Orfani bianchi! Il costo drammatico delle badanti
Famiglie distrutte, bambini suicidi. Del calvario in patria delle nostre badanti non sappiamo nulla
Si svegliano una mattina. E le loro mamme non ci sono più. Partite. La maggior parte verso l’Italia. A fare le badanti, a prendersi cura dei nostri vecchi e dei nostri figli. Mentre i loro vecchi e i loro figli restano da soli, in Romania, Moldavia, Ucraina, Polonia o Russia. Da un lato l’Italia che invecchia ogni giorno di più, dove le famiglie – tantomeno lo Stato – non si occupano più della famiglia. Dall’altra i Paesi dell’estremo Est dell’Europa, dove invece le famiglie si sgretolano per risolvere i problemi delle nostre.
I figli a distanza crescono con i padri, le nonne, le zie, i vicini di casa o addirittura da soli in istituti per minori. “Orfani bianchi”, li chiamano: secondo l’Unicef sono almeno 350mila in Romania, 100mila in Moldavia. E spesso la separazione dalla madre è troppo dolorosa, l’attesa troppo lunga da sopportare. Nei casi meno drammatici, questi bambini finiscono per essere depressi, sviluppano dipendenza dalle droghe o dall’alcol, o prendono la strada dell’illegalità. Nei casi più drammatici si tolgono la vita, anche a dieci, undici, dodici anni. «Un gesto estremo», spiega Silvia Dumitrache, presidente dell’Associazione donne romene in Italia, «credendo che sia l’unico modo per far tornare le mamme a casa». Quanti siano i suicidi tra gli orfani bianchi non si sa con precisione. Non esiste alcuna statistica, né il governo romeno si occupa del fenomeno (basti pensare che in Romania un ministero per i Romeni nel mondo esiste pure, ma non ha neanche un anagrafe degli emigrati e ora ha chiesto alla Chiesa ortodossa di aiutarlo nel censimento). «Io ho contato almeno 40 suicidi di bambini negli ultimi anni», racconta Silvia, «poi mi sono fermata, non ce la facevo ad andare avanti».
Le badanti in Italia sono più di un milione e seicentomila (dati Censis): più di quattro quinti sono donne, e oltre il 77% è straniero, in maggioranza romene, seguite da ucraine, filippine, moldave, marocchine, peruviane, polacche e russe. Donne che lasciano tutto, figli compresi, per garantire alle famiglie a distanza una vita migliore. I mariti perdono il lavoro, e loro partono. È il mercato dell’assistenza familiare che le cerca. Le vediamo guidare sotto braccio i nostri vecchi, accompagnarli negli ultimi anni della loro vita, occuparsi di quello di cui non vogliamo (o possiamo) più occuparci. Ma di quello che si sono lasciate alle spalle, delle famiglie che hanno salutato a migliaia di chilometri di distanza per prendersi cura delle nostre sappiamo poco o nulla.
«Diaspora romena», la chiama Silvia Dumitrache, che a Bucarest faceva la redattrice in una rivista culturale. «È un fenomeno che ha a che fare con l’emigrazione economica, ma anche con l’emancipazione della donna romena», spiega. «In Romania, soprattutto nel Nord del Paese, molti uomini hanno problemi di alcolismo e finiscono per diventare violenti. Così le donne fuggono in Italia a lavorare, magari svengono per stanchezza, ma non sotto le botte dei mariti. Chi paga le spese di queste situazioni sono i bambini che restano con le nonne o con le zie, ma senza le mamme». Secondo Unicef, il numero dei minori lasciati a casa (left behind) in Romania sarebbe pari al 7% della popolazione romena tra gli 0 e i 18 anni. Più della metà (52%) vive nelle zone rurali, dove è più frequente che siano le madri a partire, contrariamente alle grandi città dove più spesso è il padre ad allontanarsi; e più della metà ha meno di dieci anni.
