politica di Orbán sui migranti è evidentemente contraria ai valori dei trattati fondativi dell'Europa. E in questo quadro, è significativo il rapporto ambivalente del premier magiaro con Putin. Budapest da una parte ha votato a favore delle sanzioni economiche comminate a Mosca, dall’altra è in affari con la Russia. "Orbán ha deciso di aumentare la nostra dipendenza dalla Russia, al contrario della sua visione di qualche anno fa. Ha siglato un nuovo accordo con la Gazprom, vuole aumentare la capacità degli impianti nucleari, insieme alle aziende russe. Orbán vuole creare una sorta di 'spazio di manovra' per lui e il suo governo, non vuole essere un leale alleato di Putin ma vuole liberarsi del controllo delle istituzioni europee" e ribadire il concetto della sovranità nazionale, anche nel caso dei rifugiati. "Quando lui rappresenta la battaglia delle libertà dalle istituzioni europee, e si dichiara vicino a Putin, lo fa perché il suo obiettivo è affermare la propria indipendenza da entrambi. Ma è un approccio che non funziona: il risultato è che l’Ungheria è sempre più isolata nell’Unione Europea".    Il no ai migranti dei Paesi del gruppo Visegrad Perché gli altri Paesi dell'est Europa, in particolare il cosiddetto gruppo Visegrad nato nel 1991, hanno seguito Orbán nel gran rifiuto verso i rifugiati? "Il quadro è molto variegato - sottolinea Hegedűs - Orbán ha una buona relazione con il premier slovacco, Fico, anche se noi non abbiamo, tradizionalmente, buoni rapporti con la Slovacchia. C’è il problema degli ungheresi che vi risiedono senza avere la doppia cittadinanza, ma i due leader procedono mano nella mano in questa retorica nazionalista contro la maggioranza dei Paesi dell’Ue".  "La repubblica Ceca  - prosegue - è un caso diverso, ci sono più visioni euroscettiche". Nel vertice europeo dello scorso 22 settembre, Slovacchia e Repubblica Ceca si sono unite all'Ungheria per votare contro il piano di ripartizione dei 120mila profughi. La Polonia invece, il paese più grande tra quelli del gruppo Novigrad, dopo aver criticato Bruxelles ha votato a favore. "Il governo polacco ha deciso di unirsi alla maggioranza e accettare il sistema delle quote. Il problema potrebbe sorgere nel caso di un cambio di governo, se Kaczyński dovesse tornare al potere potrebbe sposare la posizione di Orbán e queste forze potrebbero essere più forti dentro l’Europa, anche se non credo sarebbero in grado di bloccare la decisione degli altri stati membri".  (Il gruppo di Visegrad e la chiusura verso i migranti) In questo quadro, c'è il rischio di una nuova cortina di ferro? "Non credo, ma certamente questa barriera costruita da Orbán sta crescendo".  Il muro in costruzione al confine con la Croazia è il primo (se si esclude Cipro) con un Paese dell'Unione Europea. "Siamo noi che ci siamo infilati dentro un campo di concentramento. Molti ungheresi hanno lasciato il Paese negli ultimi 5 anni, la seconda città ungherese è Londra, è un fenomeno nuovo e il regime può usare queste uscite a suo vantaggio, perché queste persone giovani, critiche, laureate non voterebbero mai Orbán".  (István Hegedűs con l'ambasciatore della Croazia, Grubisa, durante la conferenza alla John Cabot University) "Il cambiamento deve partire dall'interno" "Dovrebbero essere gli ungheresi stessi a capire quanto questo isolamento sia pericoloso - conclude Hegedűs -  e che la situazione economica anche può migliorare quest’anno ma negli ultimi anni non siamo stati al passo neanche con i nostri vicini dell’est. Orbán non è popolare, il problema è che l’opposizione è debole, frammentata, i liberali di sinistra hanno perso forza cinque anni fa e non hanno recuperato. Qualcosa sta cambiando ma questi segnali non sono sufficientemente forti la gente è stufa di tutto, dell’elite, di Orbán". Quanto al ruolo delle istituzioni europee "dovrebbero fare maggiori pressioni, isolarlo ancora di più, considerare persino delle sanzioni che non facciano male alla gente, simboliche. Ci sono molti modi per dimostrare che l’Ungheria non è sulla strada giusta. Potrebbe esserlo, ma se lo sarà nel lungo periodo è un bell’interrogativo".  - See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Migranti-Istvan-Hegedus-Ungheria-si-sta-chiudendo-dentro-il-filo-spinato-a147a2a8-33cf-4626-85ce-b8f78272d503.html

Vi ricordate Grillo cosa aveva detto su Pero?

