sabato 23 aprile 2016

Davigo scaricato dai colleghi magistrati. Cantone, Bruti Liberati, Ardituro e gli altri: "Non ci sono toghe buone contro Italia dei cattivi"

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DAVIGO

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"Dire che i magistrati devono parlare solo con le loro sentenze equivale a dire che devono stare zitti". Il presidente dell'Anm Piercamillo Davigo non ha fatto nomi ma ha fatto arrabbiare tutti. Con un uno-due, costituito da una intervista al Corriere della Sera e da un successivo intervento pomeridiano, il neo presidente dell'Anm Piercamillo Davigo schiera la sua Associazione contro la politica in generale, e più in particolare contro il Pd e il governo. Ma i suoi colleghi, soprattutto quelli più rappresentativi, hanno preso le distanze e hanno criticato duramente le sue parole tanto da far venire alla luce una spaccatura nel mondo della magistratura. 
Parlano tutti: Raffaele Cantone, presidente dell'autorità nazionale Anticorruzione; Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore capo di Milano, ex membro del Csm, per anni all'Associazione nazionale magistrati, dopo le dichiarazioni del presidente dell'Anm; Antonello Ardituro di Area; Luca Palamara, predecessore di Davigo alla guida dell'Anm; Antonello Racanelli, procuratore aggiunto a Roma e leader di Magistratura indipendente. 

Cantone al Corriere della Sera: "Le manette non bastano, per questo 'Mani pulite' ha fallito"
cantone
"Mani Pulite ha fallito perché le manette da sole non bastano. La fiaba della magistratura tutta buona e della politica tutta cattiva è falsa. Non sono la ruota di scorta di Renzi. Constato solo che il governo contro la corruzione si sta muovendo. Oggi è meglio che nel 1992".
Che in Italia abbiano vinto i corrotti, spiega Cantone, "non è assolutamente vero. Dire che tutto è corruzione significa che niente è corruzione, e il sistema non può essere emendato.
"Io non accetto questo pessimismo cosmico. Mi ribello a questa visione che esclude qualsiasi ricetta. Non è vero che oggi è peggio di Tangentopoli, è vero che Tangentopoli non sradicò la corruzione, che è continuata come un fiume carsico. Ma ora vedo molte persone che vogliono provare a uscirne. E pensano che la soluzione non sia solo la repressione, che la ricetta non sia solo la stessa del 1993, che all'evidenza ha fallito (...). L'idea che tutto si risolva con le manette è stata smentita dai fatti".
Sul fatto che anche Pier Camillo Davigo parli di prevenzione, Cantone spiega di continuare "a farlo" anche lui: "Ho parlato di agenti infiltrati un mese fa, a un convegno di magistrati. Capisco che Davigo possa non seguire quello che dico, ma in questo caso non è molto informato". Cantone segnala anche "gli aspetti critici" che esistono nella magistratura.
"La magistratura molto spesso non riesce a dare risposte ai cittadini, perché è sovraccaricata di compiti non suoi. Si pensa che debba occuparsi soprattutto dei grandi temi, e un pò meno del senso di giustizia individuale. La magistratura ha meriti eccezionali, ma sarebbe scorretto non evidenziare che certi meccanismi organizzativi non funzionano. Ci sono criticità, ma c'è uno sforzo autentico, e se ne vedranno i risultati (...). Scandali e arresti? Sono fatti molto gravi. Ma se emergono è la prova che il sistema reagisce. Fino a poco fa qualche leader politico sosteneva che la corruzione non esisteva; oggi nessuno la nega. Non dico che la strada sia conclusa, sarei un folle. Ma è sbagliato non prendere atto di quel che è avvenuto, grazie al Parlamento che ha votato andando oltre la maggioranza di governo". "Giudici inquinati perché in politica - dice anche - ? Diano le prove o si finisce come quando Falcone venne definito eroe da chi gli aveva dato del traditore".
Bruti Liberati, sulla stessa lunghezza d'onda, dice a la Repubblica: "I magistrati non diano voti classe dirigente. Non ci sono toghe buone contro Italia dei cattivi"
bruti liberati
"Non esiste una magistratura buona contro un'Italia di cattivi, vederla così è in linea di principio sbagliato, e inoltre si scontra con la realtà. Lo scontro viene a galla quando la magistratura acquisisce nei fatti un'indipendenza e una volontà di non fermarsi di fronte ai santuari, dagli scandali Lockheed e petroli, alla strage di piazza Fontana, ma i paragoni con il passato servono a comprendere l'evoluzione, non l'oggi. L'essenziale per l'Anm è esprimere con chiarezza la propria opinione sui problemi della giustizia, ma altrettanto essenziale è che l'Anm non esca dal suo ruolo".
Alla domanda su come se ne esce se una parte del Paese chiede ai politici corrotti un passo indietro e i politici non ascoltano, l'ex procuratore capo di Milano osserva: 
"Comunque non tocca ai magistrati affrontare 'il problema della corruzione', i magistrati si occupano di casi singoli che costituiscono reato. Non danno ricette né affrontano i problemi deontologici altrui. E, sinceramente, un passo avanti c'è sull'aspetto della prevenzione grazie all'Anac, l'autority anti-corruzione. L'abbiamo vista a Milano con l'Expo. L'Anac ha ricoperto il suo ruolo di 'investigatore' nelle pratiche amministrative, la magistratura ha svolto indagini penali e i processi in tempi rapidi, mentre il prefetto con le interdittive antimafia ha eliminato alcune aziende sospette. Fine. L'Anac è giovanissima, deve ancora assestarsi, ma uno strumento per non sprecare denaro pubblico con appalti fasulli ora c'è". 
Luca Palamara, predecessore di Davigo alla guida dell'Anm, ha preso le distanze: "Le generalizzazioni a me non piacciono non dobbiamo cadere nella trappola del conflitto" ma che ai magistrati non giova. Stesso ragionamento in Antonello Racanelli, procuratore aggiunto a Roma e leader di Magistratura indipendente, critico per i "toni eccessivi, parole esagerate, generalizzazioni superficiali e ingiuste". "Bisogna evitare di alzare la tensione tra politica e magistratura, che non fa bene a nessuno. Anziché offendersi a vicenda - suggerisce Racanelli- occorre rivendicare i mezzi per far funzionare meglio e con maggiore efficienza la giustizia".
Intervengono anche i magistrati di Area (il gruppo che riunisce le correnti 'di sinistra' della magistratura) che ribadiscono la propria fiducia a Davigo e allo stesso tempo lo invitano a non generalizzare:
"Siamo consapevoli che la semplificazione è condizione necessaria di una comunicazione efficace e tuttavia i toni e i contenuti della intervista che il presidente dell'Anm Piercamillo Davigo ha rilasciato al Corriere della Sera ci lasciano perplessi".
E' quanto scrive in una nota il coordinamento nazionale di Area (il gruppo che riunisce le correnti 'di sinistra' della magistratura) che ribadisce "la propria fiducia e il proprio sostegno alla giunta 'unitaria' e alla attuale presidenza Davigo, ma il ruolo istituzionale dell'Anm richiede che le esternazioni del suo Presidente riflettano il sentire comune dell'intera magistratura associata e trovino espressione attraverso modalità di comunicazione che sappiano essere rispettose degli altri soggetti istituzionali".
Il tema del rapporto "tra giurisdizione, politica e società civile, come quello, certamente centrale della lotta alla corruzione - si legge ancora nella nota di Area - non possono essere affrontati con generalizzazioni, che non aiutano a farne comprendere la complessità e la delicatezza, ma finiscono col creare confusione nell'opinione pubblica e sterili contrapposizioni tra la politica e la magistratura". In particolare, la lotta alla corruzione "è tema che non può essere affrontato esaltando esclusivamente la pur necessaria risposta repressiva: come l'Anm ha sempre sostenuto - ricorda il Coordinamento di Area - esige un impegno riformatore a 360 gradi, che investa la riqualificazione della pubblica amministrazione, le forme della politica, le pratiche e la cultura della società civile e del mondo economico. Richiede anche, come sanno per primi i magistrati, una giurisdizione di qualità, consapevole che una efficace repressione dei fenomeni corruttivi non può che avvenire nel rispetto rigoroso delle regole del processo. Siamo certi che questo sia anche il pensiero del nostro presidente - conclude la nota - e confidiamo che, per il futuro, egli sarà in grado di chiarirlo con l'efficacia e l'incisività che tutti gli riconoscono".