La separazione dalla madre è troppo dolorosa, così i bambini decidono di togliersi la vita
Il fenomeno non è nuovo in Romania, dove durante la dittatura comunista esistevano i cosiddetti «bambini con la chiave al collo», chiamati così perché passavano il loro tempo davanti alle porte delle loro case con la chiave appesa al collo, in attesa che i genitori rientrassero dopo una giornata di lavoro. Quella generazione, spiegano gli esperti, è la stessa che oggi emigra lasciando i figli a casa pensando che «così come è stato per loro in passato, il compito del genitore sia quello di sostenere i figli da un punto di vista materiale proprio perché sono stati abituati a una distanza emotiva e a volte anche fisica dei genitori». Ma Silvia Dumitrache ha anche un’altra spiegazione: «Ceausescu emanò un decreto in cui impedì l’aborto», racconta, «nacquero i cosiddetti decrezei, bimbi non voluti cresciuti con poco affetto, non abituati a una genitorialità presente. Per questo rimangono molti bambini da soli in Romania e in altri Paesi no, per questo molti bambini si tolgono la vita in Romania e in altri Paesi no. C’è questa sofferenza accumulata. È come una malattia. Resta da chiedersi che genitori saranno a loro volta questi “orfani bianchi”».
Solo in Italia i romeni sono più di un milione (di cui oltre la metà donne), circa quattro milioni in tutta Europa. Silvia è una di loro, stabilitasi nel nostro Paese, a Milano, undici anni fa per curare suo figlio. Finché una sera del 2010 in tv vede una documentario,Home Alone. A Romanian Tragedy, che racconta la storia di tre bambini suicidi in Romania dopo la partenza delle madri per l’Italia. Tre bambini che un giorno, dopo la scuola, si sono impiccati.
IL TRAILER DI HOME ALONE. A ROMANIAN TRAGEDY
«Davanti a quelle immagini ho capito che dovevo fare qualcosa», racconta Silvia, «così prima ho creato un gruppo su Facebook per cercare di attirare l’attenzione dello Stato su questi eventi disastrosi, poi grazie alle conoscenze che avevo in Romania è partito il progetto “Mamma ti vuole bene”, in romeno “Te iubeste, mama!”». Tramite la rete delle biblioteche nazionali romene, molti paesi e città romene si sono popolate di postazioni Internet da dove i bambini rimasti soli possono collegarsi gratuitamente via Skype per parlare, e guardarsi, con le mamme a distanza. Silvia è appena tornata dalla Romania, dove ha fatto il giro di alcune delle biblioteche che hanno aderito al progetto. Un gruppo di bambini le ha dato dei disegni da consegnare alle madri in Italia. Uno di loro non sa neanche dove sia la mamma. Quando ne parla Silvia non riesce a non commuoversi. In uno dei disegni c’è scritto: «Mamma ti voglio bene. Ero sconvolto quando mi hai lasciato da solo». E ancora: «Cara mamma, mi manchi molto da quando te ne sei andata»; «è difficile senza di te, ti prego di tornare».
(Uno dei disegni fatti dai bambini romeni e consegnati a Silvia. È scritto: “Cara mamma, è difficile senza di te. Ti prego di tornare”)
«Non basta il telefono per restare in contatto con le mamme», spiega Silvia, «serve il contatto audiovisivo, per vedere come crescono i propri figli, soprattutto quando le donne non riescono a tornare a casa almeno una volta all’anno. Ma spesso in Romania anche se una scuola possiede un computer connesso alla Rete, i bambini non possono usarlo perché manca il personale di sorveglianza. Nelle zone rurali un computer non è un giocattolo che costa poco. Il mio sogno è dare un portatile a ognuno di questi bambini di modo che possano parlare con le loro mamme». Certo, «non è come essere a casa con il proprio figlio e dargli il bacio della buona notte. Però ci si può confidare, fare i compiti insieme, ci si può guardare negli occhi. E non lo dimentichi, vai a dormire con quell’immagine». Cosa che fa bene ai figli, ma anche alle mamme. «Perché se stanno bene le mamme, stanno bene anche i figli».
