giovedì 6 novembre 2014

Riceviamo e pubblichiamo.

C’è disoccupazione? La scuola deve insegnare a lavorare

Uno studente su tre abbandona gli studi. Ci vogliono sinergie tra aziende, territorio e formazione
Frederick Florin /Afp/Getty Images

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I numeri forniti in un approfondito dossier dalla rivista Tutto Scuola sulla dispersione scolastica negli ultimi quindici anni indicano chiaramente una delle cause della crisi del nostro Paese. Soprattutto per quel che riguarda il dato delle isole, con il 35% nelle sole Sardegna e Sicilia, assistiamo ad una vera e propria emorragia che determina gravi conseguenze sociali e si lega in modo evidente al fenomeno dei Neet, i giovani tra i 15 e i 29 anni che non sono iscritti a scuola né all'università, che non lavorano e che nemmeno seguono corsi di formazione o aggiornamento professionale. Nel nostro Paese questi ragazzi sono più di 2 milioni e cioè il 23,9. Negli ultimi 15 anni ha abbandonato la scuola il 31,9% di studenti delle superiori, in pratica uno su 3. La dispersione si concentra soprattutto negli istituti professionali, con un 37% e in quelli istituti tecnici. 
È evidente come questo fenomeno si sia rapidamente trasformato in disoccupazione strutturale, una componente che nemmeno i contratti più flessibili riuscirebbero a inserire nel mondo del lavoro, con conseguenze a catena anche dal punto di vista pensionistico.
Per combattere questo drammatico fenomeno la strada c'è: programmare interventi a tutto campo nell’ambito del rapporto scuola lavoro per rendere quanto più competitivi possibile gli attuali e i futuri lavoratori. L’obiettivo evidente è quello di aumentare il livello di competitività e di occupazione. Solo investendo in questo settore potremmo tornare a crescere. Dobbiamo rafforzare le buone pratiche di percorsi di studi professionalizzanti e qualificanti potenziando l’alternanza scuola lavoro e promuovendo nuove sinergie tra aziende, territori e formazione. L'apertura delle scuole al territorio e la contaminazione tra capacità e attitudini dei ragazzi e competenze da sviluppare per incontrare il mercato del lavoro è la premessa da cui partire. I modelli a cui guardare sono quelli già sperimentati con successo in alcune regioni italiane, oppure quello duale tedesco, che fa registrare la disoccupazione giovanile più bassa d'Europa, e che è stato imitato dalla Provincia di Bolzano, in cui le aziende sostengono parte dei costi della formazione professionale e partecipano in modo attivo alla formazione degli studenti che riescono poi ad inserirsi per il 98% nel mercato del lavoro. L’apprendistato in Germania permette di effettuare l’intero percorso di istruzione – essenzialmente dalla scuola secondaria alla laurea - in alternanza tra studio e lavoro, costituendo il ‘ponte’, di cui anche i giovani italiani avrebbero bisogno, per transitare dalla scuola al lavoro. Questo sistema sembra il più efficace strumento di accesso al mondo del lavoro e di sostegno all’inclusione sociale.
La strada tracciata nel Rapporto la Buona scuola e i fondi stanziati nella Legge di Stabilità rappresentano il primo passo verso una riorganizzazione del sistema. Nessuna vera riforma del lavoro potrà essere davvero efficace se non sapremo farla dialogare e interagire con una riforma complessiva della formazione professionale. Essa viene incontro, da una parte, ai fabbisogni formativi espressi dalle aziende; dall'altra alle esigenze dei giovani di acquisire competenze e dei lavoratori di mantenersi aggiornati rispetto ai continui cambiamenti del mercato. Secondo la strategia europea 2020 l’apprendimento va considerato uno dei motori essenziali dello sviluppo. Quindi pur riconoscendo le difficoltà di reperire fondi aggiuntivi dobbiamo necessariamente investire sulla formazione incrementando sinergie  che producono ricerca e innovazione, sviluppo e occupazione.
Purtroppo, la formazione professionale è utilizzata come canali di serie B destinato a giovani emarginati e non è mai stata valorizzata nei collegamenti virtuosi con il sistema produttivo del territorio. Il riordino Gelmini l’ha ulteriormente indebolita con il taglio delle opzioni e delle figure professionali, il taglio di laboratori, stage e tirocini e l’azzeramento di tutte le idee innovative e le buone pratiche realizzate nelle più recenti sperimentazioni. 
Ma come possiamo favorire l’ingresso dei ragazzi nel mercato del lavoro, creando dei percorsi virtuosi che tendano a scardinare il concetto che l'istruzione tecnica è di Serie B rispetto a quella intellettuale di Serie A? Nella fase attuale, e per fare in modo che si fermi la crescita dei giovani inattivi, è necessario focalizzare l'attenzione sui ragazzi che frequentano la terza media orientandoli anche al sapere professionalizzante, indirizzandoli e accompagnandoli in questi percorsi, introdurre l'alternanza scuola-lavoro obbligatoria e rilanciare il contratto di apprendistato in tutte le sue forme. In questo modo si sostengono sia i giovani sia le aziende, che in questo momento hanno bisogno di forza lavoro da impiegare per uscire dalla crisi. L’alternativa è quella di continuare a impedire la ripresa economica ingrossando le fila degli "analfabeti lavorativi" e ampliare il divario tra le necessità delle imprese e l'offerta di diplomati e laureati.

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