Annalisa Di Ruscio, ematologa a Boston: “Per la ricerca in Italia ci sono pochi fondi e spesi mali, e non c’è meritocrazia ma nepotismo”
Ulisseonline.it in un momento di crisi che investe il Paese, ritiene utile evidenziare un’ Italia forte e coraggiosa, competente e tenace, fatta da tanti giovani che si mettono in gioco accrescendo il proprio sapere, attraverso l’esperienza all’estero dove spesso realizzano i propri sogni. Una storia significativa è quella della dott.ssa Annalisa Di Ruscio nata a Sulmona. Dopo la maturità classica conseguita al Liceo Classico Ovidio della sua città natale, frequenta la Facoltà di Medicina e Chirurgia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, laureandosi nell’ottobre 2004.
Vive stabilimente a Boston dal 2007, dove si è trasferita, durante l’ultimo anno di specializzazione in Ematologia, per condurre un’esperienza di ricerca, nel laboratorio del Professor Tenen, presso il Beth Israel Deaconess Medical Center Medical Center-Harvard Medical School. Si specializza in Ematologia nel 2008 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e nello stesso anno si iscrive al dottorato di ricerca, continuando a lavorare nel laboratorio del Prof. Tenen. Consegue il Dottorato di Ricerca nel 2012.
Il suo impegno di ricercatirce è stato premiato il 26 giugno scorso con il Premio “Silvia Fiocco” consegnatole dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con la seguente motivazione: “Per ricerche nel campo delle leucemie, linfomi e cardiopatologie per la posizione preminente nelle pubblicazioni presentate, la qualità delle riviste e il numero delle citazioni, nonché la congruenza dell’attività scientifica con la tematica del Premio.”
Che significato ha avuto per lei questo riconoscimento?
Avere la possibilità di incontrare il Presidente della Repubblica in occasione di un riconoscimento scientifico credo rappresenti per un ricercatore, che nutra un profondo senso di appartenenza e di amore per il proprio Paese, un onore grandissimo e un’emozione fortissima. Il messaggio del Presidente per i ricercatori (di varie discipline scientifiche e non) premiati quel giorno è stato stimolante, infondendo ottimismo, fiducia, incoraggiando a proseguire in questa direzione.
Per una giovane ricercatrice italiana quali sono le difficoltà che s’incontrano negli Stati Uniti e quali invece le opportunità?
In generale, poichè ogni storia è una storia a sè, direi che esistono due fasi dell’esperienza negli Stati Uniti. La prima con cui tutti si cimentano è l’adattamento, non solo inteso geograficamente ma soprattutto lavorativamente. Per un medico, come nel mio caso, che decida di intraprendere la strada della ricerca di base, puramente biologica, le difficoltà sono direttamente proporzionali alle lacune da colmare e alla volontà di superarle. Se da un lato infatti si è spinti dal continuo desiderio di migliorarsi, dall’altro ci si scontra con la frustrazione/delusione legata alle proprie incertezze-lacune. La seconda fase è quella applicativa, in cui passione, perseveranza, caparbietà e una buona dose di coraggio guidano l’attività di ricerca e alimentano l’amore per la ricerca. In entrambe le fasi, scienza e crescita personale viaggiano parallelamente favorendo una scoperta e una comprensione di se stessi illuminante.
Lei ad Harvard, insieme alla sua equipe ha scoperto l’interruttore molecolare che potrebbe portare nuove cure per i tumori, ci può parlare nello specifico di cosa si tratta?:
In questo lavoro abbiamo identificato una classe di RNA che controllano la metilazione del DNA. La metilazione del DNA è un meccanismo fondamentale nella regolazione genica e avviene grazie ad enzimi specifici che sono le DNA metiltransferasi (DNMTs). Le DNMTs aggiungono un gruppo metilico e quindi metilano il DNA. Esistono delle regioni di DNA definite “isole CG” (citosina-guanina). Queste isole si trovano generalmente nelle vicinanze dei geni e se sono metilate il gene risulta silenziato, “spento”, mentre se non metilate il gene sarà “acceso”. In molti tumori la metilazione diventa irregolare e vengono erroneamente spenti dei geni “anticancro”, come gli oncosoppressori, che dovrebbero essere accesi. La classe di RNA identificata è in grado di disattivare DNMT1, una delle DNMTs, prevenendo la metilazione.
Che sviluppo potrebbe avere tale scoperta in futuro?
Questo meccanismo potrebbe essere sfruttato nella pratica clinica per sviluppare nuovi farmaci mirati, in grado di riattivare i geni (come gli oncosoppressori) erroneamente metilati, ed aprire nuove frontiere nella lotta al cancro con molecole più selettive, con minori effetti collaterali e facilmente tollerate dal paziente rispetto alla chemioterapia convenzionale.
Secondo lei, la preparazione teorica e pratica dei nostri laureati, è all’altezza di quella americana?
