domenica 1 giugno 2014

E questo problema chi lo risolve? Centinaio con la bandiera verde con i simboli centini e le interpellanze personali o Grillo che si allea con la destra populista e vuole uscire dall'euro dopo aver preso il posto a sedere?

Italia sempre più a corto di grandi imprese

Fiat e Pirelli rischiano di finire agli stranieri, ma le conseguenze strategiche sono sottovalutate
(GABRIEL BOUYS/AFP/Getty Images)

(GABRIEL BOUYS/AFP/Getty Images)

 
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L’Italia ha poche grandi imprese. E due di queste stanno per diventare “straniere”. Per la crescita non bastano le vitalissime multinazionali tascabili, per avere un futuro nella competizione mondiale servono anche i grandi gruppi. Un problema di rilevanza strategica per il Paese.
In Italia abbiamo poche grandi imprese, e due delle poche che abbiamo si apprestano a passare sotto il controllo di entità esterne al nostro Paese.
causa della cessione a termine, a Rosneft, di una quota che le darà il controllo di fatto, fra qualche anno in Pirelli comanderà la finanza russa, che assume peso crescente in area energetica: si vedano gli accordi con Erg e Saras, rispettivamente di Lukoil e della stessa Rosneft. Vista l’aggressività della Russia di Putin e gli standard di comportamento dei suoi oligarchi, c’è di che preoccuparsi e molto. Per l’Italia erano meglio i liguri Malacalza, respinti da Marco Tronchetti Provera; questi ha però preferito accordarsi prima con Clessidra, poi con Rosneft, che gli garantisce, per qualche anno ancora, il ruolo di capo azienda. E meno male che Prysmian, una delle nostre poche public company, sfuggirà alle grinfie di Rosneft: Pirelli la cedette a un fondo di private equity nel 2005, con il brillante intento di rafforzare la propria presa su Telecom Italia.
(Getty)

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L’altro grande gruppo che si appresta a cambiare bandiera è Exor/Fiat; lo spostamento della sede legale in Olanda è il naturale approdo di un percorso che fra l’altro moltiplica magicamente, grazie alle comodità della legge olandese, la percentuale di possesso della famiglia sabauda. I suoi esponenti han sempre guardato con alterigia l’Italia alle cui casse, checché ne dica il presidente John Elkann, hanno attinto spesso, in guerra e in pace. La nascita del gruppo Fca dà l’occasione giusta per de-italianizzarsi e prendere le distanze dai parenti poveri.
Sull’orlo dell’abisso, Fiat nel 2004 pescò dal mazzo come amministratore delegato Sergio Marchionne, abile a negoziare prima l’uscita dall’accordo con la General Motors, poi a cogliere l’occasione Chrysler; onore al suo fegato, che agli americani mancò. Oggi Fiat, come Fca, torna alla vita, ma dovrebbe pensare a cautelarsi nel caso che Marchionne voglia, o debba, lasciare prima della scadenza del 2018.
Potrebbero ballare tanti soldi, tanto più che il suo stile di gestione è molto personalizzato. Bianca Carretto scrive che Marchionne mette a punto i piani in solitudine, neanche i suoi manager sanno cosa presenterà agli analisti; non è lo stile di gestione di un grande gruppo globale (1). Dal 2004, certo, è molto salito il corso dell’azione; lauta parte del beneficio è stata girata al manager che in dieci anni ha portato a casa 300 milioni. Solo il 25 per cento di questi compensi sono dovuti all’effettivo conseguimento dei risultati, sempre deludenti rispetto ai piani succedutisi nel tempo, come ricorda Andrea Malan (2).
Sergio Marchionne, ad di Fca, alla presentazione del piano industriale ad Auburn Hills, il 6 maggio (Bill Pugliano/Getty Images)

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Non altrettanto bene va all’Italia, la cui industria automobilistica da anni sta evaporando. Nel 2003 Fiat costruiva qui più di un milione di auto, oggi sono 380mila; il Regno Unito, che non ha “suoi” costruttori, ne produce un milione e mezzo. Come scrive (Nelmerito.com) Aldo Enrietti, in Italia si producono meno del 30 per cento delle auto vendute nel Paese in un anno, contro il 220 per cento in Spagna, il 175 per cento in Germania e il 90 per cento in Francia. Se anziché in numero di auto si ragionasse in milioni di euro, sarebbe molto peggio.

