Fummo facili profeti, qualche giorno fa, intitolando una nostra inchiestaPadania Connection. Raccontavamo del filo rosso che lega le indagini scoppiate in Liguria intorno a banca Carige con quelle sugli appalti di Expo 2015. Con gli arresti in Laguna e nel resto del Veneto si chiude il cerchio a Nord-Est completando la Padania degli affari (sporchi) da Torino a Venezia.
Se mettiamo in fila le inchieste e gli scandali degli ultimi anni c'è da restare senza fiato, con tutto il garantismo del caso e la necessaria sanzione verso il protagonismo e l'orologeria spesso equivoci di alcuni magistrati: si va dallebonifiche in Brianza (affaire Grossi) alla sanità pubblico-privata infestata da corrotti e corruttori (Piemonte, San Raffaele, Maugeri), dal mattone flop (Zunino) a quel che resta del salotto buono (crac Ligresti), dal Belsito al Penati gate, dalle infrastrutture gonfiate in Veneto alla cricca Expo, dal sistema Scajola nel Ponente ligure fino alle banche di territorio che danno i soldi agli amici e agli amici degli amici (Carige). Questa la sfilza di inchieste, solo per citare i casi più eclatanti, lasciando fuori dal mazzo 'ndrangheta e criminalità organizzata, altro film dell'orrore proiettato in questi anni sopra il Po.
Si tratta di una tangentopoli diffusa forse peggio di quella originale tanto che il procuratore veneziano Carlo Nordio, descrivendo il sistema Veneto, lo ha spiegato con dovizia, persino sorpresa: «ci si è trovati di fronte ad una vicenda simile alla tangentopoli negli anni '90. In alcuni casi, abbiamo trovato gli stessi protagonisti degli anni '90. Non hanno imparato niente, ma non hanno dimenticato nulla». A differenza di quei tempi, però, il sistema è decisamente più sofisticato, con triangolazioni in paesi stranieri come la Svizzera e la Repubblica di San Marino.
Va da sé che il malaffare esiste in tutta Italia, le stecche volano dappertutto ma qui colpisce di più perchè la vulgata vuole che il nord sia la parte sana e avanzata del paese, dove la società civile è più reattiva, c'è più capitale sociale, efficienza, sanzioni, controlli ed etica degli affari. Per vent'anni è stata questa la narrazione pubblica: il territorio come risposta sana al centralismo romano e allo sprofondo mediterraneo. Il federalismo e l'autogoverno (del nord) come prova provata di una questione settentrionale da risolvere in fretta. Le ragioni dell'economia che stanno per definizione a nord contro la palude politica centrosudista. Purtroppo non è (più) così da tempo e questi scandali sono la coda esatta di un sistema padano che negli anni si è profondamente "romanizzato" e imbastardito.
E' come se questo paese procedesse a strappi, per cesure ventennali. Vent'anni fa scoppiò una tangentopoli concentrata nel tempo, dirompente dal punto di vista mediatico, capace di distruggere un'intera classe politica (e le sue fabbriche) sull'onda del crollo del muro di Berlino, della fine del comunismo e della Prima repubblica. Oggi è una tangentopoli diffusa e più capillare sul territorio dove capita di incrociare nuovi e vecchi faccendieri, non di rado millantatori, imprenditori e manager collusi, politici disposti a tutto, comitati d'affari, quel che resta dei partiti trasformati in caciccati, funzionari pubblici consenzienti e persino militari dell'Arma o finanzieri rampanti. A dare la stura, un'altra volta, una crisi di sistema che si somma alla crisi economica di questi anni e spinge la magistratura a fare supplenza, un vento “anti casta e anti establishment” che soffia impietoso, e soprattutto un sistema politico e di potere allo sfascio, quel forza-leghismo egemone al nord all'ombra del quale molta melma si è depositata: politica che fa affari e affari che entrano direttamente in politica fino alle scorribande di salotti e salottini più o meni buoni tra Genova, Torino, Milano e Venezia.
Con alcune costanti che si ripetono.
Uno. Gli scandali tendono a prodursi al riparo di lunghissimi regni personali, dov'è più facile calcificare sistemi torbidi, poteri autoreferenziali, allevare cerchi magici, foraggiare imprese amiche, cricchette e faccendieri vari. E' stato così per Berneschi in banca a Genova, per Formigoni in Lombardia e adesso, si scopre, per Galan in Veneto.