Davigo smentito dall’intera magistratura italiana. Ma il Fatto nasconde la notizia

Il Fattone
Marco Travaglio (D) e Piercamillo Davigo a margine del convegno "Partiti per le tangenti", Milano, 20 ottobre 2014. 
ANSA/DANIEL DAL ZENNARO
Vorremmo ricordare agli amici del Fatto che l’organo di autogoverno dei giudici – non il signor Legnini – ha seccamente preso le distanze dal neopresidente dell’Anm
 
Oggi dobbiamo essere delicati e caritatevoli nel rivolgerci a Marco Travaglio: per lui è un giorno di particolare sofferenza. Il brillante Piercamillo Davigo è stato smentito, criticato, isolato e costretto ad un’imbarazzante smentita dall’intera magistratura italiana. E, come se non bastasse, non per l’autointervista di giovedì al Fatto firmata dal suo segretario Travaglio, che nessuno s’è filato, ma per quella di venerdì al Corriere firmata da un giornalista vero, Aldo Cazzullo. Insomma, un completo disastro.
Per rimediare, che c’è di meglio di una sistematica falsificazione dei fatti? Così, in prima pagina il giornale di Travaglio e Davigo titola bellicoso: “Il re è nudo: il leader Anm ricorda che i politici rubano ancora. Legnini e i renziani contro Davigo”. Giovanni Legnini, vorremmo ricordare agli amici del Fatto, non è un passante intervistato per strada, ma il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, e le sue dichiarazioni (le parole di Davigo “rischiano di alimentare un conflitto di cui la magistratura e il Paese non hanno alcun bisogno”) sono state concordate con il Capo dello Stato, nonché presidente del Csm. La notizia, dunque, è un’altra e ben più forte: l’organo di autogoverno dei giudici – non il signor Legnini – ha seccamente preso le distanze dal neopresidente dell’Anm.
Quanto ai “renziani” additati al pubblico ludibrio nel titolo di prima pagina, fatichiamo a individuarne i nomi. È forse renziano Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore di Milano? (“Non esiste una magistratura buona contro un’Italia di cattivi: vederla così è in linea di principio sbagliato. È essenziale è che l’Anm non esca dal suo ruolo. Non ci siamo quando si dice o si fa capire che può essere la magistratura a risolvere questioni di costume o di etica pubblica”). O è renziano Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione? (“Non si rivolve tutto con le manette. Anche la magistratura ha le sue colpe. Dire che tutto è corruzione significa dire che nulla è corruzione”). O magari è renziano Nicola Gratteri, neoprocuratore di Catanzaro? (“Se si dice che sono tutti ladri, facciamo il gioco dei ladri”). Oppure il renziano è Luca Palamara, ex presidente dell’Anm? (“Le generalizzazioni non mi piacciono”).
La Caporetto dei giustizialisti non poteva essere più clamorosa. Ai lettori del Fatto la notizia purtroppo è stata nascosta: ma è anche vero che sono sempre di meno.
È già stato assegnato il premio al primo commentatore che ha detto "in fondo siamo al 77° posto nella classifica della libertà di stampa" per criticare un giornale. Ora vi spieghiamo perché