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Fiat è un’impresa privata, non le spetta sostenere l’occupazione in Italia. Il loquace vertice Fca dovrebbe però spiegare quale caratteristica nostra abbia tanto ostacolato costruire qui auto. Se la risposta chiama in causa i sindacati, Fiat ha i sindacati che ha meritato e lo sa. Come mai Volkswagen (che ha distribuito 3 miliardi in bonus di fine anno ai dipendenti) produce auto e moto in Italia, e produrrebbe qui l’Alfa se Fca la vendesse? Perché la meccanica italiana brilla nel mondo per tutto, tranne che per le auto? Speriamo che, per una volta, gli ambiziosi piani di spostamenti sull’alto di gamma, quelli not for the fainthearted, non per i deboli di cuore, diventino realtà. Solo in tal caso l’industria automobilistica tornerebbe in Italia. Peccato che i previsti 50 miliardi di investimenti in cinque anni si innestino su una situazione finanziaria già tesa, senza che sia previsto un aumento di capitale. La sola fonte finanziaria prevista è il cash flow di Fca: come a dire che il piano diventerà realtà solo se nei primi anni il gruppo guadagnerà tanto da autofinanziarlo. Sarà molto difficile.
I due casi inducono a scrutare il panorama dell’insieme dei nostri grandi gruppi. Se allarghiamo lo sguardo, non è esaltante il panorama del nostro capitalismo che esce dalle statistiche 2012 di R&S (società di studi del gruppo Mediobanca) sulle imprese manifatturiere e di servizi (escluse banche, assicurazioni e servizi finanziari). Solo ventisei gruppi operanti in Italia hanno un valore aggiunto (VA) superiore al miliardo, per un totale di 150 miliardi (il 10 per cento del Pil). Di questi, il 53 per cento, (80 miliardi) fa capo a otto gruppi a maggioranza pubblica, il 43 per cento a quattordici gruppi privati italiani (il dato di Luxottica, che non lo pubblica, è solo rozzamente stimato), mentre il 4 per cento è realizzato da quattro gruppi a controllo estero.
Rispetto al 2011 escono dal novero dei “grandi” due gruppi: Riva e Costa Crociere, a causa di due drammi nazionali (il disastro ambientale di Taranto e il naufragio di Costa Concordia) che non ci hanno coperto di gloria nel mondo. Mancano invece alcuni nomi che dovrebbero esserci, specie nella moda e nell’alimentare; forse emergono altrove, per quella riluttanza, non solo fiscale, a chiamarsi italiani propria di alcuni nostri industriali, convinti che il Paese non li meriti. Il che è spesso vero, ma in senso opposto a quanto pensano.

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Meno male che ci sono le vitalissime multinazionali tascabili, come ci ricorda R&S, molte delle quali hanno VA inferiore al miliardo. Solo certe dimensioni, tuttavia, consentono di varare programmi di ampio respiro e assumere rischi importanti, senza i quali non si cresce. Solo sopra date dimensioni servono management e servizi professionali di alto livello, i quali, a loro volta, portano sviluppo urbano di qualità e rendono più attraente venire da fuori a vivere qui. Un Paese le cui grandi città non ospitano il quartier generale di un elevato numero di grandi imprese private ha, nella competizione mondiale, meno futuro.

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Un terzo di quel 43 per cento di VA generato dai privati italiani fa capo a due gruppi “figli del pubblico”, creati dalle privatizzazioni di Autostrade e Telecom Italia. Mentre la prima, nel gruppo Edizione, ha poi avuto sviluppi importanti, la seconda viene via via smontata per ridurre i debiti addossatigli da una serie di operazioni finanziarie di corto respiro.
Se questa è la fotografia dei numeri del 2012, in prospettiva l’incidenza delle nostre imprese private sul VA totale crollerà. Come abbiamo appena visto, due di quella sparuta pattuglia di quattordici gruppi privati potranno ancora definirsi a controllo italiano solo per poco. Se li consideriamo già a controllo estero, la relativa incidenza sale, mentre quella dei gruppi a controllo italiano precipita dal 43 al 25 per cento. Via Fiat e Pirelli, l’Italia avrà ancor meno grandi imprese; è un tema enorme, di cui bisogna farsi carico, ma che il Paese non avverte nella sua importanza strategica.
                             R&S classifica 2012- VA> 1000 milioni
  1. ENI                        33557 SM
  2. EXOR                   23927 PV
  3. ENEL                    20330 SM
  4. TELECOM IT     15541 PP
  5. POSTE IT             7925 SM
  6. FINMECC           6237 SM
  7. FFSS ITAL            5598 SM
  8. EDIZIONE           5536 PP
  9. LUXOTTICA      40000 PV *
  10. SNAM                   3055 SM
  11. WIND                   2462 PE
  12. FININVEST         2366 PV
  13. PIRELLI              2235 PV
  14. DEAGOSTINI     1908 PV
  15. TERNA                 1654 SM
  16. PRYSMIAN         1605 PV
  17. ITALMOBIL.      1598 PV
  18. A2A                       1594 SM
  19. PRADA                 1575 PV
  20. SUPERMKTS IT  1305 PV
  21. N PIGNONE        1254 PE
  22. EDISON               1231 PE
  23. BARILLA            1145 PV
  24. PARMALAT        1112 PE
  25. MENARINI         1078 PV
  26. COFIDE               1077 PV
————-
Tot.                    150905
=======
8 SM      79950    53,0
12 PV     43819    29,0
2 PP        21077    14,0
4 PE       6059       4,0
———–
Tot.         150905  100,0
======   ====
* dato solo stimato
SM – Statali/municipali
PV – Privati “veri”
PP – Privati ex pubblici
PE  Privati esteri

(1) Corriere della Sera, 6 maggio 2014.
(2) Il Sole-24 Ore, 22 aprile 2014.
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