COME SONO DIVENTATA UNA SENZATETTO
giu 3 2014
L'autrice.
I senzatetto vivono per strada, elemosinano qualche soldo e cercano di rifilarti una copia di Big Issue che non vorresti. Era quello che pensavo fino a un anno fa, quando ci hanno sbattute fuori casa e sono diventata una senzatetto.
So di non rientrare nello stereotipo della senzatetto, quando la mattina vado a lavorare con la pelliccia, il rossetto rosso e la mia sfacciataggine. Mi piacerebbe pensare di non avere nulla a spartire nemmeno con lo scialbo ostello in cui mi sveglio tutti i giorni. Quando arrivo al lavoro sono una persona e quando condivido il letto con la mia sorellina di 14 anni sono un'altra. I cosiddetti hidden homeless vivono in uno strano limbo: vogliono apparire normali, ma nel loro intimo devono convivere con l'ansia quotidiana di non avere una casa.
Nonostante il mio aspetto lo nasconda, qualche volta vorrei semplicemente mettermi una targhetta bella grossa con su scritto “sono una senzatetto.” In altri casi spiegarlo è troppo imbarazzante o troppo difficile. Di solito le persone non sanno cosa dire o come aiutarmi. Gli amici mi invitano a cena, ma preferisco evitare le loro chiamate pur di non aggiornarli sui recenti (non) cambiamenti al centro di reinserimento in cui vivo. Rimanere senza una casa ha colpito la mia autostima e influenzato ogni aspetto della mia vita.
Per certi versi l'esistenza del senzatetto invisibile è molto simile a quella del senzatetto che vive per strada; in tutti e due i casi si è degli incompresi, isolati e disperati. Alcuni potrebbero pensare che visto che disponi di una sistemazione temporanea vada tutto bene. Ovviamente avere un riparo è meglio che dormire sul cemento, ma mi infastidisce parecchio quando la gente reagisce constatando come un divano sia meglio del pavimento, il pavimento meglio della strada e via dicendo. Chi ha una casa non capirà mai come ci si sente a non averla. Non c'è normalità, non ho stabilità, non ho una stanza per me. Vivere con i vestiti negli scatoloni, nella perenne attesa di un luogo permanente, mi crea un'angoscia tale da avvicinarsi alla follia. Eppure, visto che non mi piace ammettere che va tutto male, mi metto la pelliccia e il rossetto rosso e mi dirigo impettita al lavoro.
Negli ultimi otto mesi ho vissuto in un centro di reinserimento sociale. Dopo 13 anni in lista d'attesa per una casa popolare e senza il miraggio di un'abitazione all'orizzonte, il nostro padrone di casa ha deciso di vendere lo stabile e l'affitto è schizzato alle stelle. Il reddito di mia madre, genitore sigle, non bastava più. Mia madre ha sempre lavorato e non riceve alcun sussidio, ma doveva crescere due figlie e risparmiare il più possibile. Di recente ho cominciato a lavorare per VICE e con quello che guadagno avrei potuto prendere una stanza in affitto con qualche amico, ma mia madre e mia sorella non hanno quest'opportunità. Di conseguenza, in quanto figlia, sento di dover stare con loro. Sono diventata una specie di figura paterna.
Un anno fa, mentre scorrevo le ultime parole della mia tesi alla biblioteca di Manchester, ho ricevuto una chiamata da mia madre. Mi spiegava che la casa in cui abitavamo stava per essere venduta, e che non avevamo un posto in cui andare. Dovevamo lasciare la nostra casa: la nostra sicurezza e le nostre identità. Non siamo mai state ricche—mi ricordo che quando ero piccola compravamo un sacco di patate che doveva bastarci per tutta la settimana. Le cucinavamo ogni volta in maniera diversa: patatine, patate con la buccia, patate ripiene, patate al forno e quando ci sentivamo un tantino capricciose pasticcio di patate. Ma qualsiasi preoccupazione economica era temporanea e superflua, perché avevamo una casa in cui tornare tutte le sere.
Tra i miei ultimi esami e la laurea abbiamo impacchettato le nostre cose e le abbiamo lasciate a casa di vari amici (senza badare a cosa andasse dove—scelta che si è rivelata non esattamente oculata). Poi, il 10 giugno 2013, con lo stretto necessario, siamo andate in comune a dire che eravamo senzatetto. Non dimenticherò mai quel momento. Avevo l'impressione che tutto stesse sprofondando ed esplodendo allo stesso tempo. Le viscere non hanno smesso di salirmi in gola finché non siamo arrivate nella nostra nuova—e temporanea—sistemazione.