Expo, Renzi "sconfessa" Grillo: 20 milioni biglietti, sfida vinta

Poi propone "patto": mettiamo avanti l'interesse del Paese

Expo, Renzi "sconfessa" Grillo: 20 milioni biglietti, sfida vintaRoma, 17 ott. (askanews) - Mentre a Imola si apre la kermesse pentastellata 'Italia 5 Stelle', il premier Matteo Renzi, in tour in Friuli Venezia Giulia, punta il dito contro Beppe Grillo e lo 'sconfessa' davanti alla platea del Teatro Nuovo 'Giovanni da Udine'.
"Un anno fa - dice il presidente del Consiglio - di questi tempi, la stragrande maggioranza diceva 'non andate a Expo, non lo fate', a me dicevano 'Matteo, stacci lontano'. Un autorevole pensatore...Beppe Grillo...diceva queste cose andando in delegazione a Rho". Tra le risate della platea per l'epiteto evidentemente usato in maniera sarcastica da Renzi per definire il leader M5s ("Perché ridete? Boni...", l'invito non meno ironico del capo del governo al suo pubblico), parte un video dove Grillo racconta la sua visita al cantiere Expo: "Sono arrivati tutti lì, molto discreti, educati, mi hanno detto 'guardi'. E io: non c'è un cazzo, cosa guardo? C'è un campo, quattro pezzi di cemento. E loro: 'Ci verranno 2 milioni di persone'. Ma chi è che viene a Rho?".
Finito il video, Renzi commenta: "Nella giornata di ieri l'altro il ventimilionesimo biglietto è stato venduto a Rho, in quel luogo, e soprattutto l'Italia ha dimostrato che le sfide si vincono e che se qualcuno ce l'ha col governo se la prenda col governo, non con l'Italia. Il problema vero è che quando ci diamo un obiettivo troppo spesso, anche tra di noi, c'è chi rema contro non perché ha a cuore il bene del paese ma perché vuole contestare chi guida la barca".
"Vorrei proporre un patto - è la conclusione di Renzi - a tutti: da qui ai prossimi due anni ciascuno di noi si tiene le sue idee, i suoi voti, i suoi pensieri ma a un certo punto di fronte a degli obiettivi condivisi possiamo mettere al centro l'interesse del paese. Expo è stato questo: abbiamo mostrato un volto dell'Italia, il volto di chi lotta per un ideale ma anche per avere un po' di orgoglio, per sentirsi battere il cuore quando si sente la parola Italia. Penso che Expo debba essere considerato un modello per l'Italia del futuro".

Riceviamo e pubblichiamo.

Basta “gentismo”, ridateci i politici

Il caso Marino, i guai della Livorno a Cinque Stelle: davvero crediamo che un passante possa fare meglio di un professionista?