GIOVANNI DROGO


Ieri è uscita la classifica annuale – stilata da Reporter sans frontieres – sulla libertà di stampa dalla quale è emerso che il nostro Paese è scivolato al 77° posto (su 180). Questa è quindi quella stagione dell’anno nella quale sui profili social delle testate giornalistiche e nello spazio dedicato ai commenti agli articoli fiocca il classico lamento gentista “lo credo che siamo al 77° posto sulla libertà di stampa ed aggiungerei anche e sopratutto sulla qualità di stampa” nelle più prevedibili variazioni sul tema. Ad esempio non è raro leggere un commento che invece criticare nel merito quello è scritto si limita ad osservare – spesso in modo sgrammaticato – che non si può certo pretendere di più dal giornalismo italiano, perché in classifica siamo sotto il Nicaragua. E un motivo ci sarà.
libertà di stampa classifica rfs -1

Come funziona la classifica di Reporter sans frontières

La cosa divertente è che le persone che si lamentano di un articolo di giornale dicendo che in Italia c’è poca libertà di stampa (come certificato da una classifica che è tutt’altro che oggettiva) non sanno che queste classifiche non giudicano solo la qualità dell’informazione giornalistica ma anche, strano a dirsi, la libertà che godono i giornalisti di un certo paese. Ma non è tutto. I criteri con cui vengono assegnati i punteggi sono squisitamente soggettivi perché RSF si affida al giudizio di alcuni selezionati contatti locali che hanno il compito di giudicare il grado di libertà nei seguenti ambiti: pluralismo, indipendenza dei media, contesto e autocensura, legislatura, trasparenza e infrastrutture. Questo significa che a parità di punteggio su un dato argomento lo stesso voto non abbia lo stesso valore in Argentina e in Romania. Dal punto di vista assoluto un 3 dato in Argentina equivale ad un 3 dato in Italia, ma al punto di vista oggettivo dal momento che chi giudica potrebbe non usare lo stesso metro di giudizio ed essere influenzato da fattori locali differenti i due voti non hanno lo stesso valore. Questo spiega il motivo per cui certi paesi (il Burkina Faso, la Moldavia o il Salvador) nonostante la loro situazione politica complicata possano essere più su nella classifica rispetto all’Italia. C’è inoltre da considerare che a giudicare il livello della libertà sono i giornalisti stessi (non è noto quali siano), quindi quando ci si lamenta della poca libertà di stampa o del fatto che siamo “in fondo alla classifica” bisognerebbe chiedere conto a chi collabora con RFS di rendere noti i suoi ragionamenti. Oltre ai fattori qualitativi ci sono anche quelli quantitativi, che sono decisamente più interessanti, si tratta dei casi di omicidio, arresto e intimidazioni ai danni dei giornalisti, ivi comprese le aggressioni e le querele per diffamazione.

Le cause per diffamazione a pene di segugio

Naturalmente anche qui non tutto ha lo stesso peso, un omicidio è più grave di una causa di diffamazione. Ciò non toglie che nel nostro paese, giusto per parlare di libertà di stampa, la querela per diffamazione ai danni dei giornalisti sia una delle armi più usate – da politici e non – per mettere a tacere una voce scomoda. Ricordiamo, giusto per citarne una, la causa intentata da Matteo Salvini (che pure è giornalista) contro il collega del Fatto Davide Vecchi, “colpevole” di aver scritto che il Capitano della Lega non ha mai lavorato un giorno in vita sua. Il giudice ha poi dato ragione a Vecchi e torto a Salvini dal momento che non risulta abbia mai svolto un’attività lavorativa al di fuori dell’ambito politico. Ma volendo c’è anche la querela di Bertone a Repubblica, quella del Comune di Napoli a Massimo Giletti, quella di Massimo Ferrero a Mario Giordano fino alla spassosa querela diFedez ai danni di Filippo Facci per arrivare a quella che è l’esempio del rapporto sbagliato della politica con il giornalismo in Italia: la querela di Berlusconi all’Economist e all’Espresso per quella prima pagina “Why Berlusconi is unfit to lead Italy“. Per inciso, Berlusconi ha perso.
libertà di stampa classifica rfs -2
Ma se queste iniziative non vi bastano allora rilassatevi con la divertente rubrichetta che compare regolarmente sull’organo ufficiale d’informazione di uno dei principali partiti politici italiani, quel premio “giornalista del giorno” che Beppe Grillo e il suo staff sono soliti assegnare ai giornalisti (lui li chiama pennivendoli) che non gli stanno troppo simpatici colpevoli di parlare male del M5S. Ma ovviamente la colpa del fatto che in Italia c’è poca libertà di stampa (davvero è così?) è solo dei giornalisti. Ci vediamo l’anno prossimo!

