Se è facile costruire l’unità contro il Partito democratico, appare più complesso, se non proprio impossibile, trovare un accordo sulle cose da fare
“Un nuovo inizio”: così Achille Occhetto, nel lontano 1989, lanciò la “svolta” che avrebbe portato la maggioranza del Pci al di là del Muro, nel territorio inesplorato della sinistra post-ideologica e della democrazia dell’alternanza. Oggi, alla Città dell’Altra economia (sic!), nel già rosso e ora grillino quartiere Testaccio di Roma, gli scissionisti del Pd si sono uniti agli scissionisti di Sinistra italiana per avviare – parola di Roberto Speranza e hashtag ufficiale dell’iniziativa – “un nuovo inizio” nella direzione esattamente opposta: cioè verso la democrazia del proporzionale e la ridotta ideologica della sinistra identitaria.
Se Speranza ai tempi della “svolta” era un bambino, Massimo D’Alema – assente oggi ma considerato un po’ da tutti il leader morale della scissione – invece la contrastò, seppure nelle forme tradizionali del centralismo democratico dei bei tempi andati: cioè dall’interno. A quasi trent’anni di distanza, D’Alema guida oggi la “controsvolta” retrogada, e diventa finalmente ciò che già era trent’anni fa: il leader del No.
Nel gioco un po’ surreale dei rimandi e delle nomenclature, si può anche ricordare come il nome scelto dagli scissionisti – “Democratici e progressisti” – unisca due sigle ben note alla travagliata storia della sinistra nella Seconda repubblica: “Progressisti” erano, nel ’94, i combattenti della “gioiosa macchina da guerra” (un’altra creazione linguistica di Occhetto) allestita dal Pds e da Rifondazione per battere Berlusconi (a proposito: i due partiti si erano scissi qualche anno prima); “Democratici” era invece il nome del partito di Romano Prodi, nato dopo la caduta del suo governo per lanciare il seme del futuro Partito democratico, in aperto contrasto con la linea dell’allora presidente del Consiglio, D’Alema, che predicava insieme a Cossiga il centro-sinistra col trattino, inteso cioè come coalizione fra partiti distinti e diversi – insomma, il partito di D’Alema si chiama come quelli dei suoi due arcinemici Occhetto e Prodi.
“Vogliamo ricostruire il centrosinistra, batterci per un nuovo centrosinistra nel Paese, libero da smanie autoreferenziali, dalla ricerca di un leader che rappresenta tutto e tutti”, ha spiegato Speranza, che del nuovo partito forse sarà il segretario e forse no. Ricostruire il centrosinistra togliendo un pezzetto al Pd e un pezzo più consistente a Sinistra italiana – l’unico partito che è riuscito, battendo ogni record, a scindersi nel giorno stesso del suo congresso costitutivo – può apparire un controsenso: ma è un’antica costante della sinistra non soltanto italiana separarsi in nome dell’unità.
E infatti, ahinoi, dall’assemblea fondativa della Cosina rossa vengono soprattutto strali polemici contro il Pd che avrebbe “snaturato la sua natura” (così Enrico Rossi), contro le primarie divenute chissà perché “un gioco di figurine” (così Speranza), e naturalmente contro Matteo Renzi, vero nemico pubblico numero uno nonché unica causa della scissione, come candidamente ammesso nelle ultime interviste televisive tanto da Bersani (“Con lui non mi sono mai preso”) quanto da D’Alema (“Se si rimuove Renzi, tutto si risolve”).
Se è facile costruire l’unità contro il Pd, appare più complesso, se non proprio impossibile, trovare un accordo sulle cose da fare, a cominciare dal governo Gentiloni: gli ex-Pd vogliono tenerlo in vita a tutti i costi, perché temono come la peste le elezioni anticipate, ma contemporaneamente chiedono un “cambio di direzione” che dovrebbe cancellare, o comunque ridimensionare, le riforme del governo Renzi; gli ex-Sel all’opposizione ci sono sempre stati, e non riescono a capire perché mai dovrebbero entrare in maggioranza proprio quando danno vita ad un movimento di sinistra-sinistra che dovrà disputarsi i voti con altri due movimenti di sinistra-sinistra, quello di Fratoianni e quello di Pisapia (che però, sostengono i bersaniani, dovrebbe unirsi a loro).
Insomma, grande è la confusione sotto il cielo. E dunque viene spontanea la domanda: ma ne valeva davvero la pena? Senza scomodare – come pure andrebbe forse fatto con più determinazione – uno scenario internazionale da brivido, basterebbe la situazione italiana ad indurre chiunque si consideri di sinistra ed erede della tradizione togliattiana di responsabilità nazionale a riconsiderare la scelta della scissione.
Mai come oggi la stessa impalcatura democratica del Paese sembra vacillare sotto i colpi congiunti della lunga crisi non ancora superata, dell’assalto grillino al potere, della potenziale instabilità finanziaria, dell’imminenza di elezioni senza legge elettorale, della rabbia crescente dell’opinione pubblica, del mai sopito protagonismo della magistratura militante, del qualunquismo dilagante dei media.
Tutti i democratici e tutti i progressisti dovrebbero pensarci non due ma cinque volte prima di portare il proprio contributo, limitato ma significativo, all’implosione del sistema.