Liberi cittadini contro il regime partitocratico, i privilegi della casta sindacale della triplice, la dittatura grillina e leghista, la casta dei giornalisti
sabato 20 febbraio 2016
La rissa sfiorata tra M5S ed ex in Senato
Rissa sfiorata nell’Aula del Senato tra M5S e ex del movimento durante l’esame del ddl Unioni civili. Mentre parlava Nunzia Catalfo sono volate parole grosse tra Alessandra Bencini, oggi in Idv, e alcuni senatori Cinque Stelle. La tensione è salita quando Laura Bottici, che è questore del Senato, ha cominciato ad inveire aggressivamente su Bencini. A fermarla, facendo scudo col suo corpo, è stato un altro questore, Antonio De Poli dell’Udc. L’atteggiamento di Bottici è stato stigmatizzato dal presidente Grasso. “I questori dovrebbero mantenere l’ordine…”.
De Poli, che è abbastanza alto di statura, ha fatto letteralmente da barriera, alzando le braccia, nei confronti di Bottici, anche lei abbastanza alta, mentre i senatori M5S continuavano a inveire sulla senatrice Bencini, pure lei richiamata all’ordine dal presidente. “Espellile”, hanno urlato a Grasso diversi senatori. E Grasso ha sottolineato: “Tutto questo non aiuta il dibattito”.
Alfio Marchini: «Mai incontrato Salvini. Noi liberi, Bertolaso ostaggio dei partiti»/VIDEO
Ospite a "La Prossima Roma" di Rutelli, l'imprenditore candidato alle Elezioni Roma 2016 nicchia sull'eventuale appoggio del leader della Lega Nord. E affonda contro l'ex capo della Protezione Civile: «Non è venuto perché lo hanno sconsigliato e lui ha obbedito»
Alfio Marchini: «Mai incontrato Salvini. Bertolaso? Ostaggio, noi liberi»
Dietro le quinte Matteo Salvini spinge per la sua candidatura, dopo lo stop a Guido Bertolaso che rischia di far collassare il centrodestra alle Elezioni 2016 a Roma. Ma Alfio Marchini, ai microfoni di Giornalettismo, smentisce di aver incontrato il leader del Carroccio e nicchia sul suo possibile sostegno: «No, non l’ho visto. Io spero nel sostegno dei 120mila romani che mi hanno già sostenuto e nel voto di tutta la città».
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Eppure l’imprenditore dal palco non si è risparmiato un affondo pesante contro l’ex Capo della Protezione Civile, che era atteso a “LaProssima Roma” di Francesco Rutelli, ma che non si è alla fine presentato per lo stop arrivato dal Cav. «Bertolaso?Se non si vince con una maggioranza autonoma, poi si è ostaggio dai partiti. Per questo ho detto che è un povero Cristo, non si è nemmeno fatto vedere perché gli hanno detto che non era il caso…». Non è un caso che, al contrario, Marchini si sbandieri nelle vesti del candidato «libero e autonomo».
ALFIO MARCHINI: «NOI LIBERI, BERTOLASO NO»
Eppure, in attesa che si risolva la faida Capitale del centrodestra, Marchini può già contare sull’appoggio di Ncd di Alfano e dei fittiani di CoR: «Ma guardi noi siamo un popolo di cittadini, liberi da veti e partiti. Questo ci permette di essere accoglienti, anche verso chi viene da un percorso storico diverso», si è difeso.
Sanità malata di corruzione e buchi neri. E, ancora una volta, in Lombardia. Ieri, infatti, la Guardia di Finanza di Varese ha rilevato un buco di 2,5 milioni di euro nei pagamenti dei ticket da “codice bianco” nei pronto soccorso degli ospedali di Varese. E come se non bastasse, sono stati segnalati alla Procura Regionale presso la Corte dei Conti di Milano, 38 dirigenti ospedalieri. L’attività di indagine è stata svolta su prestazioni erogate dal 2003 al 2014 e ha riguardato circa 200mila accessi in pronto soccorso con “codice bianco”, appunto, per il quale sarebbe previsto il pagamento di un ticket di 25 euro. Secondo quanto rilevato dalle fiamme gialle, invece, solo un cittadino su tre avrebbe effettivamente provveduto a versare il ticket nelle nove strutture.
