Giappone e Germania: ricette diverse, nessuna soluzione
Una lezione per l'Italia: le politiche monetarie non risolvono i problemi delle vecchie manifatture
Di qua l’inflessibile rigore di Angela Merkel e Wolfgang Schäuble. Di là la scommessa a base di espansione fiscale e monetaria di Shinzo Abe. Germania e Giappone hanno scelto strade opposte, suscitando ammirazione rispettivamente da parte dei sostenitori della stabilità dell’euro e di chi all’opposto vedeva nell’Abenomics nipponica un’alternativa a tutto quello che l’euro e l’Ue rappresentano. Oggi sia il Giappone che la Germania hanno di fronte un’economia che perde colpi. Va molto peggio a Tokyo, dato che l’economia è entrata in recessione. Nel terzo trimestre il Pil è sceso dell’1,6 per cento su base annuale, dopo che i tre mesi precedenti avevano visto un tonfo addirittura del 7 per cento. Ma anche la Germania è vicina alla recessione, a causa un calo dell’export e della carenza di investimenti continuata anche quando lo slancio economico, a partire dalla scorsa primavera, è venuto meno.
Politiche diverse, simile e ugualmente deludente il risultato. Come mai? Forse perché i problemi sono a monte e non si risolvono in poco tempo. Problemi che hanno nome e cognome, peraltro: un’età media molto alta a un’economia molto sbilanciata sul manifatturiero.
Giappone, la frenata inattesa
In Giappone la recessione è arrivata inattesa. Le previsioni degli istituti di ricerca, dopo il tonfo del trimestre precedente (-7,3% su base annua) si aspettavano un rimbalzo, con una crescita del 2,2 per cento. Sulla capacità di ripresa ha invece pesato l’aumento delle tasse sui consumi (l’equivalente della nostra Iva) dal 5 all’8% dello scorso aprile, e ancor più la prospettiva di un nuovo rialzo al 10% nell’ottobre del 2015. Si è trattato del primo incremento della tassazione in vent’anni, da quando cioè il Giappone ha affrontato una lunga stagnazione fatta di deflazione e bassa crescita del Pil. L’aumento delle tasse era stato deciso dal governo precedente quello di Shinzo Abe. La decisione di mantenerlo anche durante la fase delle politiche espansive dell’Abenomics è stata controversa e dovuta alla volontà di monetizzare parte della crescita ottenuta nel corso del 2013, allo scopo di ridurre il debito giapponese, che con oltre il 200% del Pil è il maggiore tra i Paesi sviluppati. La mossa è stata però troppo anticipata, perché la ripresa non si è ancora consolidata. Così i consumi sono cresciuti nel trimestre solo dello 0,4%, la metà di quanto atteso, e le imprese si sono ritrovate con scorte di magazzino eccessive.
Ora Abe proporrà uno slittamento dell’aumento della tassa dei consumi, di almeno 18 mesi, quindi nel 2017. Già a dicembre saranno indette delle elezioni anticipate (la scadenza naturale della legislatura è nel 2016), con le quali Abe proverà a farsi eleggere, puntando su un consenso ancora relativamente alto e sulla possibilità di convincere un numero di indecisi pari al 40% dell’elettorato, e quindi a blindare le proprie riforme economiche. Oggi, 18 novembre, è arrivata la conferma ufficiale dello scioglimento del Parlamento, già da venerdì 21 novembre.
Nella primavera del 2013, il primo ministro nipponico Shinzo Abe ha lanciato un piano ambizioso di crescita conosciuto come Abenomics. Lo scopo era di spostare l’economia giapponese da 20 anni di deflazione e rimetterlo sulla strada della crescita. Miliardi di dollari sono stati iniettati nell’economica attraverso la spesa pubblica. La Banca del Giappone ha dato uno stimolo ancora maggiore, stampando centinaia di miliardi di dollari di nuova moneta e usandola per comprare titoli di Stato.
L’effetto è stato duplice: ha abbassato il valore dello yen, rendendo più economiche le esportazioni giapponesi. Ha spinto gli investitori ad acquisire azioni invece che bond, facendo salire il mercato azionario. L’economia giapponese ha così potuto avere quattro trimestri consecutivi di crescita del Pil. Poi l’aumento delle tasse e la frenata dei consumi oltre ogni attesa. Come mai? Probabilmente, come interpretato da un’analisi della Bbc, perché mentre i profitti delle aziende esportatrici crescevano, i salari dei lavoratori sono rimasti fermi. La crescita dei mercati azionari non ha interessato l’80% dei giapponesi, che non possiede azioni. I loro redditi hanno continuato a rimanere stagnanti o a scendere. Per questo l’aumento delle tasse li ha fatti sentire più poveri e spinti a smettere di spendere.