Certamente, e lo affermo con convinzione. L’Italia è una terra di straordinari talenti, e di scuole che portano alla formazione di eccellenze e di conoscenza in tutte le branche. La teoria è, e resta, l’elemento più alto della qualità di un medico e di un ricercatore così come di qualsiasi altra professione scientifica e non. In campo medico la teoria è certamente fonte di intuizione, guida nel processo diagnostico, aiuto nella scelta terapeutica. Tuttavia resta la necessità di approfondire l’aspetto pratico per consentire ai giovani di sperimentare, esplorare ed esaltare la teoria attraverso azioni dirette ed elementi concreti e per sfruttare il loro talento al meglio. Questo negli Stati Uniti è sicuramente più facile.
Quali sono gli ostacoli che incontrano i ricercatori italiani all’estero a ritornare in Italia?
I problemi sono principalmente due: il primo l’eccessiva gerarchizzazione; il secondo gli scarsi finanziamenti. Per chiarire il primo punto mi rifaccio ad un grande scienziato italiano Enrico Fermi che sosteneva che “la vocazione dell’uomo di scienza è di spostare in avanti le frontiere della nostra conoscenza in tutte le direzioni”: ne deriva che il primum movens della ricerca implica un grado di libertà e indipendenza elevato. Questo non sempre è possibile in Italia a causa di un sistema che nel corso degli anni è diventato sempre più chiuso ed è adagiato su un criterio selettivo non meritocratico ma nepotistico, un dato di fatto come troppo spesso denunciato, sebbene esistano delle isole felici. Il secondo punto è quello degli scarsi finanziamenti per la ricerca in Italia. I fondi nel nostro Paese non sono solo esigui ma soprattutto mal spesi, perchè manca una modalità di controllo efficiente come accade negli Stati Uniti. Inoltre, anzichè essere potenziati per favorire il rientro non solo dei ricercatori italiani all’estero ma di ricercatori stranieri, i fondi di ricerca subiscono tagli drastici, in momenti di ristrettezza economica, da parte di una politica miope e incapace di comprendere che la ricerca rappresenta la principale forza propulsiva di un Paese civile, così come la scuola e la cultura.
Quale consiglio darebbe ai giovani laureati italiani in cerca di lavoro?
Il primo di seguire sempre le proprie passioni, avere il coraggio di mettersi in gioco, osando senza temere di cadere ed essere curiosi della vita. Solo con uno spirito del genere si possono affrontare periodi critici come quello che stiamo vivendo. Lasciarsi andare al pessimismo è il modo peggiore per affrontare la vita; la vita è una sfida un “challenge”continuo in cui dobbiamo impegnarci per far emergere la parte migliore di noi stessi. Il secondo: essere pazienti, non lasciarci accecare dall’immediatezza del risultato ma guardare oltre e costruire solidamente il proprio futuro senza disprezzare il sacrificio, ove fosse necessario.
(nella foto accanto, Annalisa Di Ruscio con un’altra ricercatrice Phd italiana, Anna Ruocco, nell’Harvard Medical School Yard di Boston)
Quanto vale lo studio e l’impegno lavorativo nella società americana e quanto in Italia?
Negli Stati Uniti è indubbio che studio e impegno lavorativo valgano di più, ma il sistema americano è molto diverso da quello italiano. Consideriamo l’Università: negli Stati Uniti le Università sono private e costosissime (migliaia e migliaia di dollari l’anno, gli studenti chiedono mutui per garantirsi il diritto allo studio), di conseguenza tutti i fattori che attraggono la domanda come: efficienza, produttività, classe docente correlano con il prestigio/high ranking della stesssa. Nel sistema universitario italiano, essendo l’ Università pubblica, esiste un sistema tampone, chiamato Stato, per cui nessuno si sente direttamente responsabile delle inefficienze della stessa e che ha dato spazio a modalità di reclutamento non meritocratiche.
Lei ha lasciato Sulmona suo luogo di origine, ha un rimpianto? A Boston c’è qualcosa che le manca del suo paese?
Sulmona è il cuore pulsante della mia infanzia, è l’amore della mia famiglia, le persone che mi hanno sempre sostenuto in ogni scelta, anche le più ardue. Sulmona è l’anima che porto dentro. La sua bellezza è il patrimonio che custodisco e condivido con colleghi di tutto il mondo. Sulmona è l’orgoglio del punto di partenza. Boston è il luogo dove ho realizzato parte di un sogno e ho visto nascere una speranza, ma non nascondo l’inquietudine e la voglia di fare tutto questo nella nostra amata Italia.
Dott.ssa Di Ruscio a conclusione di questa intervista, vuol ringraziare qualcuno?
Sì. Voglio ricordare la Fondazione Italiana Ricerca sul Cancro (AIRC-FIRC) che con una borsa di studio per l’estero mi ha permesso di approdare a Boston e la Societa Italiana di Ematologia Sperimentale (SIES). È fondamentale non dimenticare coloro che sostengono la ricerca e grazie ai quali ogni progresso scientifico è conseguito. Forse anche in questa collegialità della ricerca risiede tutto il suo fascino e la sua bellezza.
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