sabato 13 settembre 2014

Riceviamo e pubblichiamo.

Storia e origini della “Casta” politica italiana

Il racconto di “Lei non sa chi ero io!” di Filippo Maria Battaglia: alla base, gli stipendi alti

Montecitorio/Getty Images/ANDREAS SOLARO

  
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copertinaQuando è nata la “Casta” politica italiana? Non certo con gli insulti dei grillini o con il libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. La “Casta” nasce ben prima. Così come i festini hard che fanno scandalo sui giornali. E lo racconta bene Filippo Maria Battaglia nel suo libro Lei non sa chi ero io! edito da Bollati Boringhieri editore. Ecco un estratto:
Stipendi d’oro in Aula e amanti al Colle: arriva «la casta» 
“Cinque milioni di lire in un anno, venticinque per un intero mandato. A tanto ammonta il compenso dei parlamentari nel 1963. A fare i conti nelle tasche degli eletti, alla fine della terza legislatura, è «Il Borghese»: un onorevole incassa in un mese quanto nove operai per partecipare a poco più di centoquaranta sedute l’anno. Lo stipendio, in realtà, si ferma a 740mila lire ma in soccorso della busta paga arriva il «rimborso spese». Da regolamento dovrebbe essere variabile sulla base delle presenze in Aula, certificate da un apposito registro, che però non è controllato da nessuno. «Un collega comunista con un libretto in mano – è la denuncia di un deputato dc al quotidiano «Il Tempo» – metteva firme di presenza, oltre che per sé, per alcuni suoi colleghi assenti, che avrebbero così percepito il gettone». L’inchiesta di Montecitorio scatta subito ma si chiude con una semplice censura generica.
In questi mesi il conto corrente dell’onorevole si arricchisce poi di nuove e imprevedibili agevolazioni: treni, navi e autostrade gratis per sé e «per la sua famiglia, compresi i cugini lontanissimi, o dichiarati tali»; crociere senza sborsare un lira, «e non solo in Italia»; aerei a metà prezzo; e ancora ingressi liberi e illimitati in teatri, stadi, cinema, vernissage e musei: ormai «il parlamentare paga proprio quando non ne può fare a meno». «Oggi come oggi – nota Montanelli – circa la metà dei nostri parlamentari non ha altra attività che quella politica, la quale così viene a rappresentare per essi, oltre che una vocazione, una “sistemazione”».
Ne è una conferma l’arrivo della pensione. Introdotta nel 1959, è ovviamente reversibile e prevede un assegno mensile di 50mila lire dopo cinque anni di contributi, con l’aumento di 10mila lire per ogni anno in più fino a un massimo di 200mila lire mensili. Il risultato? Un ex deputato con quattro legislature alle spalle, a 60 anni incassa 2 milioni e 400mila lire l’anno. «Una scelta aberrante», commenta don Sturzo.
Gli onorevoli fanno pure incetta di esenzioni fiscali, prestiti (i settimanali parlano di linee di credito di centinaia di milioni, spesso non garantite) e mutui concessi a tassi di favore, i cui interessi sono in buona parte pagati dallo Stato. Amaro e profetico il commento del prete di Caltagirone: se si considera «la tendenza di dare posti di consolazione a ministri, sottosegretari e deputati fuori uso», i nostri parlamentari, più che a rappresentare il popolo, sembrano ormai impegnati a «voler creare o consolidare una casta».
La sfilza di episodi di malcostume che a vario titolo si affastellano nelle prime legislature del Dopoguerra non aiuta. Presi singolarmente non hanno particolare rilievo, ma uno dietro l’altro restituiscono un quadro non esattamente edificante degli eletti. Riguardano democristiani, monarchici e socialdemocratici alle prese con reati vari e quasi tutti si risolvono con un nulla di fatto.
