#passodopopasso, la strada in salita del governo Renzi
Le dieci riforme dietro i tweet di Renzi, le scadenze che ha fissato, le difficoltà che sta trovando
INDICE ARTICOLO
- Jobs Act: lavoro più flessibile
- Sblocca Italia: ovvero “come far ripartire l’Italia”
- Riforma della scuola ed edilizia scolastica
- Giustizia: dimezziamo gli arretrati
- Riforme costituzionali: Italicum e Senato
- 80 Euro: estendere a incapienti, pensionati e partite Iva
- Sblocca crediti: pagare tutto entro il 21 settembre
- Spending review: 32 miliardi di tagli entro il 2016
- Privatizzazioni: 11 miliardi di euro in tre anni
- Irap: ridurre l’aliquota del 10%
Il sito della scalata renziana verso il maggio 2017 è pronto. Si chiama passodopopasso.italia.it, con tanto di countdown dei mille giorni e riforme da approvare. «Accountability», ha detto Renzi, «è una parola che non esiste in italiano, e indica una responsabilità ampia, in cui ciascuno deve rendere conto di ciò che fa». Per capire quali sono i passi, i salti, le arrampicate che Renzi dovrà affrontare nei prossimi mille giorni, ecco un elenco delle riforme promesse con tanto di livello di difficoltà.
Il filo-obamiano Renzi da subito l’aveva chiamato Jobs Act. La promessa, poco dopo il suo insediamento, era stata: «A marzo la riforma del lavoro». Il 12 marzo il presidente del Consiglio si presenta all’appuntamento, ma solo per la prima parte del Jobs Act, che prende subito il nome di decreto Poletti (poi convertito in legge il 16 maggio 2014).
Di cosa parliamo L’intento del Jobs Act è quello di rilanciare l’occupazione facilitando i rapporti di lavoro. Tra le novità del decreto Poletti: la non obbligatorietà di specificare il motivo per cui si stipula un contratto a tempo determinato, nuovi limiti per il numero di volte in cui si può prorogare il contratto a termine (5 proroghe per il contratto a tempo determinato, 6 per la somministrazione a tempo determinato, sempre nell’arco di 36 mesi), il tetto del 20% massimo dei dipendenti assunti a tempo determinato, la stabilizzazione obbligatoria del 20% degli apprendisti solo per le aziende con più di 50 dipendenti e la non obbligatorietà della forma scritta del progetto formativo per gli apprendisti. Il 12 marzo 2014 il Consiglio dei ministri approva anche un disegno di legge delega al governo che affronta gli altri temi del Jobs Act. E i temi rimasti fuori dal decreto Poletti sono quelli destinati a fare rumore tra i sindacati: riforma degli ammortizzatori sociali (anche se nello sblocca Italia sono nuovamente previsti 600 milioni di euro per la cassa in deroga), servizi per il lavoro, sussidio di disoccupazione, salario minimo, riduzione delle forme contrattuali, maternità, contratto unico a tutele crescenti. Intanto, il finanziamento di 1,5 miliardi di euro della Youth Guarantee (coperti dalla Youth Employment Initiative, dal Fondo sociale europeo e dalle risorse nazionali), che doveva facilitare l’inserimento lavorativo dei giovani che non studiano e non lavorano, si sta rivelando un buco nell’acqua: in base alle rilevazioni di Adapt, oltre il 90% degli annunci pubblicati sul portale del ministero del Lavoro provengono da agenzie del lavoro, pochissime le aziende. Ad aumentare il quoziente di difficoltà del Jobs Act, c’è un’economia in recessione tecnica, la disoccupazione a luglio al 12,6%, e il pressing internazionale per urgenti riforme del lavoro nei Paesi in cui il disagio occupazionale è maggiore.
