Il successo politico di Beppe Grillo si è basato sul rifiuto dei media mainstream e su una campagna sviluppata esclusivamente attraverso il suo blog personale. Ma questo fenomeno può essere considerato come un esempio di democrazia - più a parole che nei fatti, in realtà - per interagire con un pubblico globale?
di Pierfranco Pellizzetti, da Vanguardia Dossier n° 50, enero/marzo 2014Beppe Grillo (Genova, 1948) è stato definito il “Couluche italiano”, con riferimento al comico che nel 1981 osò sfidare François Mitterand nelle elezioni presidenziali francesi. Del resto, i due si conobbero nel 1985 sul set del film “Scemo di guerra”.
Ora si può dire che l’allievo ha surclassato il maestro; visto che, nelle elezioni politiche del febbraio scorso, l’ex showman italiano ha conquistato con il movimento di cui è leader (Cinquestelle, M5S) un quarto abbondante dei suffragi (circa 8,7 milioni). Un risultato senza precedenti, che ha fatto eleggere in Parlamento ben 163 candidati, tra senatori (54) e deputati (109), subito soprannominati “grillini”. In particolare alla Camera, dove la base dei votanti è più giovane, M5S risulta il primo partito nazionale con il 25,5% dei voti, contro il 25,4 del Centrosinistra (PD) e il 21, 5 andato alla destra di Berlusconi (PDL). L’età media dei suoi rappresentanti risulta di 33 anni: una piccola rivoluzione, stante la tradizionale gerontocrazia della politica italiana, in quella più grande, rappresentata dal boom di consensi per un movimento nato da neppure tre anni e mezzo (4 ottobre 2009).
Considerando che la sua campagna vittoriosa è stata contrassegnata dal rifiuto di qualsivoglia contatto con gli organi di informazione tradizionali – stampa e televisione – di cui Grillo denuncia costantemente la compromissione con il potere, svolgendosi esclusivamente attraverso il blog intestato al leader (il più visitato in Italia, nonché stimato dai rating di settore tra i cinquanta “più potenti al mondo”), è risultato quasi inevitabile spiegare l’accaduto come un chiaro effetto della “potenza della rete”. Ma davvero il “caso Grillo” è completamente inquadrabile nell’ormai classico paradigma di Manuel Castells della “autocomunicazione orizzontale di massa” (l’interazione attraverso Internet che ha la possibilità di raggiungere un pubblico globale, in cui la produzione dei messaggi è autogenerata e la definizione dei potenziali destinatari autodiretta)? O non piuttosto il
blend grillino è una strana miscela di nuovo e di antico? Per chiarirlo bisogna procedere con ordine.
Il futuro comico prestato alla politica nasce a Genova, città di antiche tradizioni operaie, in un quartiere abitato da piccola borghesia di orientamento genericamente conservatore. Suo padre produce artigianalmente cannelli di saldatura e il giovane Grillo si diploma ragioniere per poi sperimentare varie attività, tra cui il piazzista di capi d’abbigliamento. Infine trova la sua strada nel mondo del cabaret, specializzandosi in lunghi monologhi di generica critica di costume, in cui riesce a far diventare spassosi i luoghi comuni di un umore genericamente protestatario, proprio dell’ambiente di provenienza (il
mugugno, caratteristico dell’
ethos genovese; quasi una sorta di
rauxacatalana, però laconica). Così si fa notare, tanto da essere ingaggiato dalla televisione nazionale nel 1977, dove conoscerà un primo successo di massa. Finché, il 15 novembre 1986, preso dal caratteriale entusiasmo affabulatorio, non commetterà l’imprudenza di attaccare colui che in quel momento è “l’uomo forte” della politica italiana: Bettino Craxi, leader di quel partito socialista che Grillo paragona a una banda di ladri. Scoppia uno scandalo, l’incauto giovanotto viene allontanato dai set della TV, inizia una seconda vita. Ora “la vittima della partitocrazia” allestisce i suoi spettacoli di denuncia stile comizio in un circuito non istituzionale, fatto di piazze e stadi. E comincia a cavalcare, in modi spettacolarmente divulgativi, le tematiche della lotta all’inquinamento, ambientale ma anche dell’informazione, in cui può mettere a frutto la sua natura risentita tendente al rabbioso: sono gli anni delle battaglie contro le industrie che non rispettano le norme di sicurezza e colonizzano la vita delle persone imponendo un consumismo sfrenato.
