Si sono presi il Sud e ne hanno fatto un deserto
La situazione del Mezzogiorno è disastrosa. Tutti i dati lo confermano. E la responsabilità in gran parte pesa sulle classi dirigenti locali
E del Mezzogiorno, ci avete fatto caso?, si parla sempre meno. Se si escludono i tristi riferimenti a mafie, omicidi, corruzioni e inquinamenti, di quel dibattito acceso e degli investimenti pubblici che ne hanno contrappuntato una lunga stagione, è rimasto poco o niente. Non sapendo più come descrivere questa metà del Paese dimenticata e abbandonata a se stessa, la Svimez, che da più di mezzo secolo monitora il Sud, ha coniato nel rapporto dell’anno scorso la definizione di «desertificazione umana e industriale». Ma nemmeno questo estremo grido d’allarme è valso a scuotere coscienze e governanti.
Tra qualche settimana la Svimez sfornerà analisi aggiornate al 2016 e dalle prime anticipazioni sembra per fortuna che segnali di svolta ci siano, ma ahimè non bastano - e dopo tanti anni di segni meno - a modificare una realtà da brividi. Dall’inizio della crisi, nel Sud le famiglie povere sono aumentate del 40 per cento; una su cinque denuncia difficoltà nel rifornirsi d’acqua; i consumi sono diminuiti del 13 per cento. La popolazione invecchia, e i morti sono più dei nuovi nati; quattro giovani su cinque non lavorano, in quindici anni se ne sono andati via in 500mila, il tasso di disoccupazione è doppio che nel resto del Paese. Quattro ragazzi su dieci non raggiungono un diploma superiore, crollate anche le iscrizioni nelle università del Sud, e qui pesa anche la scarsa qualità degli studi. In quanto a ricchezza prodotta, il divario nord-sud si allarga: lassù si compete con la Germania, quaggiù solo adesso si intravede una prima inversione di tendenza.
Si potrebbe continuare. Ma questi sono parametri economici e sociali, e lasciamo pure da parte la criminalità. Il gap riguarda, e questo è forse ancora più grave, anche le istituzioni pubbliche e il loro funzionamento. Qui tutti gli indici sono peggiori che al Nord: al Sud si spende di più per le pensioni di invalidità; sono più numerosi i dipendenti di Regioni, Province e Comuni e molto più alti i costi perfino delle Prefetture, e della politica in genere. Quasi a dimostrare che la stessa macchina, con le stesse caratteristiche, cammina in modo diverso a seconda del terreno in cui è costretta. Sono contesti in cui spesso latitano le garanzie essenziali: qui c’è corruzione diffusa, il governo è lontano, la proprietà privata non è ben tutelata.
Più o meno questo è il quadro: desolante. Resta da capire perché l’eterna questione meridionale sia rimasta irrisolta e perché anni e anni di finanziamento pubblico non abbiano lasciato il segno. A cosa si deve il fallimento? All’invasività delle mafie, allo sfascio delle istituzioni locali o, come vuole certa letteratura meridionale, a uno spietato sacco condotto dai poteri forti del nord? E ancora: la distanza tra un’Italia e l’altra si deve misurare solo con i parametri dell’industria e dell’occupazione, o si devono considerare anche le profonde diversità culturali?
Sono domande di cui siamo debitori a Sabino Cassese che per cercare risposte ha curato per il Mulino un saggio molto ricco che raccoglie le “Lezioni sul meridionalismo” tenute lo scorso anno da storici ed economisti al Centro Guido Dorso di Avellino. E proprio alla prima intuizione di Dorso, che vedeva il cuore del problema nel mancato completamento della costruzione dello Stato, sembra fare riferimento Cassese quando individua nel mal funzionamento delle istituzioni il male di fondo del Mezzogiorno. Sì, è vero, la questione meridionale è stata sepolta dal diffondersi prepotente del neoliberismo che ha demonizzato l’intervento pubblico, e dalla scomparsa dei partiti politici di massa che ponevano la rinascita del Sud al centro dei loro programmi (e pure dei loro interessi clientelari ed elettorali). Ma il processo era già cominciato.