venerdì 22 aprile 2016

Migranti, Juncker apre al piano italiano. Renzi: “Bene così, andiamo avanti”

Immigrazione
Italian Premier Matteo Renzi, right, and EU Commission President Jean-Claude Juncker attend a press conference at Chigi Palace, premier's office in Rome, Friday,26 February 2016. ANSA/ GIUSEPPE LAMI
Il presidente della Commissione accoglie con favore l’idea italiana del ‘Migration Compact’. Renzi: “Non siamo più soli come un anno fa”
 
Nel giorno del vertice dei ministri dell’Ue a Lussemburgo, il presidente del Consiglio Matteo Renzi incassa il sostegno del presidente della commissione Ue, Jean-Claude Juncker, all’iniziativa italiana del “Migration Compact”. Rivolgendosi al premier con un “Dear Prime Minister, caro Matteo”, Juncker, in una lettera al Corriere della Sera, accoglie “con favore l’iniziativa, che conferma l’esigenza di un approccio europeo al tema delle migrazioni, la stessa che ho sostenuto all’inizio del mio mandato”.
Juncker si dice pronto a lavorare su tutti i temi dell’iniziativa italiana, dando mandato di approfondire la materia ai vicepresidenti della commissione Ue, Federica Mogherini e Frans Timmermans. Sullo spinoso problema del finanziamento del progetto di gestione dei migranti, Juncker, senza entrare nel dettaglio sui modi per trovare le risorse, non esclude l’emissione di Eurobond, e precisa che “l’Unione europea ha bisogno di gestire i propri confini esterni insieme, deve fornire sicurezza ai rifugiati che hanno bisogno di protezione, offrire modi legali ai migranti di venire in Europa e deve tenere aperti i propri confini”.
Germania e Italia, in disaccordo sulla soluzione degli Eurobond, propongono di adattare l’accordo tra Ue e Turchia da applicare anche ad altre rotte, come quella che parte dalla Libia, ma la proposta non piace alla presidenza olandese del Consiglio Ue, secondo la quale l’intesa con la Turchia non è ripetibile. Berlino ha anche sottolineato che la revisione completa del regolamento di Dublino per il diritto di asilo in Europa non è possibile perché “è difficile trovare una maggioranza” politica.
Renzi: “Molto soddisfatto per come è stata accolta la nostra proposta, serve piano europeo per migranti”
“Sono molto contento dell’accoglienza ricevuta dal documento italiano sulla migrazione: indipendentemente dal merito, da chi dice che non vuole Eurobond, sono soddisfatto”. Lo ha detto il premier Matteo Renzi, incontrando i giornalisti a New York e ringraziando in particolare il presidente della Commissione Ue Jan-Claude Juncker: “Ho molto apprezzato la sua risposta, per la sensibilità dimostrata”. Renzi ha sottolineato che “da aprile 2015, quando l’Italia era in una solitudine totale, in un anno è cambiato molto anche per le dinamiche che hanno riguardanti Balcani e Turchia. Un anno fa ci diceva “no, pensateci voi”, ora si è capito che tutti insieme dobbiamo gestire la pratica Africa”. Dunque “al netto delle singole strumentazioni finanziarie, il punto è che se vogliamo aiutarli a casa loro serve una strategia politica che duri anni: investimenti, Europa, non lasciare solo un Paese, rivedere modello immigrazione”. E sul piano interno, Renzi critica ancora chi “grida all’invasione”: certo, “ci sono numeri leggermente superiori, ma non è l’invasione che viene detto. Ma questa è la differenza tra chi vive la politica come demagogia, attacco e insulto e chi pazientemente cerca una soluzione”.
LA CONFERENZA STAMPA DI RENZI A NEW YORK

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lunedì 18 aprile 2016

A Lesbo la ‘road map’ di Francesco per l’Europa: integrazione, asilo, negoziati

Immigrazione
Papa Francesco incontra i rifugiati durante la visita a Lesbo, 16 aprile 2016.
ANSA/ L'OSSERVATORE ROMANO ++HO - NO SALES EDITORIAL USE ONLY++
Il Papa agli abitanti di Lesbo: “L’Europa è la patria dei diritti umani, e chiunque metta piede in terra europea dovrebbe poterlo sperimentare”
 