A che punto siamo La strada è lunga: il disegno di legge del 12 marzo dovrà essere convertito in legge delega dal parlamento e il governo dovrà dare attuazione alla norma nei tempi stabiliti dalla legge stessa. Poi c’è la questione articolo 18, che Renzi vorrebbe mettere da parte ma Alfano no. Per avere il Jobs Act bisognerà aspettare probabilmente il 2015.
Livello di difficoltà Molto molto difficile
Il decreto sblocca Italia è stato approvato venerdì 29 agosto in consiglio dei ministri. Il 2 giugno 2014 Renzi aveva inviato ai sindaci italiani una lettera in cui chiedeva loro di segnalare, entro il 15 giugno, le opere da “sbloccare”. Ad agosto il governo lavora sull’elenco delle opere e dei provvedimenti da inserire, si parla di 43 miliardi da investire, ma il risultato presentato nella prima conferenza stampa successiva alla pausa estiva non rispetta per niente gli annunci trionfanti di un decreto «ambizioso» che avrebbe dovuto risvegliare l’economia italiana.
Di cosa parliamo Per gli aeroporti, il governo ha annunciato di sbloccare 4,6 miliardi di euro di investimenti per Malpensa, Fiumicino, Firenze, Genova e Salerno. Per le opere pubbliche cantierabili da subito ha annunciato un investimento di 3,2 miliardi, mentre alle piccole opere segnalate dai sindaci sono stati destinati 600 milioni (l’Ance ha già detto che questi soldi sono pochi). Si sbloccheranno, ha detto, dieci miliardi in tutto. Sulla banda larga prevista la defiscalizzazione al 50 per cento. Mentre salta la sforbiciata alle società partecipate, rinviata alla legge di stabilità. Sulla casa è stata rinviata la proroga dell’ecobonus ed è stata eliminata l’obbligatorietà della autorizzazione per abbattere tramezzi e creare nuove case. Il nuovo codice degli appalti sul modello di quello europeo, indicato come una rivoluzione, sarà costruito con un disegno di legge delega ad hoc.
A che punto siamo Il decreto ora dovrà essere convertito in legge entro 60 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Dunque sulle scadenze per le misure annunciate è ancora tutto da vedere. Lo scoglio più grande da superare saranno le coperture, anche se sia il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi sia il ministro dell’Economia Piercarlo Padoan hanno assicurato che ci sono già. Un altro piano delle opere, che non sono quelle cantierabili da subito, è stato annunciato nella legge di stabilità.
Livello di difficoltà Difficile
La scuola, si sa, è sempre stata una delle priorità di Matteo Renzi. Di scuola si parlava molto alla Leopolda, da una scuola di Treviso ha fatto partire i suoi impegni istituzionali. «Il 15 settembre, quando riprenderanno le lezioni, vogliamo che sia visibile, plastica, evidente l’opera di investimento che è stata fatta», aveva detto.
Di cosa parliamo A marzo Renzi presenta le prime slide e annuncia un piano per la scuola da 3,5 miliardi e cantieri aperti già dall’estate 2014. Il 4 luglio viene annunciato l’avvio del piano di edilizia scolastica con 21.230 interventi e investimenti pari a 1,094 miliardi di euro (divisi tra #scuolebelle, #scuolesicure e #scuolenuove). Altri investimenti per l’edilizia scolastica erano stati previsti nello sblocca Italia, ma nel decreto non ce n’è traccia. Sulla riforma della scuola, invece, ancora da presentare, sono circolati numeri da capogiro: centomila nuovi insegnanti a tempo indeterminato pescati nel mare dei precari della scuola. In questo modo si vorrebbe mettere fine alle supplenze, o almeno così ha detto il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, ridurre il precariato e premiare il merito degli insegnanti. Il governo avrebbe già trovato 1,5 miliardi di euro, ma probabilmente serviranno più soldi. Tra i punti principali del pacchetto scuola, oltre alle nuove assunzioni e al concorsone del 2015, dovrebbero esserci novità per gli insegnanti, come la formazione permanente obbligatoria e gli incentivi ai docenti più meritevoli, maggiore autonomia per le scuole, inglese e informatica dalle elementari, più ore di musica e storia dell’arte. Si dovrebbe puntare anche sull’alternanza scuola lavoro, con stage in azienda e il coinvolgimento di piccole imprese e istituzioni. Prevista anche la detassazione per le paritarie.