Ampio il campionario giudiziario: truffe, fallimenti, minacce, usura, violenza privata e persino correità in adulterio causate tra l’altro da «morbose e innaturali tenerezze verso ex segretari particolari».
Le cronache di questi mesi regalano poi inaspettate descrizioni di feste della Roma bene, quasi sempre trasversali, dove si ritrovano «tutti: liberali, comunisti, preti, belle donne e brutte donne»,e soprattutto un altro scandalo a luci rosse.
Compare sui quotidiani il 14 febbraio 1961 e riguarda la «scoperta da parte della Polizia dei Costumi di una casa-squillo di alto rango per “amatori” facoltosi», dove «alcune divette, indossatrici e signorine di buona famiglia piuttosto note nei ritrovi di Via Veneto», coordinate dall’ex parrucchiera Mary Fiore, «danno sollazzi a nomi conosciuti», anche della politica. Passano pochi giorni, aumentano le indiscrezioni e le «squillo da un milione» diventano un nuovo strumento di «lotta fra frazioni Dc». Ma le identità dei clienti non vengono fuori: i rotocalchi che li annunciano vengono subito ricompensati per il loro silenzio.
I ricatti – scrivono i settimanali – sono ormai «l’arma segreta della vita politica nazionale». In particolare, nota Eugenio Scalfari, il mirino è indirizzato sui democristiani di sinistra, colpevoli «di fornicare di giorno con il diavolo in berretto frigio, e di notte col diavolo in gonnella».
Tra i più ghiotti di fascicoli e pettegolezzi condizionanti, il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, che riceve puntuali report da Giovanni De Lorenzo, a capo del Sifar, il servizio segreto militare. Sotto la direzione del generale (che di lì a breve sarà protagonista di una delle pagine più controverse della storia repubblicana, legata al Piano Solo) vengono schedati migliaia di politici, ecclesiastici e grand commis. Il risultato? Oltre 150mila fascicoli che quasi mai hanno a che fare con la necessità di sicurezza (compito per il quale è nato il servizio segreto) e che spesso si rivelano inattendibili. Alcuni sono mastodontici: «Per l’onorevole Fanfani – racconterà anni dopo il generale Aldo Beolchini – c’erano quattro volumi, ciascuno gonfio come un doppio dizionario».
Sui maneggi tra Quirinale e De Lorenzo con la complicità di diversi politici si mormora durante tutto il settennato di Gronchi, ma è al giornalista Renzo Trionfera che si devono le inchieste più dettagliate sul Colle. La sua presidenza – scrive – è affollata «di personaggi squalificati, di affaristi, di maneggioni del sottogoverno: uomini e donne potentissimi», intenti a «colpi miliardari», culminati col tentativo di «comperare voti in Parlamento e simpatie esterne» per intercessione della mano munifica di Enrico Mattei che mette a disposizione «un miliardo tondo» con l’obiettivo di «raddoppiare il festoso mandato» del presidente. Gronchi si infurierà più volte per quelle inchieste: prima minacciando l’editore Angelo Rizzoli sr, poi – dopo l’esplosione del caso nel 1967 – difendendosi in modo impacciato in Aula.
I traffici attribuiti all’entourage del Colle sono tanti: tra i più noti, quello legato a un francobollo, il cosiddetto «Gronchi Rosa». Il 3 marzo 1961 viene emesso dalle Poste in coincidenza di un viaggio presidenziale in Sudamerica. Per un errore nei confini tra Perù ed Ecuador, viene ritirato solo diverse ore dopo una limitata distribuzione. E «tanto è bastato – denunciano i giornali – perché alcuni signori, stranamente bene informati, abbiano fatto incetta del prezioso pezzetto di carta».
