Sette numeri per spiegare il caos privatizzazioni
Sono la chiave per fare cassa e sistemare i conti pubblici, ma le cose si stanno complicando
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È il numero delle aziende in cui il ministero dello Sviluppo Economico ha attualmente una partecipazione diretta. I nomi più noti di questo elenco sono quelli di Eni, Enel e Finmeccanica, ma ci sono anche le Ferrovie dello Stato, la Cassa Depositi e Prestiti, la Rai, le Poste e una miriade di realtà parastatali come l’Enav, l’ente nazionale dei controllori di volo. Ognuna di queste realtà, partecipa o è proprietaria di una serie di altre aziende o enti – le cosiddette “partecipazioni indirette del Tesoro” – cosa che accresce la galassia delle partecipazioni statali di almeno qualche centinaio di unità.
È il numero delle aziende in cui il ministero dello Sviluppo Economico ha attualmente una partecipazione diretta. I nomi più noti di questo elenco sono quelli di Eni, Enel e Finmeccanica, ma ci sono anche le Ferrovie dello Stato, la Cassa Depositi e Prestiti, la Rai, le Poste e una miriade di realtà parastatali come l’Enav, l’ente nazionale dei controllori di volo. Ognuna di queste realtà, partecipa o è proprietaria di una serie di altre aziende o enti – le cosiddette “partecipazioni indirette del Tesoro” – cosa che accresce la galassia delle partecipazioni statali di almeno qualche centinaio di unità.
La galassia delle partecipazioni dirette del Ministero dell’Economia
200.000 miliardi (di lire)
Pari a circa 100 miliardi di euro. È quanto l’Italia incassò dallastagione delle privatizzazioni degli anni ’90, quella in cui vennero liquidati enti come Iri, Efim, Ina, Agip, Sip, Autostrade, Credito Italiano , Banca Commerciale Italiana e quote di Eni ed Enel. Fu uno dei più grossi processi di privatizzazione della storia recente, secondo solamente a quello inglese tra gli anni ’70 e ’80 portato avanti da Margaret Thatcher. Fu anche un processo molto discusso: in molti parlarono di Italia svenduta, mentre altri puntarono l’indice sui pessimi risultati economici delle aziende privatizzate, soprattutto di quelle finite in mano a finanzieri e imprenditori italiani.
Pari a circa 100 miliardi di euro. È quanto l’Italia incassò dallastagione delle privatizzazioni degli anni ’90, quella in cui vennero liquidati enti come Iri, Efim, Ina, Agip, Sip, Autostrade, Credito Italiano , Banca Commerciale Italiana e quote di Eni ed Enel. Fu uno dei più grossi processi di privatizzazione della storia recente, secondo solamente a quello inglese tra gli anni ’70 e ’80 portato avanti da Margaret Thatcher. Fu anche un processo molto discusso: in molti parlarono di Italia svenduta, mentre altri puntarono l’indice sui pessimi risultati economici delle aziende privatizzate, soprattutto di quelle finite in mano a finanzieri e imprenditori italiani.
11 miliardi (di euro)
Milione più, milione meno, è la cifra che il Governo Letta prima eRenzi poi si aspettano di incassare ogni anno, per tre anni, dalla stagione di privatizzazioni inaugurata lo scorso 20 novembre dall’ex premier: un’operazione che, se riuscisse, taglierebbe di due punti e mezzo dal rapporto fra debito e Pil. Nel piano, inizialmente, c’era la privatizzazione di una partecipazione di controllo in Sace e Grandi Stazioni, (partecipata al 59,99% dalle Ferrovie dello Stato Italiane) e quote non di maggioranza di Enav, Stm, Fincantieri e Cdp Reti. Il 23 gennaio dell’anno seguente – poco prima di essere sostituito da Matteo Renzi – Letta aggiunse al lotto delle aziende da privatizzare anche Poste Italiane, tuttora detenuta interamente dal Ministero dello Sviluppo Economico. In molti, ne parlano come del più importante piano di privatizzazioni dopo quello degli anni ’90.