La sfida Italia-Ungheria, Renzi contro l’Europa dei muri
Da Dante al Risorgimento, dal calcio alle bandiere tricolori, Roma e Budapest non erano mai state così distanti. Dietro lo scontro una differente idea di Europa e di democrazia
“Oh beata Ungheria, se non si lascia più malmenare”. Chissà se nel 1300, quando scriveva questi versi nella sua Divina Commedia, Dante si sarebbe mai immaginato la situazione odierna. Pare che il Sommo Poeta avesse particolarmente a cuore la terra magiara. Uno dei suoi biografi, Giovan Mario Filelfo, sostiene che Dante vi si sarebbe recato per ben due volte su incarico della repubblica fiorentina. Chissà se quando rivolgeva queste critiche al dominio francese, invitando Budapest a non lasciarsi più malmenare dagli angioini, si sarebbe mai immaginato che settecento anni dopo la “beata Ungheria” sarebbe diventata il simbolo dell’oscurantismo europeo e se un suo conterraneo, che di nome fa Matteo Renzi, avrebbe provato, opponendovisi, a salvare un’idea di un’Unione giusta, accogliente e solidale.
Probabilmente si sarebbe immaginato quello che è successo in questi settecento anni. Sette secoli in cui l’Italia e l’Ungheria, pur con qualche alto e basso, hanno mantenuto un legame solidissimo, nonostante la distanza fisica, linguistica ed etnica tra Roma e Budapest. Un legame reso forte dal comune nemico asburgico negli anni del Risorgimento e poi coltivato anche dal punto di vista sociale e culturale. Nel settore linguistico lo studio dell’italiano nelle scuole magiare risale al 1922. Tra Italia e Ungheria, accomunate anche dai colori delle rispettive bandiere, si ricordano epiche sfide calcistiche (nel video la finale dei mondiali del 1938) e in un altro sport praticato e amato sia da noi che da loro: la pallanuoto. Oggi Roma è il quinto partner commerciale di Budapest, con un interscambio di 5,6 miliardi di euro.
Da qualche anno, però, l’Ungheria sta facendo parlare di sé soprattutto a causa di un uomo che, di questo siamo sicuri, a Dante non sarebbe piaciuto. Parliamo di Viktor Mihaly Orban, primo ministro dal 1998 al 2002 e, con un impatto politico ben più importante, dal 2010 ad oggi. A capo di un partito conservatore, patriottico ed identitario (Fidesz), Orban guida il governo più liberticida d’Europa. Ha imposto riforme volte alla nazionalizzazione dell’economia, abbandonando le politiche liberiste del suo primo esecutivo, scritto la parola fine all’indipendenza della Banca Centrale Ungherese, inasprito i rapporti con l’Unione Europea, allontanato qualsiasi ipotesi di entrata nell’euro, messo in discussione il concetto stesso di democrazia liberale.
Eppure nel 2014 è stato rieletto ed ha ottenuto una schiacciante maggioranza assoluta, complice la ripresa economica che ha tirato fuori il Paese dalle sacche della storica crisi che l’ha colpito dalla fine delle repubbliche socialiste est-europee ai giorni nostri. Forte del consenso ricevuto, Orban ha ulteriormente forzato il suo atteggiamento di governo, fino a diventare il simbolo e il portavoce delle posizioni più oltranziste (incarnate in primo luogo dai quattro Paesi del Gruppo di Visegrad dell’Europa centro-orientale) nella gestione dell’emergenza migranti. Budapest è stata la prima a reintrodurre nel lessico e nell’immaginario europeo il concetto di muro, che tutti pensavamo ormai superato. La barriera con la Serbia in chiave anti-profughi, eretta per bloccare la cosiddetta rotta balcanica dei migranti, è stato purtroppo solo il primo episodio del ritorno del cemento e del filo spinato lungo i confini che separano il nostro continente.