Ma le attività del settennato non si limitano qui. Il presidente, infatti, oltre a essere goloso di dossier e maldicenze, ne è un indiscusso protagonista. «I romani – racconterà il settimanale «Abc» – parlano spesso della porticina che Gronchi ha fatto aprire su un lato del Quirinale, in via dei Giardini. Si mormora che di lì passino le amicizie femminili del Presidente, che non potrebbero introdursi per il portone principale senza dare adito a pettegolezzi». Amicizie che costano al Parlamento diversi provvedimenti ad personam: uno di questi sarà ribattezzato «legge Pompadour» proprio perché «destinato a una delle sue favorite».
Il caso più clamoroso del settennato ha però a che fare con la nomina di un anonimo ragioniere, Torello Ciucci, «esercente di cinematografo a Pontedera», a presidente dell’Enic, l’Ente nazionale industrie cinematografiche. Un colosso industriale, valutato in diversi miliardi, che in poco meno di un anno viene svuotato dei suoi beni e venduto a un prezzo irrisorio.
La manovra non passa inosservata: è la rivista di spettacolo «Intermezzo» a scrivere una lettera aperta indirizzata allo stesso Gronchi, a cui si chiede di sollecitare un’indagine. Intanto alcuni periodici informano che Torello Ciucci, ribattezzato «il ragioniere tutto d’oro», si «è installato in un appartamento sfarzoso» a Roma, insieme alla moglie, «signora Dilva, intima del Quirinale»,31 che segue il presidente in più di una trasferta. La vicenda arriva in Aula, ma come da copione avrà esiti impalpabili.
L’ultimo scorcio della legislatura regala però anche un’inaspettata condanna lampo. È quella di Ebe Roisecco, un’intraprendente donna d’affari assai vicina agli ambienti Dc. «Accusata di una lunga serie di truffe (nove in tutto)», nei primi anni del Dopoguerra è dedita alle importazioni di prodotti (e soprattutto al traffico delle necessarie licenze), fino a quando non viene incastrata per colpa di un assegno falso, e, dopo la condanna in primo grado a dieci anni e otto mesi, decide di parlare.
In un lungo memoriale, pubblicato il 3 marzo 1960, tira in ballo i nomi di democristiani e socialdemocratici, parla «di una fitta rete di amicizie» e ammette di aver fatto «guadagnare laute provvigioni ai partiti, soprattutto a quello saragattiano» (leggi Psdi). La confessione imbarazza la maggioranza ma non la scalfisce. Nessuna indagine suppletiva: l’unico effetto che sortisce è quello di far accelerare sensibilmente il processo, che resta a carico della sola Roisecco.
La sentenza d’Appello arriva il 13 luglio, tre mesi dopo il primo grado. Passano appena cinque giorni e arrivano le motivazioni. L’8 agosto scadono i termini per il ricorso e il 10 settembre si è già in Cassazione. Ai magistrati basta poco più di un quarto d’ora «per chiudere il caso e le polemiche» e soprattutto il rischio di prescrizione, che sarebbe scattata 12 ore dopo. Una celerità improvvisa e inusuale, notata da diversi quotidiani: «Sulla “signora mezzomiliardo” si chiudono le porte del carcere, che rappresentano sempre una forma di validissima censura».
I maneggi di Ebe Roisecco non sono isolati. Il traffico delle licenze e delle importazioni, in questi anni, è fiorente e frequentatissimo. Non è un caso che di qui nasca l’ultimo affaire che precede l’insediamento del primo governo di centrosinistra. Riguarda l’Azienda del monopolio delle banane, un’eredità del fascismo nata per garantire che si consumino solo frutti tropicali prodotti «nei territori dell’Impero» e sopravvissuto al regime grazie a una giustificazione formale: la tutela italiana sulla Somalia. Tocca al ministro delle Finanze, il dc Trabucchi, regolare l’indizione delle aste per i grossisti che aspirano alla concessione. «Lo schema – nota Livio Zanetti – è evidente: da una parte ci sono gli ex gerarchi della Somalia che devono continuare a coltivare le loro banane senza preoccuparsi di migliorarne la produzione perché tanto lo smercio è garantito; dall’altra gli armatori che hanno diritto al loro nolo assicurato; più in là ancora i grossisti, che non rinunciano a prelevare la loro taglia sul consumatore. E in mezzo, a regolare il buon funzionamento del meccanismo, i funzionari del monopolio».