Il nuovo successo lo trasforma in una sorta di profeta delle “decrescite felici” alla Serge Latouche (l’economista francese teorico dello sviluppo zero), il guru popolare del ritorno a una società preindustriale; alternando denunce motivate a vere e proprie
sciocchezze: prese di posizione plateali contro le vaccinazioni in quanto imposte dal sistema sanitario, a favore di ipotetiche cure del cancro o – magari – promozionali della soluzione
ecologica per sostituire i detersivi utilizzando una pallina di plastica contenente sferette ceramiche (la fantomatica
biowashball).
Un pubblico sempre più bisognoso di credere e parteggiare, di accuse semplificatorie dei mali del mondo, lo elegge a proprio mito; affollandone gli show.
Finché nel 2005 il guru Grillo incontra a sua volta il proprio personale guru, colui che gli spalancherà le praterie sconfinate del WEB: GianRoberto Casaleggio, un perito informatico appena allontanato dalla direzione di una società controllata dal colosso telefonico Telecom Italia per i deficit accumulati; riciclatosi in creatore e gestore di siti con una propria dittà di consulenza (la Casaleggio Associati).
È amore a prima vista: il 26 gennaio 2005 Grillo dà totale carta bianca al nuovo amico per la realizzazione del blog, contenuti in primo luogo, intestato a proprio nome. Cui presto sarà affiancato il “meetup Amici di Beppe Grillo” (“per comunicare e coordinare localmente”, si dirà in un primo momento).
Il visionario Casaleggio, autore di un video fantasy-naif “Gaia” in cui prefigura prossimi conflitti mondiali con svariati miliardi di morti e successivo passaggio alla
e-democracyplanetaria (fornendo persino la data esatta dell’instaurazione del Nuovo Ordine Mondiale attraverso Internet: 14 agosto 2054), inizia subito a bombardare i militanti che visitano il sito con le sue utopie pittoresche quanto banalizzanti (e, poi vedremo, manipolatrici) sulla democrazia diretta: la rappresentanza è finita, i partiti sono finiti, la nuova politica sorgerà dalla rete.
Banalizzazioni pittoresche – dunque – come è mestiere tipico della consulenza di comunicazione, specializzata nell’infiocchettare messaggi “a fumetti” e luoghi comuni. Intanto Grillo smette improvvisamente di attaccare nei suoi spettacoli le aziende in rete con Casaleggio, a cominciare dagli amici ritrovati di Telecom. Se negli anni precedenti le
performances del comico si concludevano distruggendo a bastonate un personal computer, ora il PC è il nuovo tabernacolo di una rivelazione dal sapore tecno-messianico.
La nuova frontiera diventa l’impegno diretto nella politica nazionale; sotto l’influsso del suo
spin-doctor, che pure ha vissuto in prima persona una sola esperienza diretta in ambito pubblico. Quando, si candidò senza successo nel 2004 alle elezioni per il consiglio comunale di Settimo Vittone, il paesino torinese dove mantiene la propria residenza, in una lista locale ispirata dal partito di Berlusconi. Prendendo sei voti sei.
Ma giocarsi la faccia in prima persona non è congeniale a Casaleggio, che è più tipo da restare dietro le quinte a tirare i fili; nonostante la vistosa capigliatura riccioluta quattrocentesca alla Botticelli. Magari qualcuno lo definisce un Rasputin.
L’uomo-immagine resta Grillo; che, dopo aver lanciato sul blog la battaglia mediatica “Parlamento Pulito”, inizia la serie dei “Vaffa-day” (con il “vaffa” che è la contrazione di un modo estremamente volgare con cui mandare al diavolo qualcuno; e il “V” riprende il titolo di un film fantapolitico di grande successo del 2005 - “V for Vendetta”- tratto da un romanzo a fumetti interiorizzato dagli immaginari di massa).
L’8 settembre 2007 il “Vaffa” riunisce nella piazza principale di Bologna oltre cinquantamila partecipanti allo show di Grillo, che presenta la raccolta-firme per tre proposte di legge ad iniziativa popolare: divieto della candidatura alle cariche pubbliche di pregiudicati; divieto di rielezione dopo due legislature; elezione diretta dei rappresentanti. Le sottoscrizioni risulteranno 336mila, sei volte più di quante erano legalmente necessarie per la presentazione di tali proposte.
Da qui parte l’avventura del M5S, iniziando a mietere successi che superano di gran lunga le percentuali accreditate dai sondaggi. Le elezioni amministrative fungeranno da prova generale: nel 2010 il movimento presenta le proprie liste in cinque regioni, con un buon successo in Emilia-Romagna dove incassa il 7% dei voti ed elegge due consiglieri; l’anno successivo partecipa ai rinnovi di 21 capoluoghi di provincia su 28, ricevendo consensi perfino al 30% e vincendo nel ballottaggio la poltrona di sindaco nell’importante città di Parma, con Federico Pizzarotti che sconfigge il candidato del centrosinistra appoggiato dall’intero establishment cittadino.