Contro tutto questo, contro l’Europa dei muri, in particolare contro l’idea che alcuni Paesi possano avere accesso ai fondi europei per affrontare la storica emergenza migranti senza che questo corrisponda ad un impegno nell’accoglienza e nelle redistribuzione dei profughi, si è schierato il premier italiano Matteo Renzi. La reazione di Budapest è immediata, il governo parla di “ricatto politico” da parte di Roma e, contestualmente, annuncia che da domenica i suoi tre passaggi di frontiera ferroviari con la Croazia saranno chiusi. Tutta la rotta balcanica vede nascere steccati uno dietro l’altro. L’Austria fissa un tetto ai richiedenti asilo, a cascata reagiscono tutti gli altri, dalla Slovenia alla Serbia alla Macedonia. La Grecia, in prima linea nella gestione dell’emergenza, minaccia rappresaglie nella trattativa per evitare Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione. Una situazione incandescente, che potrebbe portare a conseguenze disastrose. Un inferno. Forse troppo, pure per Dante.
Il direttore di Gay.it dice sì alla legge Cirinnà senza la Stepchild Adoption
Alessio De Giorgi, direttore di gay.it, è intervenuto su Radio Cusano Campus sul tema delle unioni civili spiegando che la legge va portata a casa anche con lo stralcio della stepchild adoption. “Mi stanno scrivendo molte persone in questi mesi. Sono in tanti a pensare che sarebbe meglio accettare le unioni civili, anche senza stepchild adoption – ha spiegato -. Il 95% di noi omosessuali non ha figli e non intende averli. Perché fa una scelta di vita diversa, basata su due persone. Il senso di paternità, magari, lo sfoga sui nipoti. La scelta delle coppie gay italiane è in larga parte condivisa. Questa discussione mi convince poco, anche in termini culturali questo insistere sulla famiglia soltanto quando hai figli non corrisponde al vero. Le famiglie gay italiane si tengono in piedi in larga parte senza figli. Perché io e il mio compagno, per quanto potremmo insistere, di figli non ne potremmo mai avere”.
La posizione di De Giorgi è quantomeno curiosa. A parte l’argomento del “Mi stanno scrivendo tanti che dicono che”, un classico delle argomentazioni raffazzonate (tanti comunque stanno scrivendo al Family Day e dicono che non vogliono alcuna legge: che si fa, la gara delle email?), la decisione di non avere figli si prende, di solito, in coppia, e si cambia, in coppia, a distanza di mesi e in base alle circostanze materiali di una coppia e alle loro necessità. Come si fa a pensare che chi oggi, legittimamente, non vuole avere figli tra dieci anni la penserà alla stessa maniera? In ultimo, quello di cui stiamo parlando è un’opportunità di legge: la SA non costringe nessuno ad avere figli (così come, ad esempio, la legge sul divorzio non costringe a divorziare e quella sull’aborto non costringe ad abortire): ci vuole così tanto a capire che il punto sono la libertà e i diritti, e non la contingenza?
Donald Trump ha lanciato un appello a boicottare la Apple fino a che la casa di Cupertino non fornirà il software per sbloccare l'iPhone del killer di San Bernardino. Le parole del candidato repubblicano alla Casa Bianca durante un evento elettorale in South Carolina.
Sanders serve via di mezzo - ''Sono molto preoccupato, in America, per il 'grande fratello', ma dovrebbe esserci una via di mezzo tra la lotta al terrorismo e la protezione dei diritti costituzionali'': cosi' il senatore 'socialista' Bernie Sanders ha commentato in serata, prima di un dibattito a Las Vegas trasmesso in diretta da Msnbc, il rifiuto opposto da Apple ad un giudice federale di 'sbloccare' l'iPhone di uno degli autori della strage di San Bernardino per il timore di creare un "precedente pericoloso" per la privacy dei cittadini.