Due. Si tratta di sistemi perfettamente bipartisan dove all'egemonia di un potentato corrisponde un diritto di tribuna cospicuo garantito all'opposizione, nel Lombardo-veneto si tratta di solito di cooperative rosse e galassia post comunista perchè insieme gli affari si fanno meglio e perchè tutti sono tenuti all'omertà. Lo racconta bene Venezie Post, descrivendo la decapitazione del sistema Galan: «Il Veneto delle grandi opere ha visto per vent’anni uno straordinario intreccio di interessi che ha coinvolto tutti i soggetti politici, dalle Coop rosse (testimoniato dall’arresto di Giampietro Marchese) fino a imprenditori e imprese vicine al centrodestra. Da tempo si parlava di una sorta di “cupola” alla quale tutti rispondevano e dei cui affari tutti beneficiavano, tanto che, quando venne arrestato un paio d’anni fa Lino Brentan, uomo del Pd (già presidente dell'autostrada Venezia-Padova), ai cronisti in cerca di notizie veniva risposto che nessuno avrebbe parlato perché tutti, ma proprio tutti, erano coinvolti».
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Cristina Giudici
Cosa è accaduto dunque per rompere questo sistema? «La risposta potrebbe stare tutta nelle vicende legate alla gara per la Pedemontana Veneta, quandola cordata Sis si impose sulla cordata “veneta”. Qualcuno fa risalire a quella nuova situazione, con molte delle imprese che non erano state beneficiate dall’operazione del Passante di Mestre e che si aspettavano di essere ricompensate attraverso i lavori per la Pedemontana, i primi attriti tra Baita, ad di Mantovani (peraltro è l'azienda che ha vinto l'appalto per la costruzione della piastra di Expo), e Silvano Vernizzi, all'epoca commissario straordinario per il Passante, scoppiati nei mesi successivi in una durissima contrapposizione che l'assessore Chisso non sarebbe riuscito a tenere a bada».
Se così fosse è logico pensare che «l’arresto di Baita possa essere stato una delle conseguenze di quella vicenda, come, certamente, proprio dalle dichiarazioni di Baita e della Minutillo, segretaria personale di Galan, nascono gli arresti di oggi».
Già perchè questa inchiesta altro non è che il terzo troncone dell’inchiesta ‘Baita’, partita nel 2009, dopo le verifiche fiscali su alcune aziende (in primis la Mantovani dove Baita era ad) da cui era emerso un giro di fatturazioni false destinate alla costituzione di fondi neri per il pagamento di tangenti. I fondi extracontabili, secondo l’accusa, erano stati illecitamente creati da società facenti parte del Consorzio Venezia Nuova, incaricato di realizzare il sistema Mose, e da altre aziende operanti nel settore del Project Financing. Probabilmente si tratta del Passante di Mestre e di alcuni nuovi ospedali veneti.
Nulla di nuovo, insomma. In Lombardia, dopo tangentopoli, il meccanismo è lo stesso. La regola è tacita ma scientificamente applicata. Chi mena(va) le danze tra appalti e grandi opere era la formigoniana Infrastrutture lombarde, al piano di sotto a macinare appalti e commesse, imprese cielline e coop rosse a braccetto. E' sempre andata così sui principali appalti: la nuova fiera di Rho Pero, gli ospedali, l'Expo...
Terzo filo rosso che ritorna. L'intreccio politica-affari che ci trasciniamo da tempo immemore continua a prosperare perchè non lo si vuole davvero sciogliere. Ogni volta che scoppia uno scandalo, vero o presunto che sia, in Italia tendiamo a far prevalere il moralismo sulle regole. Ci soffermiamo sul gossip, la commedia umana, finendo per perdere di vista la sostanza: la quantità sterminata di soldi pubblici gestiti con discrezionalità tra le pieghe di regole troppo stratificate, troppo barocche, troppo burocratiche. Brodo di coltura perfetto per faccendieri, trafficoni e corruzioni di ogni risma.
Piuttosto che ridurre il perimetro di quel che gestisce uno stato moderno, ci si affida al lavacro giudiziario o si scrive l'ennesima nuova legge che puntualmente va a sommarsi alle precedenti, generando nuova discrezionalità, nuova palude, nuove interpretazioni.
Lo ha spiegato bene sempre Nordio: «la madre della corruzione, 20 anni fa come oggi, non è solo l’avidità umana, ma appunto la complessità delle leggi. Se devi bussare a cento porte invocando cento leggi diverse per ottenere un provvedimento è quasi inevitabile che qualcuna resti chiusa e qualcuno ti venga a dire che devi imparare a oliarla».
Al netto dell'ennesima inchiesta, della figuraccia internazionale (in queste ore a Venezia si inaugura la Biennale di architettura), di quale parte politica potrebbe beneficiarne, e del destino incerto delle grandi opere in costruzione travolte dalle inchieste (che ne sarà adesso del Mose e dello stesso Expo?), «se è consentito al magistrato dare un messaggio forte, per ridurre, se non eliminare, la corruzione la strada è la riduzione delle leggi e l’individuazione delle competenze. Alzare le pene, come si continua a fare, e contemplare nuovi reati non serve assolutamente a niente, come dimostra questa inchiesta dove si può dire che le forze politiche non hanno imparato nulla dal passato...». Sottoscriviamo in pieno il pensiero amaro di Nordio.
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