Ormai risulta evidente come il Grillismo riesca a intercettare quello che ormai è diventato il primo partito italiano, nel crollo di credibilità delle formazioni ufficiali in campo: l’astensione nel non-voto. I critici parlano di “antipolitica”; ma gli osservatori di orientamento imparziale preferiscono usare l’espressione “altra politica”; intendendo con ciò sottolineare la crescita della domanda di una politica meno oligarchica e più vicina ai cittadini, più democratica.
Sull’onda dei primi successi arriverà lo straordinario risultato del 24-25 febbraio scorsi. Quello che appare il punto di massima ascensione del Cinquestelle. Perché è da qui che incominciano i problemi.
C’è da dire che – a quanto pare - l’esito non era stato previsto neppure dal duo Grillo-Casaleggio, i quali ritenevano di dover affrontare una fase all’opposizione in cui avere tutto il tempo per crescere e consolidarsi. Mentre ora si trovano in prima linea, con un personale parlamentare di neofiti, a fronte di sfide complesse e le aspettative pressanti del proprio elettorato; che si potrebbe ripartire a metà tra l’appartenenza e il voto d’opinione. Infatti la presenza del M5S risulta incastrata nel principio cardine ribadito in campagna elettorale: noi non facciamo alleanze. Una dichiarazione di incrollabile “purezza”, ma che contrasta con la necessità di incidere sul quadro politico, pena l’insignificanza. E qui balzano in evidenza due aspetti che sino a quel momento erano rimasti sottotraccia: la natura padronale e verticistica della leadership, lo stringente controllo repressivo del dibattito interno. Aspetti in totale contrasto con lo spirito conclamato del Movimento: il democraticismo di base e l’orientamento libertario.
In effetti avrebbe dovuto far riflettere il fatto che il marchio “Cinquestelle” è proprietà personale del signor Giuseppe (Beppe) Grillo, registrata con tanto di atto notarile. E in base a questo diritto esclusivo il Capo può permettersi di espellere chi non si adegui ai suoi diktat imposti come linea ufficiale.
Si era cominciato già agli albori della vicenda con la cacciata di un socio storico come Valentino Tavolacci, consigliere comunale di Ferrara e reo di aver indetto una riunione dei grillini locali senza il placet del capo, fino all’espulsione della senatrice Adele Gambaro, per aver osato criticare i toni eccessivamente truculenti dei post di Grillo, dove gli insulti si alternano alle storpiature irridenti dei nomi.
I
boatos interni dicono che l’ira del Padre-Padrone scatta a comando come esecuzione delle sentenze poliziesche di Casaleggio; il “Beria” del M5S, che filtra sistematicamente le opinioni indirizzate al sito sociale dai militanti, soprattutto se critiche. Strano atteggiamento per un teorico del “mondo nuovo” della democrazia via WEB
many-to-many (tanti che comunicano a tanti). Nel “mondo vecchio” la si chiamava censura.
Aspetti che contraddicono in maniera lampante la fattispecie dell’autocomunicazione orizzontale di massa, di cui si diceva; tanto che la democrazia in rete appare più uno slogan che non un’effettiva applicazione di innovativi criteri liberatori. Difatti le consultazioni
online sulle decisioni cruciali che si sono dovute prendere, a partire dalla scelta dei candidati nelle liste elettorali del Movimento, sono avvenute nella più assoluta opacità e nessuno ha potuto esercitare il minimo controllo sui risultati promulgati in perfetto stile
top-down dai consulenti della Casaleggio Associati. Pratiche da cui risalta la vera cultura politica della leadership a due teste di Cinquestelle: verticismo padronale con una riverniciatura di parole alla moda. Come lo si può constatare nell’affermazione dogmatica ricorrente che “la divisione politica tra Destra e Sinistra sarebbe superata”; in cui si incrocia l’intento del marketing pigliatutto con la retorica di Destra nei suoi intenti mimetici. Il tipico armamentario del revival reazionario che rompe gli schemi di gioco indossando i panni del rinnovamento, grazie al quale si è imposta l’egemonia mondiale Neocon.
Di conseguenza i primi passi del M5S in Parlamento hanno coinciso con un’accelerata perdita di spinta propulsiva. Anche perché il rifiuto di dialogare con qualsivoglia interlocutore ha prodotto un effetto inevitabile: lo stallo; la marginalizzazione volontaria.