Giorgio Cosulich/Getty Images

17 Ottobre 2015 - 01:28
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Dopo i danni causati dal ceto politico e dalla classe dirigente italiana, le cui responsabilità ventennali nel ritardo dello sviluppo del Paese sono evidenti, si sono cercati molti supplenti e salvatori della patria. Negli anni Novanta si pensava che la magistratura potesse aggiustare le manchevolezze della politica, dopo ruberie, malaffare e corruzione, e sulla società civile è stato costruito un mito ideologico. Si è diffusa l’idea che il passante arrivato quasi per caso su una poltrona sia migliore del politico che l’ha preceduto, in Parlamento o alla guida delle amministrazioni locali, anche se sappiamo bene che la società civile può essere anche più incivile del Palazzo.
«La convinzione che i politici non fossero degni di fiducia - scrive Matthew Flinders nel suo “In difesa della politica” - e che si potesse in qualche modo “togliere la politica” dalle loro mani ha determinato un mutamento della natura della governance moderna. Si tratta di un mutamento basato sul trasferimento di potere dagli eletti ai non eletti (ad esempio, giudici, economisti, scienziati, banchieri, contabili, tecnocrati, guardiani dell’etica, ecc.) ma che, per qualche oscuro motivo, sono considerati più legittimi e attendibili dei politici eletti». Epperò, dice Flinders, «non possiamo eleggere dei politici per poi negare la legittimità del loro ruolo», trasferendola ad altri organismi, magari - aggiungiamo con Colin Crouch - in un orizzonte post-democratico nel quale la sfera economico-finanziaria è prevalente su quella dei governi.
Si è diffusa l’idea che il passante arrivato quasi per caso su una poltrona sia migliore del politico che l’ha preceduto, anche se sappiamo bene che la società civile può essere anche più incivile del Palazzo.
Ora, le élite politiche hanno dato dimostrazione di meritarsi tutta la feroce ironia di cui siamo capaci, compresa quella classe dirigente delle Regioni che potrebbe trovarsi promossa al rango senatoriale nella nuova riforma di Palazzo Madama. Ma il risultato di questa operazione antipolitica è la creazione di un populismo istituzionale, praticato dagli stessi politici e costruito sull’elogio di una presunta purezza, sui cui risultati ci sarebbe molto da dire, come dimostra la vicenda dell’impolitico Ignazio Marino, il sindaco moralizzatore che finì moralizzato, secondo l’adagio di Pietro Nenni, ed è stato costretto a dimettersi: «A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura».
L’ideologia gentista - quella che “ce lo chiede la gggente" - è pericolosa, perché il pubblico può essere un padrone volubile da servire. Nel caso di Marino, restituire ventimila euro di spese per rappresentanza, tra cene e vini, è parso, più che un gesto di sfida nei confronti di chi non lo amava, solo un’ammissione di colpevolezza. «Ho deciso di regalarli tutti di tasca mia a Roma e di non avere più una carta di credito del Comune a mio nome». Un gesto di stizza, insomma: Marino che tratta se stesso come farebbe un grillino che ha beccato il “politico” (come se i parlamentari del M5S oggi non fossero a tutti gli effetti dei politici).
Matteo Renzi, quando la Corte dei Conti gli ha contestato spese di rappresentanza in Provincia a Firenze, non ha mai annunciato rimborsi. Anzi. Non è una differenza di poco conto. Questo non significa che la scelta di Marino più politica, e quindi più corretta fosse mentire di fronte alla cittadinanza. Non vorremmo però che alla fine fossimo messi di fronte alla scelta fra onesti ma incapaci e banditi che sanno benissimo come far funzionare un’amministrazione. La politica non è un mestiere per educande. «Nessuna etica del mondo - diceva Max Weber - può prescindere dal fatto che il raggiungimento di fini “buoni” è il più delle volte accompagnato dall'uso di mezzi sospetti o per lo meno pericolosi». Attenzione: sostenere questo non vuol dire affatto credere nella fantapolitica di House of Cards, cattiva e corrotta, ma neanche far finta di non capire in che mondo viviamo.
Come per ogni lavoro, non è giusto che la gente venga pagata poco, ma che venga pagata bene, se se lo merita. Diversamente, la selezione della classe dirigente avverrà per altre strade
Le battaglie gentiste hanno i soldi fra gli argomenti centrali del loro discorso pubblico. Il taglio lineare delle risorse della politica: bisogna sempre dimezzare dimezzare dimezzare, magari con ricadute pesanti non sulla grassa e strapagata società parlamentare, ma su chi fa politica nei territori, dove si è sottoposti a rischi finanziari e giudiziari (volete fare l’assessore all’urbanistica in Comune di trentamila abitanti? Tanti cari auguri).
Eppure, come per ogni lavoro, non è giusto che la gente venga pagata poco, ma che venga pagata bene, se se lo merita. Diversamente, la selezione della classe dirigente avverrà per altre strade. «Un reclutamento non plutocratico del personale politico, dei dirigenti e dei loro seguaci, è legato – scrive Weber ne “La politica come professione” – all’ovvio presupposto che dall’esercizio della politica provengano a questi politici dei redditi regolari e sicuri. La politica può essere esercitata o “a titolo onorifico”, e quindi da persone, come si è soliti dire, “indipendenti’” cioè benestanti, soprattutto in possesso di rendite; oppure il suo esercizio viene reso accessibile a persone prive di beni, che quindi debbono ricevere un compenso. Il politico che vive della politica può essere un puro “percettore di prebende” o un “impiegato retribuito”».

dipocheparole     venerdì 27 ottobre 2017 20:42  82 Facebook Twitter Google Filippo Nogarin indagato e...