Milione più, milione meno, è la cifra che il Governo Letta prima eRenzi poi si aspettano di incassare ogni anno, per tre anni, dalla stagione di privatizzazioni inaugurata lo scorso 20 novembre dall’ex premier: un’operazione che, se riuscisse, taglierebbe di due punti e mezzo dal rapporto fra debito e Pil. Nel piano, inizialmente, c’era la privatizzazione di una partecipazione di controllo in Sace e Grandi Stazioni, (partecipata al 59,99% dalle Ferrovie dello Stato Italiane) e quote non di maggioranza di Enav, Stm, Fincantieri e Cdp Reti. Il 23 gennaio dell’anno seguente – poco prima di essere sostituito da Matteo Renzi – Letta aggiunse al lotto delle aziende da privatizzare anche Poste Italiane, tuttora detenuta interamente dal Ministero dello Sviluppo Economico. In molti, ne parlano come del più importante piano di privatizzazioni dopo quello degli anni ’90.
19,85%
È la quantità di azioni di Fincantieri sottoscritta dagli investitori istituzionali – banche d’affari e simili - lo scorso 3 luglio, giorno dell’offerta pubblica. Un fallimento, se si pensa che a loro erano stato riservate 8 azioni su 10, che invece sono finite – tagliate di un terzo e a prezzi di saldo - nelle mani dei piccoli azionisti e dei risparmiatori. Il motivo di questo fallimento, spiegano gli analisti, è che i grandi investitori non si fanno prendere in giro: Fincantieri è al 99,3% di Fintecna, a sua volta controllata da Cassa Depositi e Prestiti, che continuerà a essere il socio di controllo anche dopo l’Ipo. Di fatto, più che una privatizzazione vera e propria, si parla di un’operazione per far cassa e ridurre di un po’ il debito pubblico. Se la privatizzazione di Fincantieri doveva essere la prova generale di quella delle Poste, insomma, è andata male.
È la quantità di azioni di Fincantieri sottoscritta dagli investitori istituzionali – banche d’affari e simili - lo scorso 3 luglio, giorno dell’offerta pubblica. Un fallimento, se si pensa che a loro erano stato riservate 8 azioni su 10, che invece sono finite – tagliate di un terzo e a prezzi di saldo - nelle mani dei piccoli azionisti e dei risparmiatori. Il motivo di questo fallimento, spiegano gli analisti, è che i grandi investitori non si fanno prendere in giro: Fincantieri è al 99,3% di Fintecna, a sua volta controllata da Cassa Depositi e Prestiti, che continuerà a essere il socio di controllo anche dopo l’Ipo. Di fatto, più che una privatizzazione vera e propria, si parla di un’operazione per far cassa e ridurre di un po’ il debito pubblico. Se la privatizzazione di Fincantieri doveva essere la prova generale di quella delle Poste, insomma, è andata male.
40%
È la quota di Poste Italiane che il Governo avrebbe voluto collocare sul mercato. Una vendita, si dice, che avrebbe fruttato tra i 4 e i 4,8 miliardi di euro, tutti usati per ripianare parte del debito pubblico (che, ricordarlo non fa mai male, è pari a 2mila miliardi). Agli investitori istituzionali sarebbe toccato dal 50 al 60 per cento delle azioni collocate. Comprensibile che, visto l’insuccesso del collocamento di Fincantieri, dalle parti del Governo si siano un po’ spaventati. Renzi ha sempre detto, del resto, che la questione delle privatizzazioni non è farle o meno, ma farle bene (e c’è chi pensa, a onor del vero, che quella di Poste sarebbe stata la peggior privatizzazione di sempre). Così, sia lui sia, soprattutto, il nuovo Ad di Poste Francesco Caio hanno fatto retromarcia: prima di privatizzare, ha dichiarato quest’ultimo «bisogna trovare un nuovo punto di equilibrio per la sostenibilità di ogni singolo business». Niente Poste, insomma, almeno per un anno o due. E nemmeno Enav e Sace, l’agenzia di export controllata dallo Stato: troppa diffidenza sull’Italia, appena ripiombata in recessione. In un’intervista di questo mese con il Financial Times, Renzi ha dichiarato che, dopo l’esperienza con Fincantieri, ha deciso di gestire il processo di privatizzazione con calma: «Faremo le privatizzazioni quando saranno in condizioni di fruttare denaro – ha spiegato - Non sono nelle condizioni di poter vendere a buon mercato, voglio vendere i nostri beni al loro giusto valore». Se non Poste, Sace ed Enav cosa, allora?