La prima decisione da prendere era quella relativa al rinnovo di presidenza della Repubblica e, nonostante il Movimento avesse candidato una personalità di altissimo livello morale e intellettuale come il giurista Stefano Rodotà, il suo isolazionismo ha determinato il fallimento della proposta. Nell’impasse conseguente, si determinava una forte spinta a convergere tra le altre forze politiche, che si è tradotta nella riconferma del presidente uscente, il quasi novantenne Giorgio Napolitano; il quale diventava il vero regista del ripristino di quegli equilibri di cui Grillo e i suoi seguaci avevano garantito la liquidazione. Difatti sotto la supervisione di Napolitano, un ex comunista ossessionato dall’idea che i partiti devono tenere sotto controllo la società, è nato quel governo cosiddetto delle “larghe intese”, guidato dall’esponente del Partito Democratico Enrico Letta (tra l’altro nipote di quel Gianni Letta che è il primo consigliere di Silvio Berlusconi), che formalizza la collusione spartitoria tra Centrosinistra e Destra. Anche questo un fenomeno patologico che i rifondatori Cinquestelle della politica avevano promesso di estirpare.
Sicché, incapace di governare le trasformazioni, che pure aveva avviato con lo sfondamento elettorale, mentre il quadro politico gli si sta richiudendo sulla testa, il M5S pensa di ribadire la propria (sterile) verginità con gesti spettacolari: rinunciando ai finanziamenti elettorali previsti e rendendo parte degli emolumenti dei propri parlamentari. Si intuisce che attende ulteriori deterioramenti del quadro politico, per ritornare a fare quello che gli riesce meglio: la campagna elettorale.
Intanto vengono sempre di più al pettine i nodi di una democrazia in rete recitata più che praticata. Se ne è avuta ulteriore conferma nel mese di giugno, quando è stato rinnovato il consiglio comunale della Capitale e i Cinquestelle dovevano individuare il loro candidato sindaco con la solita consultazione in rete di tipo propagandistico: dei 2.383 aventi diritto a partecipare, i voti espressi sono stati grossomodo un migliaio. Ridicolo il numero di votanti per una città come Roma, a fronte dei suoi 2,7 milioni di abitanti, penosa la quantità di indicazioni espresse.
Ma se non ci facciamo ingannare dalle chiacchiere “internettare”, forse riusciamo a capire meglio l’intima natura del Movimento. Che non è quella del networking, bensì dello star system. Ossia, quanto il costituzionalista francese Bernard Manin definisce “democrazia del pubblico”, in cui il leader si trasforma nella star tipo
reality televisivo e – di conseguenza – il rapporto che i cittadini intrattengono nei suoi confronti è quello dell’identificazione acritica; insomma, spettatori, il cui unico diritto è quello di applaudire.
La personalizzazione spettacolarizzata della politica: regola che Silvio Berlusconi ha imposto da una ventina di anni sulla scena italiana; e di cui Beppe Grillo si rivela il più recente erede. Non a caso il modello star system risulta particolarmente efficace per vincere le elezioni, quanto del tutto inadeguato per esprimere gruppi dirigenti in grado di governare. Non per niente le ultime rilevazioni in materia di orientamenti elettorali segnalano una forte tendenza all’ulteriore emigrazione verso l’assenteismo, nella convinzione (perniciosa per la salute democratica del paese) che “tanto non cambierà niente”.
Probabilmente la grande opportunità di sbloccare il gioco politico è andata perduta, in quanto leader improvvisati come Grillo e Casaleggio hanno dimostrato di ignorare la regola fondamentale del successo in materia: cogliere i tempi. Anche se la congiuntura potrebbe offrirgli una seconda opportunità. Nella crisi economica e sociale in costante avvitamento, mentre la disoccupazione cresce e diventa sempre più difficile per le famiglie arrivare a fine mese.
Ma puntare sul “tanto peggio tanto meglio” rischia di rivelarsi un calcolo sbagliato: al timone del governo c’è ora un giovane molto abile quale Letta, cresciuto all’antica scuola dei cattolici in politica, che ha un solo compito: tirarla per le lunghe. Ossia far durare il governo ad ogni costo, in modo che l’indignazione sociale scivoli gradatamente nell’abbandono del fatalismo più apatico/rinunciatario; la carica dirompente dell’Altrapolitica sfumi nella delusione da inconcludenza.
D’altro canto, l’Italia non è forse il Paese del Gattopardo e del suo motto immortale “tutto deve cambiare perché nulla cambi”? Inoltre – parlando a proposito di star system – non è anche la terra di maschere famose, da Arlecchino a Pulcinella?
(14 gennaio 2014)