Sostiene Cassese che il divario tra nord e sud nasce proprio, come dire?, dal diverso rendimento delle istituzioni, e degli uomini che le dirigono. Di fatto la macchina pubblica, giuridicamente simile a quella del resto del Paese, è stata consegnata alle classi dirigenti locali senza pretendere che esse rispondessero allo Stato, non alle camarille. È successo anche con le Regioni che prima hanno avocato a sé l’intervento straordinario, poi lo hanno di fatto vanificato con spietate logiche di potere. Si sono presi il Sud e ne hanno fatto un deserto.
Tra qualche settimana la Svimez sfornerà analisi aggiornate al 2016 e dalle prime anticipazioni sembra per fortuna che segnali di svolta ci siano, ma ahimè non bastano - e dopo tanti anni di segni meno - a modificare una realtà da brividi. Dall’inizio della crisi, nel Sud le famiglie povere sono aumentate del 40 per cento; una su cinque denuncia difficoltà nel rifornirsi d’acqua; i consumi sono diminuiti del 13 per cento. La popolazione invecchia, e i morti sono più dei nuovi nati; quattro giovani su cinque non lavorano, in quindici anni se ne sono andati via in 500mila, il tasso di disoccupazione è doppio che nel resto del Paese. Quattro ragazzi su dieci non raggiungono un diploma superiore, crollate anche le iscrizioni nelle università del Sud, e qui pesa anche la scarsa qualità degli studi. In quanto a ricchezza prodotta, il divario nord-sud si allarga: lassù si compete con la Germania, quaggiù solo adesso si intravede una prima inversione di tendenza.
Si potrebbe continuare. Ma questi sono parametri economici e sociali, e lasciamo pure da parte la criminalità. Il gap riguarda, e questo è forse ancora più grave, anche le istituzioni pubbliche e il loro funzionamento. Qui tutti gli indici sono peggiori che al Nord: al Sud si spende di più per le pensioni di invalidità; sono più numerosi i dipendenti di Regioni, Province e Comuni e molto più alti i costi perfino delle Prefetture, e della politica in genere. Quasi a dimostrare che la stessa macchina, con le stesse caratteristiche, cammina in modo diverso a seconda del terreno in cui è costretta. Sono contesti in cui spesso latitano le garanzie essenziali: qui c’è corruzione diffusa, il governo è lontano, la proprietà privata non è ben tutelata.
Più o meno questo è il quadro: desolante. Resta da capire perché l’eterna questione meridionale sia rimasta irrisolta e perché anni e anni di finanziamento pubblico non abbiano lasciato il segno. A cosa si deve il fallimento? All’invasività delle mafie, allo sfascio delle istituzioni locali o, come vuole certa letteratura meridionale, a uno spietato sacco condotto dai poteri forti del nord? E ancora: la distanza tra un’Italia e l’altra si deve misurare solo con i parametri dell’industria e dell’occupazione, o si devono considerare anche le profonde diversità culturali?
Sono domande di cui siamo debitori a Sabino Cassese che per cercare risposte ha curato per il Mulino un saggio molto ricco che raccoglie le “Lezioni sul meridionalismo” tenute lo scorso anno da storici ed economisti al Centro Guido Dorso di Avellino. E proprio alla prima intuizione di Dorso, che vedeva il cuore del problema nel mancato completamento della costruzione dello Stato, sembra fare riferimento Cassese quando individua nel mal funzionamento delle istituzioni il male di fondo del Mezzogiorno. Sì, è vero, la questione meridionale è stata sepolta dal diffondersi prepotente del neoliberismo che ha demonizzato l’intervento pubblico, e dalla scomparsa dei partiti politici di massa che ponevano la rinascita del Sud al centro dei loro programmi (e pure dei loro interessi clientelari ed elettorali). Ma il processo era già cominciato.
Sostiene Cassese che il divario tra nord e sud nasce proprio, come dire?, dal diverso rendimento delle istituzioni, e degli uomini che le dirigono. Di fatto la macchina pubblica, giuridicamente simile a quella del resto del Paese, è stata consegnata alle classi dirigenti locali senza pretendere che esse rispondessero allo Stato, non alle camarille. È successo anche con le Regioni che prima hanno avocato a sé l’intervento straordinario, poi lo hanno di fatto vanificato con spietate logiche di potere. Si sono presi il Sud e ne hanno fatto un deserto.