Ricordo la zaffata putrida che mi ha investita quando ho spinto per la prima volta la rumorosa e pesante porta tagliafuoco del centro di reinserimento. Ce l'ho stampata in testa, la vista di mia madre che regge un cesto della lavanderia pieno di vestiti, un po' di latte per la mattina successiva e una bottiglia di vino. In piedi, nei corridoi bianco spento, le sono bastati pochi minuti per passare da scintillante raggio di sole a triste anima sconfitta. La bottiglia di vino tintinnava sul pavimento mentre compilava riluttante i documenti per l'ingresso e li infilava nella scatola di metallo. La sua faccia era grigia e scavata come i muri.
Il termine “senzatetto” si porta dietro una serie di significati così negativi che anche adesso, dopo aver completamente ridefinito nella mia testa il suo senso, mi viene difficile associarmi a questo stato. Mia madre non riesce a non sentirsi in colpa per non poter dare un tetto alle sue figlie. Ho cercato in tutti i modi di convincerla del contrario, che era lei ad essere stata abbandonata dal sistema.
Gli effetti psicologici sono di per sé abbastanza pesanti, ma anche la vita di tutti i giorni è incredibilmente difficile. Condividere la cucina e aver a che fare con spazi intimi altrui, routine inusuali e bassa autostima fanno sì che spesso risulti impossibile cucinare e portare avanti una dieta equilibrata—non solo perché è difficile cucinare negli spazi a disposizione, ma anche perché non è facile trovare la voglia. Ci piaceva molto cucinare, ma doverlo fare in una cucina che non è la nostra, per poi mangiare le cose tenendole sulle ginocchia, sedute sul letto, priva l'esperienza di tutto il divertimento.
Mia sorella è in piena rivoluzione ormonale, e questi ambienti così ristretti non le fanno bene. Mia madre si sente troppo in colpa per rimproverarla quando si comporta male, e in più non puoi mandare tua figlia a rimuginare nella sua stanza se c'è solo una stanza e ci stai dentro anche tu.
Oggi in Gran Bretagna c'è tutta un'altra attenzione per il problema della casa, ma i giornali non perdono l'occasione di mettere in guardia dai “parassiti di sussidi”. Ovviamente non sono d'accordo con questa visione delle cose, ma per quanto vale, pur non avendo una casa mia madre non riceve nessun sussidio. Un rapporto di Shelter rivela che per poter stare dietro all'impennata registrata nel settore immobiliare gli inglesi dovrebbero guadagnare più del doppio. Nel quartiere di Hackney, a Londra, il salario medio annuale dovrebbe superare le 100mila sterline per adeguarsi all'astronomica crescita dei prezzi delle case. Le famiglie sono quelle che soffrono maggiormente, con più del 70 percento di titolari di contratti d'affitto o ipoteca e bambini a carico che fatica a rispettare le scadenze. Nel periodo natalizio i bambini senza casa erano circa 80mila, distribuiti in centri come quello in cui vivo ora.
Nonostante la portata del problema, la gente non ne sa nulla. Ci sono stati amici e familiari che mi chiedevano perché non cercassimo un altro posto in affitto, come se sganciare soldi per la cauzione quando non li hai fosse una cosa da nulla. Ovviamente potendoci permettere di vivere altrove ci saremmo risparmiate lo stress e avremmo preservato la nostra dignità già.
Al momento nel Paese sono 1,7 milioni le persone in attesa di una casa popolare, ma le case non ci sono. Ogni quindici minuti un'altra famiglia si trova senza fissa dimora. I senzatetto sono in aumento per il terzo anno consecutivo e la mancanza di abitazioni e i tagli ai sussidi fanno pensare che nel solo 2013 le persone colpite siano state circa 185mila.
Basta un attimo—un licenziamento, un mese poco produttivo al lavoro, o un aumento dell'affitto—per trascinarti in una spirale che porta rapidamente allo stato di senzatetto. L'anno scorso, otto milioni di persone hanno rischiato di non potersi permettere l'affitto o l'ipoteca sulla casa. La definizione di senzatetto sta cambiando. Il problema sta entrando nella "normalità"—non è più una questione che riguarda soltanto chi sta ai margini della società.
Siamo nel pieno di una crisi e la mia famiglia ci è finita dentro. Sono una senzatetto, e sono incazzata nera.
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