Hillary, serve compromesso - Anche Hillary Clinton, come Bernie Sanders, e' per la ricerca di una via di mezzo nella battaglia per la privacy dopo il rifiuto opposto da Apple all'ordine di un giudice federale di 'sbloccare' l'iPhone di uno degli autori della strage di San Bernardino, per il timore di creare un ''precedente pericoloso'' per la privacy dei cittadini. ''E' uno dei dilemmi piu' difficili'', ha ammesso in un dibattito in stile town hall a Las Vegas, Nevada, alla vigilia dei caucus democratici. ''Capisco entrambe le parti, credo che gran parte dei cittadini veda entrambe le parti. Ecco perche' c'e' bisogno di una persona in carica che possa provare a portare la gente insieme verso un compromesso'', ha aggiunto.
Udienza Apple-Fbi fissata per il 22 marzo - Approda in tribunale la battaglia tra Apple e Fbi, dopo la decisione dell'azienda di Cupertino di opporsi all'ordine di una corte federale di aiutare l'Fbi a sbloccare l'iPhone5 usato da uno dei killer della strage di San Bernardino. Una corte federale della California ha infatti fissato per il 22 marzo l'udienza relativa al caso, come ha reso noto un portavoce della procura per il distretto centrale della California.
Governo Usa, 'Apple aiuti Fbi e sblocchi iPhone' - Sale la tensione tra l'Amministrazione Usa e Apple. Il Dipartimento della giustizia ha infatti presentato un'istanza nel tentativo di costringere la Casa di Cupertino a rispettare il provvedimento in cui si ordina lo sblocco dell'iPhone di uno dei killer di San Bernardino. Sblocco richiesto dagli agenti Fbi. L'istanza presentata dal Dipartimento della Giustizia consiste in una richiesta al giudice di prendere una decisione sul caso, dopo che il numero uno di Apple, Tim Cook, si e' rifiutato di procedere allo sblocco dell'iPhone, giudicandolo un precedente pericoloso per la difesa della privacy.
Il Nyt si schiera con l'azienda di Cupertino - Il New York Times approva in un editoriale la decisione della Apple di opporsi all'ordine di una corte federale di aiutare l'Fbi a sbloccare l'iPhone5 usato da uno dei killer della strage di San Bernardino. Per il quotidiano sono "comprensibili" gli obiettivi degli investigatori federali e del governo "ma Apple sta facendo la cosa giusta sfidando la decisione della corte che richiede di ottemperare" al suo ordine. Il Nyt ricorda che "la Costituzione e le leggi nazionali limitano come gli investigatori e i magistrati possono raccogliere le prove" e cita un caso del 1977 riguardante la New York Telephone Company in cui la Corte suprema stabili' che il governo non può costringere una parte terza non coinvolta nel crimine ad assistere le forze dell'ordine se questo comporta "oneri non ragionevoli", come capiterebbe se la Apple dovesse creare un nuovo software per forzare il sistema di sicurezza dell'iPhone in questione. In tal caso, secondo il giornale, ci sarebbe un "effetto che va al di la' dello sblocco di un solo iPhone" perche' i tribunali potrebbero usare questo software in altre indagini o ordinare di crearne di nuovi per soddisfare nuove esigenze. Inoltre, sempre secondo il Nyt, gli investigatori hanno altri mezzi per raccogliere prove, ad esempio il sequestro dei dati immagazzinati su iCloud e su Gmail. "Anche se il governo prevalesse costringendo Apple ad aiutare (le indagini, ndr), questo ben difficilmente sarebbe la fine della storia", conclude il quotidiano.