Molto dipende da come le mamme vanno via. «Se spieghi a tuo figlio dove vai e per quanto tempo, è come andare dal dentista: il medico ti dice che il dente ti farà male per un certo periodo di tempo, ma c’è una fine. Diverso è quando si parte mentre il bambino dorme perché la mamma di solito per non far male al proprio figlio non glielo dice. Magari glielo dice il giorno dopo la nonna: “La mamma è dovuta partire e fra poco torna”». In Romania, se va bene, restano i padri, i vicini di casa, le altre donne della famiglia, che si occupano della cura dei figli. Se va male, i bambini finiscono negli istituti per minori. «I genitori», spiega Silvia, «nella maggior parte dei casi vanno via senza avvisare le autorità, non lasciando la tutela legale dei bambini a nessuno. Le procedure sono lunghe e chi prende in affido un minore deve avere determinate caratteristiche, sottoporsi a un test psicologico, per questo si evita di farlo. Tante, poi, non dicono che sono venute in Italia a fare le badanti perché si vergognano. Magari in Romania sono ingegneri, insegnanti, hanno una preparazione universitaria. Così partono e basta. Ma se un bambino viene aggredito o se fa uso di alcol e droga, allora interviene l’autorità pubblica e finisce in un istituto. Di recente è stata approvata una legge che multa i genitori che vanno via senza avvisare le autorità, ma l’effetto è che la gente si nasconde di più. Partono senza dire niente neanche ai vicini di casa».
Si prende il pullman alle 5 del mattino, dopo due giorni si arriva in Italia, dove magari qualche altra connazionale ha già trovato una famiglia per te. Il percorso è tanto semplice quanto difficile. Portare con sé i bambini spesso è impossibile. Fare la badante significa vivere nella stessa casa dell’anziano assistito, lavorare senza sosta, trascorrere notti in bianco. È un lavoro logorante. «Vivono in clausura, senza uscire e senza parlare con nessuno», dice Silvia. «In tante sviluppano forme di asma, stanno male, hanno sguardi vuoti e assenti. Non è normale che si faccia una vita del genere. E i bambini percepiscono il malessere delle mamme. Alcuni si suicidano proprio perché pensano che così le mamme tornano a casa e smettono di soffrire». Secondo un’indagine di Acli Colf, il 39,4% delle badanti dice di soffrire di insonnia, e il 33,9% di ansia o depressione. Una su tre, nell’ultimo anno, non è mai andata da un medico a controllare il proprio stato di salute, e tra le under 35 il dato sale al 44,2 per cento.
Il suicidio viene visto dai bambini come l’unico modo per far tornare le mamme a casa
Nel 2005 due psichiatri ucraini, Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych, hanno coniato un nome, “sindrome italiana”, per identificare la depressione diffusa tra tante donne badanti tornate in patria dall’Italia. Madri poco più che ventenni, piombate senza filtri in case sconosciute a curare anziani malati, spesso in condizioni di isolamento, che al ritorno nel proprio Paese poi fanno fatica a reinserirsi in famiglia, a parlare con i figli per i quali magari si sono trasformate in asettici bancomat dispensatori di soldi e regali. «I figli per colmare la mancanza di affetto chiedono sempre di più, ma anche per i parenti che si prendono cura dei figli». In Romania, racconta Silvia, «ho incontrato una donna che al ritorno dall’Italia non capiva dove si trovava, non riusciva a comunicare con i propri figli. Queste donne si sentono invecchiare insieme agli anziani che curano. Non hanno più 20 anni, ma 70».
La “sindrome italiana” è l’altra faccia della medaglia degli orfani bianchi, l’altra faccia dell’assenza di servizi pubblici che porta le donne italiane (su cui ricade ancora il 70% del tempo della cura della famiglia) che vogliono entrare nel mondo del lavoro a rivolgersi ad altre donne, più povere. Secondo il Censis, la crescita della domanda di servizi di assistenza porterà il numero degli attuali collaboratori domestici a più di 2 milioni entro il 2030. Un boom, scrive Mara Tognetti Bordogna in Donne e percorsi migratori, che ha consentito «alle donne italiane di lavorare fuori casa “conciliando” gli impegni familiari, senza nulla cambiare nella relazione di genere».
