Così Draghi ha vinto sulla Bundesbank
Il rischio non è più l’opposizione tedesca, ma un ulteriore rinvio delle riforme nei periferici
Le misure prese il 4 settembre da Draghi sono l’ultima tappa di un percorso di profonda trasformazione del modo in cui la Bce interpreta il proprio ruolo e di cui Draghi è il soggetto propulsore. Un processo che ha subito un’accelerazione dopo le elezioni europee e apre nuovi scenari per il futuro dell’Europa.
Nel corso dell’estate la “rivoluzione” di Draghi si è resa esplicita, non tanto nel corso delle usuali conferenze stampa che seguono alle riunioni del board della Bce, ma con i due discorsi “accademici” svolti in occasione della commemorazione di Tommaso Padoa-Schioppa - con l’affermazione della necessità per i Paesi europei di effettuare una cessione di sovranità a favore della Comunità - e a Jackson Hole - con un ragionamento centrato su quella che fino a poco tempo fa a Francoforte veniva considerata un’eresia: la collaborazione tra politica monetaria e politica fiscale per sconfiggere il pericolo della deflazione.
Mettendo insieme ragionamenti “accademici” e misure concrete (programma di acquisto di asset backed securities e e covered bond, riduzione del tasso di rifinanziamento allo 0,05%, e del tasso sui depositi, allo -0,20%), si rafforza la sensazione che la battaglia contro le difese erette dalla Bundesbank non solo sia stata vinta, ma abbia preso le forme di uno sfondamento.
Solo tre anni fa la Bce di Trichet alzava i tassi per ben due volte nel mezzo di una crisi spaventosa
Per capire come sia cambiata quella che in gergo tecnico viene definita la funzione di reazione della Bce, basta ricordare che solo tre anni fa la Bce di Trichet alzava i tassi per ben due volte (ad aprile e luglio 2011) nel mezzo di una crisi spaventosa per fronteggiare un inesistente rischio inflazionistico. Anche durante l’era Draghi la Bce è dovuta rimanere ferma per più di un anno, mentre negli Stati Uniti e in Giappone le rispettive banche centrali (Fed e BoJ) con le loro politiche espansive causavano un apprezzamento dell’euro, scaricando su un’Europa spossata dall’austerità fiscale e dai postumi della crisi dello spread il costo della ripresa nel resto del mondo.
Le ragioni delle difficoltà incontrate dalla Bce nel comportarsi come una banca centrale “normale” sono senz’altro dovute al contesto istituzionale europeo, ma sono anche all’opposizione della Bundesbank, la cui critica si è svolta spesso in modi e sedi improprie. Al processo sulla legittimità degli Omt e all’accusa (infondata) di monetizzare il debito pubblico si deve il ritardo con cui la Bce ha potuto varare queste misure straordinarie di immissione diretta di liquidità nel circuito economico che vanno sotto il nome di Quantitative Easing, QE. I programmi di acquisto di Abs, covered bonds e i T-Ltro arrivano con 3 mesi di ritardo rispetto all’annuncio dello scorso giugno a causa delle difficoltà tecniche di strutturare operazioni simili al QE della Fed e della BoJ senza poter però contare sulla liquidità che solo il mercato dei titoli di Stato può offrire.
Le misure adottate dalla Bce per stimolare l’economia europea contribuiranno alla ripresa del credito? La risposta è sì, ma non nel senso inteso da molti commentatori. Il problema del credito in Europa è una questione in parte di offerta e in parte di domanda.Come ho scritto già su Linkiesta, non è possibile immaginare una maggiore offerta di credito all’economia se gli istituti devono prepararsi alla banking union, passando sotto le forche caudine diasset quality review e stress test con annesse pulizie di bilancio e aumenti di capitale. Fortunatamente, questo processo dovrebbe terminare presto, entro il 2014, e la sua fine avrà un impatto molto maggiore dei T-Ltro e degli acquisti di Abs nel rifocalizzare le banche sulla propria funzione centrale di erogazione del credito. Ovviamente, rimettere a posto il lato dell’offerta non è sufficiente perché non si può costringere il cavallo a bere, e ripartenza della domanda di credito da parte delle aziende non dipenderà certo dalla riduzione di 0,1% nel costo del denaro a brevissimo termine. Ma se i tassi a zero consentissero di attivare le strategie di carry trade valutario, queste porterebbero a un progressivo indebolimento del cambio. Il cambio conta molto, soprattutto per le economie dei Paesi cosiddetti periferici, perché potrebbe riattivare il canale delle esportazioni.
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Tutto bene quindi? Se si osserva la reazione delle borse europee sembrerebbe di sì. In realtà, le cose sono un po’ più complesse. Tassi negativi e QE sono il segno di una crisi senza precedenti, una sorta di ultima spiaggia per combattere la deflazione. Come ha detto Draghi in conferenza stampa, da un punto di vista di politica monetaria non è più possibile fare molto altro. Inoltre, la deflazione non si sconfigge certo generando un rialzo (temporaneo) dei prezzi dell’energia e degli altri beni importati, causato dall’indebolimento del cambio; la deflazione si combatte ridando competitività all’economia reale, rimettendo le finanze pubbliche su un sentiero di sostenibilità.
In questo contesto, il pericolo maggiore non è un ammutinamento della Bundesbank. Draghi è sufficientemente esperto e, come altre volte in passato, si sarà assicurato l’appoggio della Merkel. La verità è che la Bce di Draghi ha comprato altro tempo all’Europa, per consentire ai politici di fare quelle riforme strutturali che molti paesi europei, Italia e Francia in primis, hanno rimandato da troppi anni. Verrà speso bene o ci dovremo affidare ad un qualche (sempre più appannato) “stellone”?
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