“Dobbiamo fare ponti, ma i ponti si fanno intelligentemente, col dialogo, l’integrazione. Io capisco un certo timore, ma chiudere le frontiere non risolve niente, perché quella chiusura alla lunga fa male al proprio popolo e l’Europa deve urgentemente fare politiche di accoglienza, integrazione, crescita, lavoro e riforma dell’economia. Tutte queste cose sono i ‘ponti’ che ci porteranno a non fare muri”. E’ in questa frase, pronunciata sul volo di ritorno del papa dall’isola di Lesbo, che si può cogliere un tratto essenziale del modo di ragionare di Bergoglio: l’interdipendenza dei problemi, delle questioni aperte, determina le crisi nelle quali ci troviamo e, allo stesso tempo, ci indica la strada per venirne fuori. Così non c’è da una parte la proposta idealista e poco praticabile di costruire ‘ponti’ fra i popoli e dall’altra la concretezza magari un po’ cinica dei ‘muri’.
Al contrario è evidente che l’integrazione sarà favorita dalla crescita, dal lavoro, dalle riforme economiche, e che l’Europa in tal modo godrà del contribuito di chi arriva sul suo territorio. Non solo: Francesco tornado a Roma, ha parlato anche dei “ghetti” sorti nelle città europee, realtà da cui provenivano alcuni degli attentatori protagonisti degli ultimi episodi di sangue, ha spiegato inoltre che non si può fare alcuna distinzione fra chi fugge per la guerra e quanti cercano scampo dalla fame, in quanto ai primi ha poi osservato: “Io inviterei i trafficanti di armi – in Siria ad esempio, chi dà le armi a diversi gruppi’ – a passare una giornata in quel campo profughi. Credo che per loro sarà salutare”. Forse chi rifornisce di armi le varie fazioni non si commuoverebbe tanto, ma di certo il messaggio di Francesco è chiaro.
Nelle poche ore trascorse dal papa nell’isola greco di Lesbo, è possibile individuare due filoni di fondo: uno pastorale, umano, cristiano, ovvero quello dell’abbraccio con i profughi e con la gli abitanti dell’isola. E qui emerge la commozione, l’umanizzazione dell’altro nel pianto, nella preghiera, nella stratta di mano, in chi s’inginocchia, in chi guarda negli occhi il vescovo di Roma, nei bambini che gli consegnano i disegni, nelle famiglie di profughi musulmani fatte salire a bordo dell’aereo papale, e anche nell’avanzare unito di tre leader cristiani: Francesco con il patriarca Bartolomeo di Costantinopoli (Istanbul) e Hieronymus, arcivescovo di Atene e capo della chiesa ortodossa greca. Di sicuro la giornata ha avuto anche una straordinaria importanza sotto il profilo ecumenico, del cammino verso l’unità dei cristiani, ma questo è un capitolo che meriterà ulteriori approfondimenti. L’altro aspetto importante e forse clamoroso della visita, è quello politico. Perché la dichiarazione congiunta fra i tre leader cristiani non è solo una dichiarazione d’intenti, di principi universali, contiene invece una sorta di ‘road map’ per affrontare una crisi migratoria e internazionale di fronte alla quale l’Europa fa fatica a trovare una visione e una strada.
I tre capi cristiani hanno condiviso l’urgenza di “affermare lo stato di diritto, difendere i diritti umani fondamentali in questa situazione divenuta insostenibile, proteggere le minoranze, combattere il traffico e il contrabbando di esseri umani, eliminare le rotte di viaggio pericolose che attraversano l’Egeo e tutto il Mediterraneo, e provvedere procedure sicure di reinsediamento”. Su questa base, hanno spiegato, sarà possibile aiutare i Paesi più direttamente coinvolti nei flussi, a cominciare dalla Grecia (e implicitamente c’è anche l’Italia). Quindi hanno chiesto “solennemente la fine della guerra e della violenza in Medio Oriente, una pace giusta e duratura e un ritorno onorevole per coloro che sono stati costretti ad abbandonare le loro case”. “Esortiamo tutti i Paesi – prosegue il testo congiunto – finché perdura la situazione di precarietà, a estendere l’asilo temporaneo, a concedere lo status di rifugiato a quanti ne sono idonei, ad ampliare gli sforzi per portare soccorso e ad adoperarsi insieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà per una fine sollecita dei conflitti in corso”.
Diritti umani, asilo temporaneo, mediazione per far cessare i conflitti, rientro dei profughi nelle loro case (nodo decisivo del conflitto siriano), reinsediamento dei profughi che arrivano attraverso il Mediterraneo, costituiscono una strategia politica e umanitaria. “L’Europa – affermano poi i tre – oggi si trova di fronte a una delle più serie crisi umanitarie dalla fine della Seconda Guerra Mondiale”, per questo i cristiani non possono che ricordare la pagina del Vangelo di Matteo nella quale si afferma: “ero straniero mi avete accolto”. E’ la riscoperta delle radici cristiane del continente, lo scrivevamo qualche giorno fa, in chiave umanistica e non reazionaria.
Infine va sottolineato quanto Francesco ha detto agli abitanti coraggiosi di Lesbo e, attraverso di loro, in realtà rivolgendosi a tutti gli europei, a tutti noi: “L’Europa è la patria dei diritti umani, e chiunque metta piede in terra europea dovrebbe poterlo sperimentare, così si renderà più consapevole di doverli a sua volta rispettare e difendere. Purtroppo alcuni, tra cui molti bambini, non sono riusciti nemmeno ad arrivare: hanno perso la vita in mare, vittime di viaggi disumani e sottoposti alle angherie di vili aguzzini”. “Voi, abitanti di Lesbo – ha scandito ancora Francesco – dimostrate che in queste terre, culla di civiltà, pulsa ancora il cuore di un’umanità che sa riconoscere prima di tutto il fratello e la sorella, un’umanità che vuole costruire ponti e rifugge dall’illusione di innalzare recinti per sentirsi più sicura. Infatti le barriere creano divisioni, anziché aiutare il vero progresso dei popoli, e le divisioni prima o poi provocano scontri”.