(Silvia Dumitrache nello spazio dedicato all’Adri alla Cascina Cuccagna di Milano)
Le donne continueranno a partire, «e vengono giudicate male dalla comunità in cui vivono e dalle autorità», dice Silvia Dumitrache. Per i bambini che restano, «la parte dolorosa non è tanto il distacco, quanto l’attesa che non finisce mai. E poi c’è la mancanza di comunicazione, il non poter immaginare cosa fa la mamma nell’altro Paese. Ti senti abbandonato. Per questo i bambini si tolgono la vita. Pochi si accorgono del loro disagio, perché in Romania, soprattutto nelle zone rurali, la figura dell’assistente sociale è assente». La situazione è ancora più grave in Moldavia: qui il numero dei suicidi tra i preadolescenti è altissimo, e il governo ha avviato una campagna di informazione e sostegno per le emigrate e le loro famiglie. Cosa che in Romania ancora non esiste. «Manca la prevenzione, ma anche il supporto delle famiglie a distanza», spiega Silvia. «Sia lo Stato di partenza sia lo Stato di arrivo sono colpevoli di questo disagio. È un fenomeno sottovalutato a livello europeo».
Il 33,9% delle badanti soffre di ansia o depressione. Il 39,4% è insonne. Gli psichiatri la chiamano “sindrome italiana”
E non è un caso che il progetto “La mamma ti vuole bene”, messo in piedi da Silvia con i pochi mezzi a disposizione, non riesca a rompere il muro di gomma dei palazzi romani e a trovare fonti di finanziamento per essere diffuso tra le badanti italiane. «L’Italia è l’unico Paese al mondo con oltre 1,5 milioni di badanti», dice, «ma non ha una politica adeguata. Dal 2008 non è cresciuta la spesa dello Stato nella cura degli anziani, è cresciuta solo la spesa delle famiglie». Molte delle badanti «quando arrivano non conoscono l’italiano e vivono situazioni di disagio, con l’aggiunta della sofferenza dovuta al distacco dalle proprie famiglie e dai propri figli», spiega Silvia. Nel 2011 la giunta comunale di Milano aveva approvato un progetto pilota per uno sportello di accoglienza, ma senza finanziamenti. Ora sta per nascere uno “sportello donna” nella Cascina Cuccagna della città per due ore alla settimana, ma anche qui non ci sono finanziamenti. «Serve un progetto governativo di accoglienza e informazione per affrontare in modo serio questo problema, il volontariato da solo non basta». Un esempio: «Vogliamo far emergere il lavoro nero? Insegniamo a queste donne a usare un conto bancario senza maneggiare solo contanti». Il sito che Silvia aveva creato per fare informazione tra le immigrate straniere, famigliaonline.it, è fermo ad aprile 2013. Motivo: mancano i soldi per pagare qualcuno che curi la parte informatica. «Vorrei che diventasse una piattaforma di comunicazione tra la diaspora romena e la Romania», ripete più volte.
Ma la vita delle donne straniere che curano i nostri anziani, per il momento, resta confinata nelle case di chi le ospita. Le vedi nei parchi delle nostre città di domenica pomeriggio, quando hanno qualche ora di riposo. O in attesa nelle stazioni dei pullman cariche di scatole e valigie. Le poche che riescono a tornare per pochi giorni nei loro Paesi hanno le borse piene di giochi, qualcuna carica sul pullman anche qualche bicicletta. Ma di loro, dei loro figli e delle loro famiglie, soprattutto da quando Paesi come la Romania sono entrati in Europa, non si occupa nessuno. Né lo Stato di partenza, per il quale sono il miglior contribuente: «I soldi che queste donne spediscono ogni mese alle loro famiglie vengono usati senza che però loro facciano spendere niente allo Stato, e non pesano neanche sul tasso di disoccuapazione». Né lo Stato di arrivo, come l’Italia appunto, che pure alle badanti riserva sempre delle quote maggioritarie nei decreti flusso, e che alle badanti ha ormai demandato il lavoro di cura dei suoi anziani.
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