Lo sciopero ha fatto girare la testa ai sindacati confederali. La Cgil aveva deciso da sola lo sciopero generale per il 5 dicembre, un venerdì attaccato al ponte dell’Immacolata: non pensando all’ovvio scherno che ne sarebbe derivato, sommando tutti coloro che ne avrebbero approfittato per un ponte lungo. Ma ecco che a questo punto arriva la Uil del neosegretario Carmelo Barbagallo, e anche lei decide a congresso per lo sciopero generale. Ma non il 5 bensì il 12, così cade la critica di voler fare “i pontieri”. Senonché la Cisl della neosegretaria Annamaria Furlan sciopera anch’essa: ma non lo sciopero generale Cgil con Uil al traino, bensì generale sì ma nel solo settore pubblico, il primo dicembre. E se Cgil e Uil vogliono accodarsi nello sciopero Cisl bene, ma la Cisl allo sciopero Cgil-Uil non s’accoda.
Sembra un litigio manzoniano tra i polli di Renzo, che adattato a oggi diventa tra polli di Renzi. La libertà sindacale è sacra, ma le confederazioni accettino una critica fuori dai denti. Dopo il nulla di fatto della Camusso a piazza San Giovanni che aiutò Renzi invece di danneggiarlo, tutto l’ambaradan partito da due settimane sullo sciopero generale, da soli o in compagnia e a chi sarà più tosto a seconda di con chi sfila, vienedalla spinta esercitata da un sindacato che non è né la Cgil né la Uil né la Cisl, bensì la FIOM che in teoria nella Cgil è minoranza assoluta. E dal suo leader, l’unico che rimbalza di schermo in schermo televisivo e fa testo quando parla: non a nome dei suoi iscritti ormai – il più delle volte in minoranza nelle fabbriche – bensì dell’intero fronte di “chi non ci sta”: Maurizio Landini. Lo scontro con la polizia a piazza Indipendenza a Roma, alla testa degli operari dell’AST Terni, ha completamente modificato il quadro degli atteggiamenti sindacali. Da quel giorno Landini guida, e la Cgil e gli altri inseguono. La FIOM avrà perso il congresso Cgil, ma nei fatti sta imponendo a tutti lo scontro muro contro muro. Legittimo, per carità: basta che i riformisti della Uil e della Cisl se ne rendano conto, ora che le due nuove segreterie hanno il problema di mostrare al più presto agli iscritti quanto sono “toste”, rispetto ai vecchi leader usciti di scena.
“Gli scioperi hanno regolarmente prodotto l’invenzione e l’applicazione di nuove macchine”. Sapete chi l’ha scritto? No, né Milton Friedman né la baronessa Thatcher. L’ha scritto uno che agli scioperi era simpatetico: Karl Marx, in La miseria della filosofia. E se era vero ai tempi suoi, quelli della prima rivoluzione industriale, figuriamoci quanto siano opportuni e azzeccati gli scioperi generali nell’Italia di adesso, piegata in due da una recessione durissima e pluriennale. Un’Italia che ha bisogno di trovare ponti comuni tra dipendenti e autonomi, vecchi e nuovi lavori, pubblico e privato, partite IVA e contratti a tempo senza tutele.
Si è appena chiusa a Roma una vicenda che dovrebbe far riflettere il sindacato ”antagonista”: quella del Teatro dell’Opera. Aver detto no alla proposta di risanamento aziendale a luglio pur votata a maggioranza dai dipendenti, aver continuato a difendere indennità e costi da paura e bassa produttività, ha portato il sovrintendente Fuortes a convincere cda e ministro Franceschini che non c’era via d’uscita, bisognava licenziare l’orchestra. Solo a trauma avvenuto, i sindacati che prima dicevano no hanno dovuto ripiegare le bandiere, e hanno firmato tagli di costi per 4 milioni e l’innalzamento delle recite. E i licenziamenti sono rientrati. Pensate a che cosa sarebbe avvenuto, visto che da mesi spacchiamo il capello in quattro per i licenziamenti individuali nel privato da normare nel Jobs Act, se fosse stata un’azienda privata e non un teatro pubblico, a ricorrere a un licenziamento collettivo usato in realtà solo come arma per risedersi al tavolo contrattuale, e strappare un accordo necessario alla sopravvivenza. Sarebbero insorti tutti gridando contro l’avido padrone. Invece per una volta il segnale è venuto dal fronte pubblico, ma il risultato è comunque una piena sconfitta di un modello sindacale sbagliato perché ideologico, fondato solo sul “no perché no”.
Ora non sta a noi dire che ai sindacati deve piacere quel che propone e fa il governo Renzi. Ci mancherebbe altro. Ma credere di tornare tutti all’autunno caldo del 1969 e agli anni Settanta può essere un mito per chi nella FIOM e tra i COBAS è da sempre rimasto convinto e nostalgico di quel modello. Se lo ridiventa anche per chi per anni e anni ha detto di aver tratto il giusto bilancio di quell’esperienza, allora è un altro paio di maniche. Non farà affatto tornare indietro le lancette della storia: perché non è finito solo l’autunno caldo ma è finita la concertazione, e chiunque governerà dopo Renzi così resterà, perché la politica si è ripresa dopo decenni la sua autonomia. E tuttavia aprirà una fase nuova: quella dei resti di un sindacato riformista che torna al traino della difesa pervicace di una visione antagonista.
Sta a Cgil, Cisl e Uil rifletterci sopra. Scelgano quel che credono, ma poi non ne rimpiangano le conseguenze: perché Landini e la FIOM in questa impostazione saranno sempre davanti a loro, e loro al seguito. La storia del sindacato antagonista, per definizione, è fatta è più di sconfitte che di vittorie: è la sconfitta a dimostrare di essere irriducibilmente “altri e diversi” rispetto alla produzione e al mercato, agli imprenditori e all’innovazione organizzativa e tecnologica di cui si alimenta la maggior produttività. Il sindacato riformista da quelle sconfitte ricercate ha imparato nel Novecento in tutto l’Occidente che bisogna guardarsi, perché il lavoro e la sua dignità si estendono con buoni e pazienti accordi, non con cortei e scontri di piazza.
Fatevi dunque se volete i vostri scioperi: liberi di credere di farlo per abbattere Renzi, in realtà state abbattendo un pezzo di strada che faticosamente aveva percorso chi vi ha preceduto. Perché si impara più dalle sconfitte, che da ideologiche vittorie impossibili.
Nessun commento:
Posta un commento