Il referendum e il quorum svanito. Il pagellone della campagna

Referendum
Singolare protesta di Greenpeace in tutta Italia contro la ricerca e l'estrazione di idrocarburi nei mari che circondano la penisola. Partono oggi da 23 città i pullman turistici della "Renzi PetrolTour" con destinazione, appunto, i mari del Belpaese, "petrolizzati" dal governo. Con il premier - spiega l'associazione in una nota - uomo solo al volante, "che invita gli italiani a salire a bordo per andare ad ammirare le nostre coste punteggiate di trivelle, ascoltare le esplosioni degli air gun, fotografare le piattaforme di estrazione al tramonto, farsi ammaliare dal luccichio delle chiazze di greggio a pelo d'acqua".
ANSA/GREENPEACE- ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING
La campagna referendaria verrà ricordata come una delle più brutte della storia repubblicana. Voti bassi per tutti, ma c’è chi è riuscito a distinguersi per mediocrità
 
Del referendum sulle trivelle si ricorderà soprattutto una campagna elettorale all’insegna delle polemiche, delle schermaglie politiche, dell’invito all’astensione, della stanca mobilitazione per il Sì e delle denunce incrociate. Ciò di cui non ci si ricorderà è sicuramente il merito della questione, né tanto meno il quesito per cui milioni di italiani si sono recati alle urne. Abbiamo provato a fare della pagelle per inquadrare meglio una delle campagne referendarie più brutte di cui la storia della Repubblica abbia memoria. I voti non potevano che essere molto bassi.
Matteo Renzi: voto 6
C’è chi dice che avrebbe potuto evitare che questo referendum si svolgesse, trovando prima un accordo con le Regioni. Lui dice che sono state le Regioni stesse a non volere questo accordo. Detto questo, l’insistenza nell’invito all’astensione (legittima, s’intende) ha estremamente politicizzato una consultazione che altrimenti sarebbe filata via senza lasciare alcuna traccia. Incassa comunque il successo delle urne, dato che il quorum non si è visto neppure con il binocolo.
Ultras renziani: voto 4,5
Il livore con cui, a urne ancora aperte, si sono scagliati contro alcuni promotori del Sì e contro pezzi del loro stesso partito è stato davvero eccessivo. Le polemiche legate all’hashtag #ciaone lanciato dal deputato renziano (membro della segreteria Pd) Ernesto Carbone ne sono la rappresentazione plastica. Se è vero (ed è vero) che il referendum era del tutto inutile, allora sarebbe stato meglio portare a casa il risultato senza necessariamente sbeffeggiare gli sconfitti.
Minoranza Pd: voto 4,5
L’obiettivo, neppure troppo nascosto, era fare uno sgambetto a Renzi. Non far cadere il governo, perché su una cosa del genere non sarebbe mai caduto, ma fargli semplicemente un dispetto. Obiettivo fallito, anche perché perseguito senza alcuna convinzione. Chi invitava a votare Sì, chi invitava a votare No, chi diceva che l’astensione era immorale, dimenticandosi di aver militato in partiti che invece ne hanno fatto spesso la propria bandiera. Il referendum costituzionale è a ottobre. Il congresso, al più tardi, è tra meno di un anno. Se queste sono le premesse…
Michele Emiliano: voto 4
Ha condotto una violenta campagna per il Sì e l’obiettivo non è stato neppure lontanamente raggiunto. Ciò che ha colpito in questi mesi è stata la sua aggressività nei confronti di Renzi e della dirigenza del Partito Democratico. Per chi ha ospitato in pompa magna la manifestazione di apertura della campagna elettorale dell’allora sindaco di Firenze in occasione della ultime primarie, apostrofare il suddetto ex sindaco di Firenze come “venditore di pentole” è apparso quanto mai stonato. C’è da augurarsi che almeno fosse spinto da una reale passione politica…
Comitati del Sì: voto 3
Totalmente irrilevanti, se non fosse per l’identificazione con l’osceno slogan “Trivella tua sorella” (coniato in vero da un’agenzia di comunicazione esterna ai comitati).
Comitati del No: voto 3,5
Come sopra, senza l’aggravante dell’identificazione con l’osceno slogan.
Paolo Ferrero: inqualificabile
Da quando hanno smesso di invitarlo in televisione, è sparito anche dal dibattito pubblico, oltre che da quello politico. Ha provato a rientrare dalla porta di servizio facendosi fotografare mentre denuncia Matteo Renzi e Giorgio Napolitano per “istigazione all’astensione”. Tentativo svanito nell’indifferenza generale.
Beppe Grillo: voto 3
Della sua campagna elettorale ricorderemo due cose. La prima è il famoso invito al voto: “Non informatevi su cosa andate a votare, andate a votare Sì e basta”. L’altra, a urne a aperte, è la sua foto ai seggi, in occhiali da sole, che invita ad andare a votare “per l’Italia e la democrazia”. Portavoce ormai stanco, megafono spompato.
Matteo Salvini: voto 2
Dalla ruspa alle trivelle. Il “felpato” si riscopre d’un tratto amante del mare e seriamente preoccupato per le sorti delle nostre coste. Non ci credeva neppure lui.
Renato Brunetta: no comment
“Sono andato a votare e ho votato No. Per mandare a casa Renzi”. Quanta confusione in un uomo solo.
Gli italiani: voto 7 (d’incoraggiamento)
Riconosciamo al popolo italiano (sia a chi è andato a votare sia a chi, consapevolmente, ha scelto di non recarsi ai seggi) saggezza, moderazione e sicuramente una gran pazienza. Non arrendetevi, arriveranno tempi migliori.