A una di quelle aste, sulla carta segreta, i vecchi concessionari azzeccano al centesimo il canone minimo nelle zone in cui non ci sono concorrenti e il canone massimo dove hanno rivali. I contendenti, rimasti a bocca asciutta, fiutano la magagna e, complice una minuta di verbale dove risulta che i grossisti avrebbero pagato decine di milioni per conoscere in anticipo le cifre, decidono di informare con un telegramma il premier Fanfani.
L’asta è annullata, il presidente dell’Azienda monopolio banane Franco Bartoli Avveduti, ex segretario di Trabucchi, finisce in manette, rinviato a giudizio insieme ad altre 124 persone. In tribunale, mostra diverse lettere e dice di aver ricevuto «segnalazioni scritte e orali di influenti personalità Dc perché venissero ammessi all’asta ed informati dei prezzi minimi e massimi alcuni concessionari di Bologna, Palermo, Verona e Brescia». Il ministro dc e il suo entourage, racconta Avveduti, sono tra i più attivi a chiedere e a sollecitare indicazioni. Eppure vengono appena sfiorati dalle indagini e se la cavano. Almeno per ora.
Passano meno di due anni e con l’inizio della nuova legislatura, Trabucchi, che nel frattempo non è più nel governo, si ritrova coinvolto in un altro scandalo, sempre riferito allo stesso periodo.
È accusato di un’altra irregolarità risalente a quando era al dicastero: «Avere abusivamente concesso licenze di importazione di tabacco messicano a due società private e di averne ricavato grossi utili» a favore della Democrazia cristiana. L’ex ministro – difeso da un giovane deputato sardo, Francesco Cossiga – respinge tutti gli addebiti. Stavolta, però, non basta: non c’è tempo per nessuna commissione di inchiesta. Il Parlamento, con la nuova maggioranza allargata ai socialisti, si riunisce in seduta comune per decidere sulla messa in stato d’accusa davanti alla Corte Costituzionale, a cui tocca decidere sui reati ministeriali.
La Dc si ritrova isolata e finisce in minoranza: 461 voti a favore della richiesta contro 440. Ma Trabucchi per meno di 20 voti la scampa grazie a un regolamento che «in barba alla Costituzione» – nota Alessandro Galante Garrone su «La Stampa» – «ha imposto una maggioranza speciale anche per la messa in stato d’accusa dei ministri» e non solo per il presidente della Repubblica.
Alla Camera succede il finimondo: comunisti, socialisti e repubblicani si indignano, volano insulti e «infamanti accuse». Il giorno dopo, però, l’aria si fa più serena, quantomeno nella maggioranza. Il caso è chiuso, dice «L’Avanti», «c’è solo da augurarsi che l’opinione pubblica non rimanga scossa sino alla sfiducia». Alle accuse rivolte a ministri e parlamentari, il presidente del Consiglio Aldo Moro replicherà deciso: «La nostra classe politica è profondamente onesta. La fibra è buona e non merita la sfiducia del Paese».
È il 24 ottobre 1965. Da quasi due anni il Psi è entrato nella «stanza dei bottoni». Dopo una lunga gestazione, l’apertura a sinistra è diventata cronaca politica. Ma nonostante le rassicurazioni di Moro e dei suoi alleati, il caso Trabucchi non sarà l’ultimo colpo di coda di una stagione ormai archiviata. Al contrario. L’ingresso dei socialisti nel governo, più che a coincidere con un cambio di rotta, finirà col dare stabilità a un sistema ormai già collaudato, perfezionandone i tic, puntellandone i vizi e ampliando il senso di privilegio e impunità.
© Bollati Boringhieri

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