A che punto siamo Il cantiere dell’edilizia scolastica è partito il 4 luglio, ma sembra andare a rilento rispetto alle promesse. Sulla riforma della scuola, invece, il D-day doveva essere il consiglio dei ministri del 29 agosto. Il 19 agosto il premier disse: «Il 29 agosto sulla scuola vi stupirò». Salvo poi, dieci giorni dopo, rinviare a settembre per non mettere troppa carne al fuoco nel primo cdm dopo le vacanze estive. Il pacchetto verrà presentato mercoledì 3 settembre.
Livello di difficoltà Molto difficile
Per la giustizia la scadenza annunciata era il 1 settembre 2014. Le linee guida del pacchetto sono state presentate con il consiglio dei ministri del 29 agosto 2014.
Di cosa parliamo È previsto un decreto legge sul processo civile e più disegni di legge per il resto. Sulla giustizia civile è stato annunciato un più che dimezzamento dell’arretrato civile. In mille giorni si punta a ridurre i tempi dei processi civili. Il provvedimento prevede l’introduzione della conciliazione con l’assistenza degli avvocati e novità in materia di arbitrato, separazione e divorzio, processo esecutivo. La parola che ha usato il Guardasigilli Andrea Orlando è “degiurisdizionalizzare”. Novità importanti sulla responsabilità civile dei magistrati, sulla quale è previsto un disegno di legge di riforma della disciplina che prevede l’ampliamento dell’area di responsabilità, la certezza della rivalsa nei confronti del magistrato e l’eliminazione del filtro preventivo. Previsti poi disegni di legge delega sulla efficienza del processo civile, magistratura onoraria e giudici di pace ed estradizione. Sulle intercettazioni sarà data delega al parlamento, ma questa – si sa – è una materia politicamente esplosiva. Nel pacchetto ci sono anche tempi più lunghi per la prescrizione, che si interromperà con il processo di primo grado, con un tetto massimo di due anni per l’appello. Torna anche il falso in bilancio, mal visto da Forza Italia.
A che punto siamo Il pacchetto è stato approvato in consiglio dei ministri il 29 agosto. «Entro la fine dell’anno dobbiamo arrivare a trasformare i provvedimenti in legge», ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando sui tempi di approvazione. La carne al fuoco è tanta e la materia è di quelle che fa litigare.
Livello di difficoltà Molto difficile
Di cosa parliamo Della sua intenzione di voler cambiare la legge elettorale Renzi aveva parlato già da semplice segretario del Pd, quando al governo c’era un certo Enrico Letta. La data fissata era stata il 25 maggio: se non si fosse fatta entro quella data, non si sarebbe andati da nessuna parte, aveva detto. Così parte il patto del Nazareno con Silvio Berlusconi e prende vita l’Italicum, che a marzo viene approvato al cardiopalma in prima lettura alla Camera con il soccorso di Forza Italia. La legge sembra camminare veloce, altro che passo dopo passo. Ma poi si blocca: i tempi si allungano e nel Def la legge di riforma elettorale slitta a fine settembre. Durante l’estate si lavora sull’asse toscano Renzi-Verdini, e il 6 agosto si consuma un incontro di ben tre ore tra il presidente del consiglio e Silvio Berlusconi sulla questione dell’abbassamento della soglia di sbarramento e l’introduzione delle preferenze. Proseguire con l’approvazione definitiva al Senato sembra impossibile. L’agenda del governo cambia e si punta sul superamento del bicameralismo perfetto e l’abolizione del Senato, approvata dopo 7mila emendamenti, giorni di ostruzionismo, tagliole e canguri, in prima lettura al Senato l’8 agosto.
