mercoledì 5 novembre 2014

Basta privilegi dei sindacalisti. Basta sciocchezze dei grillini. Basta caste di tutti i tipi. Questo paese deve pensare solo ad una cosa: ai suoi giovani che sono il futuro di una nazione.

Non esistono lavori che i giovani non vogliono fare

Dichiarare che i giovani sono disoccupati perché non vogliono fare lavori umili significa offenderli
Mark Ralston/Afp/Getty Images

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L’ultima ricerca risale allo studio della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, ma spesso la stampa riporta anche quelle realizzate da Cgia di Mestre o dal sistema di rilevazione dei fabbisogni aziendali Excelsior. Tutti studi che “enfatizzano” la difficoltà di trovare alcune professioni (infermieri, falegnami, pizzaioli, ecc…). Un esercito di opportunità da subito disponibili, ben pagate, regolari e spesso a tempo indeterminato che “nessuno, ma proprio nessuno” vuole fare. 
Impossibile, se pensiamo che l’Italia è un paese con un tasso di disoccupazione che viaggia al 13 per cento, con milioni di ore di Cassa integrazione in deroga, altri milioni di lavoratori inattivi ma disponibili a lavorare (almeno 3), e una quota sempre più consistente di lavoratori “atipici” e precari. Tra queste informazioni non dimentichiamo il dato più inquietante, ovvero quel 40 per cento di disoccupazione giovanile, destinato quasi sicuramente a salire nel breve tempo.
Prima di entrare nel merito della questione è giusto evidenziare che non si mettono in dubbio le buone intenzioni delle ricerche precedentemente segnalate, così come va evidenziato che in qualsiasi mercato del lavoro è presente una sorta di equilibrio tra imprese e forza lavoro e se questa non avviene le cause possono essere molteplici e mai solo una. Può essere che la forza lavoro non partecipi al mercato del lavoro perché la remunerazione è troppo bassa, magari in . presenza di ammortizzatori sociali o di qualsivoglia sostegno economico da parte del nucleo familiare. Può essere vi sia un mismatch di competenza, che la forza lavoro non sia in possesso delle competenze necessarie (o non adeguate) per svolgere un determinato lavoro e che pertanto siano necessari investimenti in capitale umano per garantire che il “potenziale” lavoratore sia sufficientemente formato per svolgere la propria mansione. O ancora, può essere che l’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro non si realizzi per scarsa informazione sul mercato del lavoro o per la distanza tra residenza e luogo di lavoro.
Queste tre possibili cause sono sempre in relazione ad altri fattori molto importanti, tra cui l’aspettativa della persona disoccupata. Desideri e aspirazioni incidono tantissimo sulla ricerca di un lavoro e dipendono da alcuni aspetti socio-anagrafici come l’età e soprattutto il livello e qualità del titolo di studio in possesso. Altro fattore fondamentale è il tempo: più passa e più le aspettative possono cambiare. A concorrere con questo fattore ci sono la garanzia o meno di avere un sostentamento, così come la presenza di “carichi” familiari. 
In parole povere, la ricerca e il successo di una mediazione tra domanda e offerta di lavoro non è un percorso perfetto, quanto piuttosto un strada “incidentata” che prevede al suo interno numerose variabili che rendono la destinazioni piena di compromessi, occasioni mancate e una quantità industriale di rifiuti. La questione centrale è quanto sono rilevanti nel contesto italiano.  Il sospetto, piuttosto, è che in Italia essi siano tutti fattori trascurabili rispetto ad un fenomeno di eccesso di offerta di lavoro dettata da fenomeni esogeni che nulla hanno a che vedere con la regolazione del mercato del lavoro.

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Si pensi al salario di riserva: è vero che in Italia una buona parte della popolazione Neet (ovvero coloro che non lavorano e non studiano) è  determinata da una scarsa propensione nell’accettare lavori non coerenti con le loro aspettative o non sufficientemente retribuiti (per intenderci tirocini fasulli per attività a basso contenuto innovativo pagati 300 euro), ma è altrettanto vero che oggi è presente un vero e proprio esercito di riserva che farebbe salti mortali pur ottenere quello stesso tirocinio da 300 euro, figuriamoci un lavoro ben pagato. 
Relativamente alle competenze, l’enfasi della stampa per le dichiarazioni di qualche Ceo di importanti aziende nazionali o internazionali che offre “fantastici ed entusiasmanti” percorsi di apprendistato è compèrensibile, ma basta un banalissimo controllo con l’analisi delle fonti amministrative di qualsiasi Osservatorio del mercato del lavoro provinciale o nazionale per capire che le mansioni che registrano più avviati sono a bassa qualifica (collaboratrici domestiche, badanti, commessi, segretarie, addetti alle attività di ristorazione, ecc… ) e dove si verifica spesso un fenomeno di conclamata sovra-istruzione. Date queste premesse, dare come priorità la formazione della nostra forza lavoro perché non possiedono le competenze adeguate, significa discutere probabilmente di una microscopica quota neo-assunti.

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Il mismatch tra domanda e offerta, infine, è nel 2014 un fattore quasi trascurabile, dato che qualsiasi imprenditore sia di piccole o grandi dimensione, può tranquillamente registrarsi in almeno decine di portali online o recarsi in un qualsiasi Centro per l’impiego (o Agenzia privata del lavoro) e riceverà migliaia di curriculum. Chiunque si occupi di politiche del lavoro confermerà che queste strutture sono letteralmente prese d’assalto da ogni tipo di disoccupato e il loro problema, semmai, è quello di trovare aziende disposte ad assumere.La realtà è che data l’attuale recessione e la difficoltà di sviluppare programmazioni di medio periodo, le aziende in Italia cercano poco e puntano a spendere il meno possibile. In questo modo, la mediazione tra domanda e offerta si fa veramente ardua. 
È un destino segnato quello della mobilità geografica del lavoro, ma non va vista come un segnale negativo. Il mercato del lavoro è ormai globale, molti laureati se vorranno svolgere un lavoro coerente con il loro titolo di studio dovranno sempre più guardare all’estero, soprattutto perché le aree di innovazione saranno sempre più concentrate in “metropoli globali” (vedi Enrico Moretti, 2013, La nuova geografia del lavoro, Mondadori) questo non toglie che anche in Italia possono nascere start-up legate ad alcuni ambiti particolari, ma il rischio è che si tratti soprattutto di castelli in mezzo al deserto. 
Il nostro paese deve assolutamente rappresentare un terreno di conquista dei nuovi mercati, certo non aiuta avere una forza lavoro con una scarsa padronanza della lingua inglese e se pensiamo che proprio le generazioni più giovani, anche quelle con elevate competenze linguistiche e informatiche, sono fuori dal mercato, vuol dire che il mercato del lavoro italiano non è meritocratico, nè grado di raccogliere in questo momento neppure le risorse migliori. E questo è il peggiore dei problemi, quando si deve provare a ripartire.

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