A quelli della "sinistra" o del "sindacato" dico: Provate a far pronunciare questa frase alla Raggi o a Meloni. Se dicono le stesse cose di Giachetti sono di sinistra.

Giachetti: sto con i volontari che aiutano i rifugiati

Amministrative
Il candidato sindaco di Roma del centrosinistra, Roberto Giachetti (Pd), durante l'iniziativa "La prima(vera) di Roma", all'Auditorium Antonianum, 15 aprile 2016.
ANSA/MASSIMO PERCOSSI
Il candidato del centrosinistra: “Lo sgombero di Baobab stride con l’immagine del Papa a Lesbo”. Meloni e Salvini esultano: tolleranza zero
 
Le immagini della polizia che sgombera i volontari di Baobab nel giorno del grido del Papa a Lesbo che scuote l’Europa indifferente e colpevole verso i migranti, non gli sono piaciute. Roberto Giachetti l’ha detto chiaro alla platea chiamata a raccolta dall’Arci di Roma e dal Centro di Riforma dello Stato nel cuore di Testaccio, alla Città dell’altra economia dove sono stati invitati anche Stefano Fassina e Virginia Raggi che non si è presentata. «La Roma che voglio è una città in cui esperienze come quella di Baobab non debbano subire sgomberi come è successo. Il Papa ha fatto una visita straordinaria mentre noi non riusciamo a fare in modo che delle strutture che aiutano ad integrare, oltre che a cooperare, riescano a trovare una soluzione». Lo sa il candidato del centrosinistra romano che quelle donne, quegli uomini che hanno sempre accolto e aiutato i migranti arrivati nella capitale per sfuggire a fame e guerre, agiscono in nome di valori condivisi come quello della solidarietà. Per questo volevano occupare l’ex centro ittiogenico di Via Tiburtina, rimettere a posto quell’area per lo studio dell’ambiente marino ora in abbandono e farci la nuova sede per l’accoglienza dopo la chiusura voluta dal Tar della storica sede di via Cupa. Ma la polizia li ha fermati, suscitando la condanna anche di Sel e gli applausi della destra di Giorgia Meloni e Matteo Salvini che esulta per la «bella ripulita di 40 asociali».
A Roma non c’è solo la storia di impegno di Baobab. «La vitalità di Roma è immensa – dice il senatore Walter Tocci del Centro di riforma dello Stato – ma non è rappresentata, c’è una separazione: da una parte le energie, dall’altra un sistema bloccato».
Palestre popolari, asili nido autogestiti, associazioni culturali all’avanguardia ma fuori dai circuiti tradizionali, una rete di autoimprenditoria basata sullo sviluppo locale sostenibile e sull’innovazione. Una una ricchezza che Roma non sa valorizzare, anzi disperde, separa, spreca, come dicono gli organizzatori del convegno sui «Beni di Roma, le energie sociali sul diritto alla città» durato tutta la giornata. Giachetti condivide, parla di sintonia quando prende la parola nella sala piena. Lui ci sta a valorizzare quella rete. «Voglio che in questa città vengano creati spazi di aggregazione, rimanendo sempre nella legalità ma senza divieti. La città che voglio permette ai cittadini di rendersi utili laddove l’amministrazione non può arrivare», spiega convinto ma non vuole schierarsi in rovinose guerre tra poveri, come quella che rischia di dividere i precari della scuola e quelli che hanno vinto un concorso. «Le insegnanti di infanzia devono essere stabilizzare», ma ci sono anche gli altri risponde a chi contesta. Lui ascolterà tutti, promette, come ha fatto da subito quando ha accettato la sfida delle primarie romane, vuole ridare la parola ai romani non solo usando la carta dei referendum ma mettendo a punto meccanismi nuovi che facilitano la partecipazione.
Su un altro nodo che sta a cuore a molti nella sala del convegno, a cominciare da Tocci che chiede di cambiare il sistema operativo del Comune, il candidato sindaco del centro-sinistra è d’accordo. Roma per funzionare deve semplificare l’amministrazione, farla essere una casa trasparente, con una «tracciabilità totale», di ciò che viene deciso. Ma soprattutto deve decentrare, riorganizzare il potere dei Municipi, farne i pilastro del buongoverno. E qui ci sarà una grande sfida anche per il sindacato, dice rivolto a Natale di Cola della Cgil perché decentrare vorrà dire spostare dipendenti capitolini, fare trasferimenti nei Municipi. Altro assillo, completare tutte le opere incompiute, anche su questo si può lavorare insieme. «Voglio un assessore all’urbanistica della manutenzione e del completamento», annuncia promettendo di restituire ai romani quelle opere rimaste a metà, che ora per la capitale sono ferite, fallimenti che alimentano il degrado e possono invece diventare ricchezza.
La capitale può voltare pagina, Giachetti ci crede. «Roma non è né ferma né rassegnata – ha scritto su Twitter – a Testaccio ho incontrato persone con la voglia di rendere la nostra città migliore». Al Nazareno dicono si può vincere anche se nella capitale la sinistra è divisa, che si possono battere destra e grillini. Virginia Raggi ieri è andata ad Ostia a vedere i varchi aperti dalla giunta Marino per restituire la spiaggia ai romani e ha attaccato. «Vediamo che bel lavoro hanno fatto, se così si può dire. La nostra idea è un po’ diversa». Su twitter le ha risposto secco il senatore dem Stefano Esposito: «Raggi non dice una parola contro il clan Spada ma attacca il Pd. Onesta al contrario».