A che punto siamo La riforma costituzionale è stata approvata in Senato in prima lettura, la legge elettorale è stata approvata alla Camera in prima lettura. Ma la strada, come si è visto per questi due primi step, è ancora lunga. La Costituzione è difficile da modificare, ci sono tempi da rispettare e il Pd è già sulle barricate.
Livello di difficoltà Molto difficile
Di cosa parliamo Il cuneo fiscale è la differenza tra la retribuzione pagata dall’impresa e quella che finisce in tasca al lavoratore. Differenza che finisce allo Stato e che è pari al 45,2% circa della retribuzione complessiva (la media europea è il 35%, negli Usa è del 29%). A maggio, il governo Renzi taglia il cuneo di 10 miliardi di euro solo per il 2014, tutti in busta paga ai lavoratori dipendenti, per rilanciare la domanda interna e i consumi. Pro capite, 80 euro al mese. Non usufruiscono di quel bonus i lavoratori che guadagnano sotto gli 8mila euro (i cosiddetti “incapienti”), i pensionati e le partite iva. L’ostacolo è solo uno: le coperture. Rendere strutturali gli 80 euro ai dipendenti significa rendere altrettanto strutturali 10 miliardi di tagli (cosa che, a quanto pare, ancora non è stata fatta). Ampliare la platea di beneficiari ne costa altri 4. La mancata crescita – finora – rende molto più stringenti gli impegni di bilancio promessi: come ha detto Cottarelli sul suo sito «il taglio della spesa non è un bancomat» da cui attingere per ridurre la pressione fiscale, ma la via maestra per rispettare gli impegni presi senza alzarle.
A che punto siamo «Il bonus degli 80 euro in busta paga? Garantito per chi lo riceve. Sarà possibile estenderlo? Non sono in grado di garantirlo, ci proveremo». Così Matteo Renzi nella conferenza stampa del 1 agosto. Tradotto in italiano: già sarà dura rendere strutturali gli 80 euro per chi già li ricevere, figuratevi per gli altri.
Livello di difficoltà Molto difficile
Sblocco «immediato e totale dei debiti della Pubblica Amministrazione: 22 miliardi già pagati e 68 miliardi che pagheremo entro luglio». Lo ha detto Matteo Renzi. Il Consiglio dei Ministri ha dato via libera ad un Ddl che sarà poi seguito da un decreto, ha spiegato il premier (Ansa, 12 marzo 2014)
«Il 21 settembre, a San Matteo, ultimo giorno d’estate, se abbiamo sbloccato tutti i debiti della Pubblica Amministrazione, lei va in pellegrinaggio a piedi da Firenze a Monte Senario» (Matteo Renzi a Bruno Vespa, durante Porta a Porta del 13 marzo)
Di cosa parliamo Per rispettare i vincoli del Patto di Stabilità interno, amministrazioni pubbliche centrali ed enti locali hanno, nel corso degli anni, aumentato a dismisura i tempi di pagamento alle imprese loro fornitrici. Secondo il Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, la «cifra da aggredire è 60 miliardi». Matteo Renzi invece parla di 68 miliardi. Da tale cifra, peraltro, sono già escluse le quote di debito già pagate dal Governo Letta, pari a 22 miliardi. Renzi, vorrebbe sbloccare e pagare entro breve tempo quei restanti circa 68 miliardi anche attraverso un complesso (e discusso) procedimento che coinvolge la Cassa Depositi e Prestiti e le banche commerciali italiane: queste ultime anticipano – tenendosi per loro il 2% dello stesso - il credito dovuto alle imprese e la Cdp fa da garante di ultima istanza se poi le amministrazioni pubbliche non lo pagano. Nel frattempo, la Pa trova i soldi per pagare davvero i crediti.