È la quota di Poste Italiane che il Governo avrebbe voluto collocare sul mercato. Una vendita, si dice, che avrebbe fruttato tra i 4 e i 4,8 miliardi di euro, tutti usati per ripianare parte del debito pubblico (che, ricordarlo non fa mai male, è pari a 2mila miliardi). Agli investitori istituzionali sarebbe toccato dal 50 al 60 per cento delle azioni collocate. Comprensibile che, visto l’insuccesso del collocamento di Fincantieri, dalle parti del Governo si siano un po’ spaventati. Renzi ha sempre detto, del resto, che la questione delle privatizzazioni non è farle o meno, ma farle bene (e c’è chi pensa, a onor del vero, che quella di Poste sarebbe stata la peggior privatizzazione di sempre). Così, sia lui sia, soprattutto, il nuovo Ad di Poste Francesco Caio hanno fatto retromarcia: prima di privatizzare, ha dichiarato quest’ultimo «bisogna trovare un nuovo punto di equilibrio per la sostenibilità di ogni singolo business». Niente Poste, insomma, almeno per un anno o due. E nemmeno Enav e Sace, l’agenzia di export controllata dallo Stato: troppa diffidenza sull’Italia, appena ripiombata in recessione. In un’intervista di questo mese con il Financial Times, Renzi ha dichiarato che, dopo l’esperienza con Fincantieri, ha deciso di gestire il processo di privatizzazione con calma: «Faremo le privatizzazioni quando saranno in condizioni di fruttare denaro – ha spiegato - Non sono nelle condizioni di poter vendere a buon mercato, voglio vendere i nostri beni al loro giusto valore». Se non Poste, Sace ed Enav cosa, allora?
4.942
Sono, secondo una recente rilevazione della Corte dei Conti, le società partecipate dagli enti locali: una giungla di consorzi, fondazioni, aziende per i servizi alla persona e soprattutto local utility che erogano acqua, gas, elettricità, servizi di raccolta e smaltimento dei rifiuti ai cittadini. Come ha ben raccontato Fubini su La Repubblica il loro giro d’affari è esploso, in questi anni. Dal 2009 a oggi, quello delle partecipazioni è «il settore il cui fatturato è cresciuto di più in Italia, da 44 a 72 miliardi». Il loro giro d’affari,continua Fubini, «è esploso del 63%, pesa dieci volte più del settore auto in Italia e almeno il doppio rispetto a qualunque comparto leader del manifatturiero, dalla meccanica all’alimentare». È su di loro, soprattutto, che il Ministro dell’Economia Padoan ha messo gli occhi: «I servizi pubblici locali e le municipalizzate hanno un problema di governance. E’ una costellazione a volte definita una giungla – ha dichiarato lo scorso 31 luglio durante la conferenza di presentazione del decreto Sblocca Italia - C’è il terreno propizio per una razionalizzazione allo scopo di migliorare l’offerta dei servizi, ma anche di valorizzarli in vista di una privatizzazione». Concretamente, nello Sblocca Italia, gli enti locali saranno incentivati a collocare in Borsa le aziende cui partecipano, con la promessa di poter utilizzare quel che raccolgono quali risorse extra rispetto ai vincoli imposti dal Patto di Stabilità. Le municipalizzate che invece non sono più attive - circa 1.250 - saranno invece definitivamente sforbiciate.