A gennaio cresce la Cig: persi 218 milioni di redditi
Il mese scorso la cassa integrazione guadagni è cresciuta del 33,86% rispetto a dicembre: coinvolti 330mila lavoratori a zero ore che hanno subito tagli per 640 euro a testa
MILANO - A georna ad aumentare la cassa integrazione guadagni, con una crescita del 33,86% rispetto a dicembre 2015 e del 12,84% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Lo afferma la Cgil sottolineando che l'aumento è legato, nella quasi totalità, alle ore di Cigs (cassa integrazione guadagni straordinaria) che hanno segnato un incremento del 70,40% sul mese precedente (+69,61% sul 2015). Nel solo mese di gennaio, i lavoratori in Cig hanno perso in totale circa 218 milioni di euro del reddito al netto delle tasse.
Ogni singolo lavoratore in cassa integrazione a zero ore ha subito una riduzione del salario al netto delle tasse di oltre 640 euro. Dal rapporto 'gennaio 2016' dell'Osservatorio Cig della Cgil, frutto di elaborazioni delle rilevazioni sulla cassa condotte dall'Inps, emerge che il volume delle ore di Cig del mese scorso conferma l'assenza di attività produttiva (zero ore) per potenziali 330 mila posizioni lavorative. Secondo il rapporto le regioni dove la richiesta di ore di Cig è tornata a salire nel mese di gennaio sono Piemonte, Toscana, Umbria, Lazio e Molise.
I settori più in difficoltà e con più ore richieste restano quello meccanico (con un aumento del 98,87%) e quelli del commercio e dell'edilizia, che però registrano una riduzione delle ore rispetto al mese precedente. "Per recuperare la sotto utilizzazione degli impianti e la messa a regime del sistema produttivo
- si legge nel rapporto - c'e ancora molto da migliorare. Nella maggioranza delle crisi aziendali restano sempre troppo pochi gli interventi attivi, le crisi aziendali vengono costatate ma nella quasi totalità dei casi non vengono avviati interventi strutturali di miglioramento".
"Insegno a Harvard, ma sono stato rifiutato dal Politecnico di Torino": Vincenzo, cervello di ritorno che l'Italia non vuole
La Stampa
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È uno dei 24 cervelli "prestati" alle università straniere dove hanno sede i migliori centri di ricerca nel suo campo, ma l'Italia non lo vuole. Vincenzo Dimonte, 33 anni, laureato in matematica a Udine, emigrato a Vienna e operante anche ad Harvard, è stato rifiutato dal Politecnico di Torino. Il motivo?
È un valido ricercatore, ma non un’eccellenza.
Così lo liquida il direttore del dipartimento di Scienze matematiche del politecnico di Torino in risposta al perché del rifiuto, come si legge sulle pagine de La Stampa. Eppure lo Stato lo aveva fatto ritornare nel 2014, attraverso un bando voluto dal ministero dell'Università e intitolato a Rita Levi Montalcini. Dimonte era stato selezionato tra i migliori, ai quali saranno assegnati posti da ricercatore in università a loro scelta e un contratto da professori associati dopo tre anni.
Il matematico non si è fatto sfuggire l'occasione, ha scelto il Politecnico di Torino, ha sostenuto i colloqui ma la risposta è arrivata secca e inaspettata: rifiutato. Dimonte commenta:
Temendo l’esterofobia delle università italiane, che si fidano poco dei ricercatori esterni preferendo gli “autoctoni”, ho optato per un grande ateneo che pensavo all’avanguardia
.
E, invece, il dipartimento non lo vuole.
Non ha alcuna esperienza didattica e durante i colloqui non ha mostrato particolari capacità di interrelazione utili per il rapporto con gli studenti.
Vincenzo Dimonete, eccellezza tutta italiana, ha visto riconosciuto il proprio valore da Vienna, dall'università americana di Harvard, ma non dall'università italiana che ha scelto. Il matematico non si è arreso, ha già ripiegato su un'altra università, ma non si capacita:
È uno sforzo inutile se non si sradicano dalle università gli atteggiamenti di chiusura verso chi arriva da fuori. Oggi dissuaderei i miei colleghi dal tornare in Italia: non si può fare ricerca in un ambiente ostile.