A che punto siamo Stando ai documenti ufficiali, finora il Governo Renzi ha sbloccato 9,3 miliardi (Dl 66/2014) che sono tanti, ma sono molto meno dei 68 promessi. Quando si parla di tutte le risorse finanziarie messe a disposizione degli enti debitori, va ricordato, si parla in larga misura dei 40 miliardi del Decreto 35/2013 e i 7,2 del 102/2013, entrambi ascrivibili all’azione del Governo Letta. In tutto, fanno 56 miliardi di Euro, dei quali 30 miliardi sono stati resi disponibili agli enti debitori e 26,1 miliardi sono stati effettivamente pagati. A occhio e croce, mancano da pagare circa 31 miliardi e al 21 settembre mancano 20 giorni. Al netto dei tempi – l’obiettivo si potrebbe dire raggiunto anche con un ritardo di qualche mese – il problema principale, anche in questo caso sta nel trovare i soldi per pagare quei debiti. Altro problema, non da poco: c’è chi dice che lo stock di debito che lo Stato ha accumulato con le imprese è molto più alto. Secondo la Cgia di Mestre, i debiti dello Stato verso le imprese ancora da pagare, tenendo conto di quelli accumulati tra il 2012, il 2013 e i primi mesi del 2014, sarebbero pari almeno a 90-100 miliardi di euro.
Livello di difficoltà Difficile, nei tempi promessi
La promessa «Con i 16 miliardi di risparmi previsti dalla spending review e confermati anche se Cottarelli dovesse lasciare, il rapporto deficit-Pil arriverebbe al 2,3%» (Matteo Renzi alla Direzione Pd del 1 agosto 2014)
Di cosa parliamo Si tratta di tagli alla cosiddetta “spesa improduttiva” dello Stato, quella cioè che non serve a raggiungere gli obiettivi che sono stati affidati alle diverse amministrazioni (o anche quella che porta a raggiungerli con costi più elevati). Nel corso degli ultimi anni, il compito di tagliare la spesa pubblica è stato affidato al Ministro Dino Giarda e ai Commissari Enrico Bondi e Carlo Cottarelli, quest’ultimo attualmente in carica. La spending review è necessaria per rispettare i vincoli imposti dall’Unione Europea - uno su tutti, il 3% del rapporto deficit Pil –senza aumentare la pressione fiscale. I numeri, per quanto si sa oggi: l’obiettivo di Cottarelli dovrebbe essere quello di tagliare 32 miliardi di euro, 3 per il 2014, 14-15 per il 2015 e il 2016. Chi taglia la spesa, ovviamente, si fa un nemico al giorno, a seconda di dove taglia, di quali interessi tocca, delle iniziative politiche che blocca e il via libera (poi stralciato in extremis dalla Ragioneria di Stato) al pensionamento di 4mila insegnanti (la famosa “quota 96") che a causa della riforma Fornero non sono ancora andati in pensione non è che l’antipasto di quel che potrebbe succedere il prossimo anno.
A che punto siamo Quel «se Cottarelli dovesse lasciare» pronunciato da Renzi il 1 agosto non è stato casuale. Il Commissario, solo il giorno prima si era lasciato andare sul suo sito internet a uno sfogo talmente pesante che in molti l’hanno interpretato come una lettera di dimissioni anticipata. In sintesi, Cottarelli se l’è presa con la prassi, a suo dire diffusa, dei ministeri di «autorizzare nuove spese indicando che la copertura sarà trovata attraverso future operazioni di revisione della spesa». In altre parole, invece che tagliare, i Ministeri stanno spendendo e stanno coprendo tale spesa coi tagli che saranno fatti in futuro. Secondo Cottarelli, per effetto di queste decisioni, sono già stati spesi 1,6 miliardi che devono ancora essere risparmiati. Vi risparmiamo tutta spiegazione tecnica, che potete trovare qui.
