mercoledì 10 settembre 2014

Mentre l'Italia perde una generazione l'Australia ne guadagna una.

Quei 10 mila italiani dispersi in Australia, tra lavoro (duro) e sogni

Non è tutto oro quel che luccica: molti giovani finiscono col ritrovare all’altro capo del mondo alcune delle situazioni che li avevano spinti a lasciare il Bel Paese

di Claudia Astarita

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Nel 2013 sono stati oltre 208mila i giovani stranieri a fare domanda per il visto vacanza-lavoro per l’Australia (in inglese, working holiday visa). Altri 46mila hanno deciso di rinnovarlo per altri dodici mesi. Tra questi vi sono circa 10mila italiani, atterrati con il sogno di fare fortuna nell’Eldorado del Terzo Millennio. Vale a dire in un Paese che, oggi, sembra garantire opportunità infinite offrendo in cambio la possibilità di godersi la vita, grazie a un salario medio alto, uno stile di vita semplice e pratico, servizi di buon livello e burocrazia non opprimente. Sempre più giovani italiani partono alla volta di Melbourne, Sidney, Perth o Brisbane alla ricerca di questa vita ideale, senza immaginare che, per molti di loro, la nuova Terra Promessa si rivelerà meno accogliente del previsto. Nel 2011 sono entrati in Australia 185mila ragazzi. Nel 2012 249mila e l’anno scorso 254mila.
I pionieri hanno lasciato spazio ai pianificatori
«Nonostante le cifre, ormai l’era dei pionieri si è conclusa per lasciare spazio a quella dei pianificatori. Le opportunità di lavoro down under non si sono affatto esaurite, ma sono state minuziosamente regolate», spiega il Console Generale a Melbourne Marco Maria Cerbo, «il che vuol dire che le autorità locali si aspettano che i giovani entrati con il visto vacanza-lavoro desiderino visitare il paese guadagnando nello stesso tempo quanto basta per sostenere i costi del soggiorno», non per gettare le fondamenta di una nuova vita a decine di migliaia di chilometri da casa. Del resto, è stato pensato per giovani interessati a concedersi una lunga vacanza, non per potenziali immigrati. A prescindere dall’entusiasmo con cui si affronta il grande viaggio, trasferirsi in un Paese di cui non si conosce nulla, in taluni casi neppure la lingua, è complicato.
Le storie di chi ha dovuto accontentarsi
Lo ha scoperto Alessia, che sognava di fare l’insegnante d’asilo e dopo mille peripezie si ritiene soddisfatta da «tuttofare» per un’agenzia che assiste bar, pasticcerie e ristoranti. Simona ha invece i numeri per sfondare nel campo della gestione di eventi culturali, peccato che nessuno sembri interessato a metterla alla prova, costringendola a sbarcare il lunario facendo la barista. Idem per Federico: abituato a operare con la telecamera, si mantiene facendo il muratore part-time. Eva sperava di continuare la sua professione. E’ una dottoressa, partita senza sapere che in Australia i titoli di studio italiani non sono riconosciuti automaticamente. Per lavorare nel suo campo dovrebbe quindi ricominciare da zero, cioè dall’università. Francesco è un aspirante cuoco, ma nei ristoranti di Perth riesce a essere utile solo come cameriere o lavapiatti. Giacomo sogna la carriera da legale, ma la concorrenza è troppa per chi ha studiato all’estero e non ha un buon inglese. Eppure, alle storie di chi dall’Australia è rimasto deluso si contrappongono quelle di chi, invece, il sogno di divertirsi a scoprire una nazione così giovane e lontana, mettendo da parte anche un po’ di soldi da riportare in Italia, lo ha realizzato. Come? Accontentandosi di svolgere lavori poco qualificati o estremamente faticosi (miniere, aziende agricole, costruzioni) senza prestare troppa attenzione alle condizioni di lavoro (isolamento geografico incluso).
Il rischio di non conoscere l’inglese
Il visto vacanza-lavoro permette di rimanere in Australia per dodici mesi, e può essere rinnovato per altri dodici se il titolare accetta di trascorrerne almeno tre nel cosiddetto “outback”, lavorando nelle aziende agricole, nelle miniere e nel settore delle costruzioni. Costa circa 300 euro ed ha una serie di vincoli che, di fatto, gli impediscono di essere il trampolino di lancio per una carriera a tempo indeterminato down under. Tra questi, l’impossibilità di essere (legalmente) impiegati per più di sei mesi dallo stesso datore di lavoro (la maggiore facilità di essere reclutati per mansioni poco qualificate anziché il contrario dipende anche da questo), e la flessibilità sulla conoscenza dell’inglese, che per altri tipi di visto è necessaria: entrare in Australia senza conoscere l’inglese non è un vantaggio ma, al contrario, rischia di amplificare la delusione, perché una lingua si perfeziona, non si impara lavorando. È anche per questo che molti giovani finiscono col ritrovare all’altro capo del mondo alcune delle situazioni che li avevano spinti a lasciare il Bel Paese: periodi di prova non pagati (che tuttavia capitano sempre più di rado), precariato, lavoro in nero, compensi anche significativamente inferiori al salario minimo nazionale, che è di 16,37 dollari l’ora (con bar e ristoranti che arrivano a pagare anche appena 120 dollari al giorno a chi vi entra la mattina per uscirne a mezzanotte) e via dicendo. Tante volte è la vaga promessa di un’assunzione a dare a questi ragazzi la forza di continuare. In altri casi è la paura di confessare la delusione di un sogno infranto, ma per qualcuno resta forte la speranza che, prima o poi, l’occasione giusta arriverà. Qualche volta la tanto agognata occasione arriva davvero, ma più per coincidenze che per altri motivi. Ad esempio, la stretta sui visti vacanza-lavoro che Canberra ha preso in considerazione appena un paio di settimane fa, dopo aver costatato di essere stata letteralmente invasa da schiere di giovani europei alla (disperata) ricerca di un lavoro, potrebbe indirettamente aiutare gli italiani che sognano l’Australia a cambiare strategia.
I profili professionali che servono
La disoccupazione giovanile sta aumentando anche qui. Le ultime statistiche rivelano che il paese si sta avvicinando fin troppo rapidamente al tetto del 17 per cento, e visto che il tasso nazionale è fermo al 6,4, c’è chi crede che l’attuale disagio giovanile sia una conseguenza dell’ondata di disoccupazione che ha travolto Europa e Stati Uniti, e consiglia al governo di correre ai ripari. L’Australia è un paese ancora molto giovane e dinamico, e lo spazio non manca per chi entra «nel modo giusto», vale a dire con un visto per «lavoratori qualificati», in inglese skilled visa, l’unico che consenta di sbarcare down under e dedicarsi alla ricerca di un lavoro. Funziona, però, solo se si hanno i profili professionali che ogni anno il governo elenca come prioritari, stilando una lista di professioni autorizzate aggiornato in base alle esigenze del mercato del lavoro interno. In questo lunghissimo elenco non ci sono solo ingegneri, chimici, veterinari, medici cardiologi, optometristi, cartografi o igienisti dentali, ma anche muratori, piastrellisti, cuochi, infermieri, meccanici e falegnami, a patto che conoscano l’inglese e abbiano alle spalle un’esperienza lavorativa di un paio d’anni.

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