La trivella non porta la spallata

Referendum
Nella foto distribuita dall'ufficio stampa il 31 luglio 2014 la Rainbow Warrior, nave simbolo di Greenpeace, entrata in azione nel mar Adriatico presso la piattaforma petrolifera Rospo Mare B, di proprietà Edison ed Eni.
ANSA/UFFICIO STAMPA GREEN PEACE
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Sconfitto chi voleva dare un colpo a Renzi. Ma domani è un altro giorno 
 
Niente quorum, il referendum sulle trivelle è fallito. Hanno vinto i contrari – cioè gli astensionisti – e hanno perso i promotori. Questo è il primo dato da cui non si può sfuggire, e chi vorrà nascondere questa semplice realtà si coprirà di ridicolo.
Perché non si scappa: al referendum, se vuoi vincere sei tu che devi portare metà del Paese alle urne e ottenere la maggioranza di Sì fra i votanti. Elementare, caro Michele Emiliano and company. Partite da questa semplice verità e poi naturalmente, spiegherete quello che vorrete.
Il referendum è fallito – seppure bisogna avere rispetto per i milioni di italiani che alle urne ci sono andati – perché la stragrande maggioranza del Paese non ha condiviso il quesito referendario, non lo ha capito, non lo ha giudicato di sua competenza, non lo ha percepito come questione fondamentale. E legittimamente non è andata a votare. Una maggioranza di buoni cittadini, esattamente come quelli che sono andati a votare, con buona pace del presidente della Consulta che forse involontariamente ha diviso l’Italia in buoni e cattivi. Bisogna dunque rispettare la maggioranza del Paese e ammettere che questa battaglia, semplicemente, non andava fatta.
Politicamente, poi, ha dato fastidio la strumentalizzazione della vicenda. Non è stata una buona idea – no, amici referendari, non dite che non è così – quella di giocare le trivelle per dare una spallata a Renzi. Non ha funzionato. Non è andata come andò a Craxi con la preferenza unica. Per il futuro tutti i referendari faranno bene ad attenere al merito della questione.
La brigata del Sì, variopinta e composita, non è riuscita a portare alle urne tutti i suoi elettori. Uno smacco.
La destra ha dato un’altra prova di inconsistenza, sostanzialmente disinteressandosi della questione. Per forza. Vi immaginate i piccoli imprenditore leghisti votare contro il petrolio, loro che hanno istinto industriale e quotidiano impatto con la produzione?
I grillini hanno fatto un certo rumore, ma non era il loro referendum. Ambientalisti, i 5 Stelle? Ma se non se ne sono mai occupati. Ne masticano poco. No, loro sono quelli della fantomatica spallata, e dunque i principali sconfitti.
Poi c’è la sinistra, esterna e interna al Pd. Si è cercato di dare un colpo al governo e alla maggioranza del Pd, con un pavloviano riflesso polemico che da tempo purtroppo contrassegna questa area. Purtroppo, diciamo: perché questa sinistra che perde sempre non dà un contributo nemmeno alla propria battaglia. E forse sarebbe l’ora di una qualche riflessione autocritica, da quelle parti, perché si vede ogni giorno che la rottura non paga, e che a fare l’imitazione dei grillini non ci si guadagna niente.
Infine, Renzi e il Pd superano la prova avendo resistito a una campagna molto “cattiva”,specie negli ultimi giorni, finanche nelle ultime ore, svolta con un’aggressività che deve far riflettere: il problema è che il Paese è nervoso come nei momenti peggiori, e che le divisioni sono sempre più nette e pesanti. È un clima che non serve a nessuno. Il Pd, e il suo gruppo dirigente, oggi non ha vinto la guerra, semmai una battaglia, e nemmeno la più importante. Ma l’ha vinta. E domani è un altro giorno.

dipocheparole     venerdì 27 ottobre 2017 20:42  82 Facebook Twitter Google Filippo Nogarin indagato e...