Livello di difficoltà Molto difficile
E ancora:
«Devono essere messe in atto tutte le misure necessarie affinché il debito pubblico cali in modo significativo, anno dopo anno, anche negli anni in cui la congiuntura è sfavorevole, in particolare i prossimi due. Per mantenere tale impegno è necessario mettere in atto un’efficace politica di dismissioni del patrimonio pubblico». (Matteo Renzi nel programma delle elezioni primarie a segretario del Pd, dicembre 2013)
Di cosa parliamo Il Governo si aspetta di incassare ogni anno, per tre anni, dalla stagione di privatizzazioni inaugurata lo scorso 20 novembre dall’ex premier Enrico Letta: un’operazione che, se riuscisse, taglierebbe di due punti e mezzo dal rapporto fra debito e Pil. Per farlo, si vorrebbero collocare sul mercato realtà come Enav, Fincantieri, il 40% di Poste Italiane e piccole quote di Eni ed Enel, stando attenti a non perdere il controllo su queste ultime realtà. Non solo: Renzi vorrebbe anche che gli enti locali privatizzassero le loro aziende municipalizzate. Per farlo, vorrebbe incentivare gli enti locali a collocare in Borsa le aziende cui partecipano, con la promessa di poter utilizzare quel che raccolgono quali risorse extra rispetto ai vincoli imposti dal Patto di Stabilità. In estrema sintesi: il mercato pare essere poco ricettivo a prendersi quote di imprese pubbliche senza poter sottrarre il controllo di tali imprese alla politica.
A che punto siamo Il fallimento della collocazione in Borsa delle azioni di Fincantieri ha convinto Renzi a ritardare la privatizzazione di Poste Italiane ed Enav: «Faremo le privatizzazioni quando saranno in condizioni di fruttare denaro – ha dichiarato al Financial Times qualche settimana fa - Non sono nelle condizioni di poter vendere a buon mercato, voglio vendere i nostri beni al loro giusto valore». Per coprire i mancati introiti delle privatizzazioni di Poste ed Enav, il Governo è infatti intenzionato a collocare sul mercato altre quote di partecipazioni di Eni ed Enel. Sembrava, inoltre, che nel pacchetto d Sblocca Italia dovesse esserci anche il taglio delle municipalizzate, che in realtà è sorprendentemente saltato, per motivi che ancora non sono stati chiariti.
Livello di difficoltà Relativamente semplice, ma devono cambiare le condizioni di mercato
Di cosa parliamo L’Irap – acronimo di Imposta Regionale sulle Attività Produttive – è una tassa introdotta nel 1997 dal Governo Prodi. La pagano le imprese ed è l’unica che si applica al fatturato e non al reddito d’esercizio. Con l’Irap è finanziato circa il 30% della sanità italiana. L’aliquota base è pari al 3,9% del Valore della Produzione Netta. Il Governo, annuncia il taglio del 10% di tale aliquota, che dovrebbe pertanto scendere di 0,4 punti, al 3,5%.
A che punto siamo Per il taglio del 10% dell’Irap bisognerà aspettare il 2015. Per quest’anno, infatti, ci si fermerà a metà strada, o meglio ad un’aliquota intermedia del 3,75%. Un beneficio che le imprese vedranno concretamente nel 2015, al momento del versamento del saldo d’imposta. Il taglio dell’Irap – il cui costo è stato stimato in circa 2,5 miliardi di Euro - si finanzia principalmente con l’aumento dell’aliquota sulle rendite finanziarie, che dovrebbe passare – ancora non è stato deliberato - dal 20 al 26%, Contestualmente, sono stati approvati tagli alla sanità pari a 2,4 miliardi per i prossimi due anni, cosa che dovrebbe rendere ulteriormente sostenibile la manovra. C’è un inghippo, tuttavia: la legge stabilisce infatti che le Regioni possono a loro piacimento aumentare o diminuire l’aliquota Irap di un punto percentuale. Molte regioni – Lombardia, Veneto, Piemonte, Toscana, Liguria, Emilia Romagna – finora hanno scelto di mantenere l’aliquota al 3,9%. Chi vieterà loro di continuare a farlo, avendo loro la facoltà di aggiungere uno 0,4 alla nuova aliquota base del 3,5%?
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