Sono, secondo una recente rilevazione della Corte dei Conti, le società partecipate dagli enti locali: una giungla di consorzi, fondazioni, aziende per i servizi alla persona e soprattutto local utility che erogano acqua, gas, elettricità, servizi di raccolta e smaltimento dei rifiuti ai cittadini. Come ha ben raccontato Fubini su La Repubblica il loro giro d’affari è esploso, in questi anni. Dal 2009 a oggi, quello delle partecipazioni è «il settore il cui fatturato è cresciuto di più in Italia, da 44 a 72 miliardi». Il loro giro d’affari,continua Fubini, «è esploso del 63%, pesa dieci volte più del settore auto in Italia e almeno il doppio rispetto a qualunque comparto leader del manifatturiero, dalla meccanica all’alimentare». È su di loro, soprattutto, che il Ministro dell’Economia Padoan ha messo gli occhi: «I servizi pubblici locali e le municipalizzate hanno un problema di governance. E’ una costellazione a volte definita una giungla – ha dichiarato lo scorso 31 luglio durante la conferenza di presentazione del decreto Sblocca Italia - C’è il terreno propizio per una razionalizzazione allo scopo di migliorare l’offerta dei servizi, ma anche di valorizzarli in vista di una privatizzazione». Concretamente, nello Sblocca Italia, gli enti locali saranno incentivati a collocare in Borsa le aziende cui partecipano, con la promessa di poter utilizzare quel che raccolgono quali risorse extra rispetto ai vincoli imposti dal Patto di Stabilità. Le municipalizzate che invece non sono più attive - circa 1.250 - saranno invece definitivamente sforbiciate.
Le aziende partecipate dagli enti locali per tipologia
5%
Non ci sono solo le municipalizzate, tuttavia. Per coprire i mancati introiti delle privatizzazioni di Poste ed Enav, il Governo è infatti intenzionato a collocare sul mercato altre quote di partecipazioni di Eni ed Enel, fiori all’occhiello del bouquet. Più precisamente, il 5% di ciascuna. La questione non è di poco conto, tuttavia: la quota di controllo delle due compagnie energetiche, infatti, è fissata al 30%, esattamente la percentuale di azioni detenuta dallo Stato. Vendere il 5%, insomma, vorrebbe dire scendere sotto quella quota e rischiare che qualcuno acquisisca il controllo dell’energia in Italia? Sì, ma nemmeno troppo. Grazie a una legge appena approvata – difficile pensare non sia ad hoc - se lo Stato mantiene il 25,01% delle azioni un’eventuale investitore interessato a scalare Eni o Enel sarà obbligato a comprare il 100% delle azioni. Tutto può succedere, ma è difficile che qualcuno voglia o possa permettersi di farlo. Quel che è certo – e preoccupante – semmai, è che ci siamo giocati l’ultimo giro di giostra, verso la definitiva privatizzazione di due degli ultimi tre colossi industriali in mano allo Stato. Vista la fine che hanno fatto gli altri, ce n’è abbastanza per sudare freddo.
Non ci sono solo le municipalizzate, tuttavia. Per coprire i mancati introiti delle privatizzazioni di Poste ed Enav, il Governo è infatti intenzionato a collocare sul mercato altre quote di partecipazioni di Eni ed Enel, fiori all’occhiello del bouquet. Più precisamente, il 5% di ciascuna. La questione non è di poco conto, tuttavia: la quota di controllo delle due compagnie energetiche, infatti, è fissata al 30%, esattamente la percentuale di azioni detenuta dallo Stato. Vendere il 5%, insomma, vorrebbe dire scendere sotto quella quota e rischiare che qualcuno acquisisca il controllo dell’energia in Italia? Sì, ma nemmeno troppo. Grazie a una legge appena approvata – difficile pensare non sia ad hoc - se lo Stato mantiene il 25,01% delle azioni un’eventuale investitore interessato a scalare Eni o Enel sarà obbligato a comprare il 100% delle azioni. Tutto può succedere, ma è difficile che qualcuno voglia o possa permettersi di farlo. Quel che è certo – e preoccupante – semmai, è che ci siamo giocati l’ultimo giro di giostra, verso la definitiva privatizzazione di due degli ultimi tre colossi industriali in mano allo Stato. Vista la fine che hanno fatto gli altri, ce n’è abbastanza per sudare freddo.
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