Germania, il totem del pareggio di bilancio
Ci sono tre cose accadute nei giorni scorsi che raccontano molto dello stato di salute della Germania: primo, il Pil che nel terzo trimestre è cresciuto dello 0,07%, un soffio sopra livelli da recessione, e l’inflazione ferma allo 0,8 per cento a ottobre. Secondo, l’accordo tra i partiti per lo schwarze null, il primo bilancio pubblico che prevede zero deficit dagli anni Sessanta. Terzo, l’opposizione di Jens Weidemann, il presidente della Bundesbank, all’idea di un quantitative easing della Bce. Unico dato positivo, in prospettiva, è la ripresa fatta registrare dall’indice Zew sulla fiducia delle imprese.
Una lunga analisi di Philippe Legrain sul magazine britannico Prospect (ripresa da Internazionale) ha messo in luce come il governo di Angela Merkel non dovrebbe sottovalutare i segnali di allarme. I problemi di Berlino, dati alla mano, si chiamano oggi produttività, investimenti, infrastrutture, salari, demografia ma anche, a sorpresa, manifatturiero.
L’export è stato in questi anni il grande motore di espansione dell’economia della Germania, ma le esportazioni sono concentrate in quattro settori e dipendono fortemente dalla Cina. Il rallentamento della domanda dei prodotti di cui il Paese asiatico ha avuto bisogno per la sua espansione industriale (a causa del rallentamento degli investimenti cinesi e della produzione che nella stessa Cina sta scalando posizioni nella catena del valore) mette a rischio la tenuta del modello tedesco. Lo stesso surplus commerciale della Germania non sarebbe da idolatrare, perché sarebbe il «sintomo di un’economia malata, non di un’economia forte. La stagnazione dei salari gonfia i profitti delle imprese, mentre una spesa asfittica, un settore terziario ingessato e le difficoltà delle startup deprimono gli investimenti, con il risultato che i risparmi vengono sperperati all’estero». Il riferimento è agli investimenti che negli anni precedenti alla crisi finanziaria sono stati effettuati dalle banche tedesche nelle bolle immobiliari di Spagna e Irlanda, usati per finanziare il boom dei consumi in Portogallo e per finanziare i prestiti al governo greco. Investimenti che secondo l’istituto Diw sono costati alla Germania tra il 2006 e il 2012 600 miliardi di euro.
La ricetta proposta è quindi quella di investire più sulla crescita, «intervenendo prima di tutto su infrastrutture fatiscenti e su un sistema scolastico in declino», aumentare la concorrenza nei mercati ed essere più aperti all’immigrazione per invertire il calo demografico. Tutto il contrario della politica di bilancio a deficit zero che il ministro dell’Economia Wolfgang Schäuble ha ottenuto e difeso con ostinazione.
Il manifatturiero non basta
Secondo Legrain, in Germania «l’industria non riuscirà a sfidare le leggi della storia ancora per molto» e per questo la Germania non dovrebbe fare troppo affidamento al manifatturiero. Già oggi il 60% del valore aggiunto tedesco è dato dai servizi e il motivo è intuibile: «i progressi tecnologi permettono di produrre beni di maggiore qualità a un costo più basso, e il miglioramento delle condizioni economiche spinge i consumatori a spendere una percentuale più alta del proprio reddito in servizi (vacanze, sanità, aiuto domestico) anziché in beni materiali».
C’è poi il problema della demografia, perché l’età media in Germania è oggi di 46 anni e nel 2040, se le tendenze attuali saranno confermate, il Paese avrà meno abitanti di Francia e Regno Unito, a meno di un aumento di immigrazione o di incremento di figli per famiglia. Gli effetti si faranno sentire anche sull’economia.
I ragionamenti sulla demografia e sull’eccessivo peso del manifatturiero sono comuni anche al Giappone. Tanto da far pensare che i problemi delle due economie siano a monte e non si risolvano in tempi rapidi o con una ricetta. Tanto più che manovre di segno opposto, espansive e di rigore, hanno effetti simili.
E l’Italia? Si ritrova senz’altro con i problemi di Germania e Giappone su entrambi i fronti. Ma oggi non può seguire nessuna delle due strade: né l’Abenomics, perché non può stampare moneta e perché le regole di Maastricht non permetterebbero eccessi di spesa. Né la strada di Berlino, perché se l’austerity e la mancanza di investimenti sta danneggiando un’economia forte come quella di Berlino, ancora più danni sta portando in Italia. Una terza via, fatta di stimoli blandi, è l’unica possibile, insomma. Anche se è ugualmente difficile che risolva i problemi profondi della nostra economia e le distorsioni demografiche della nostra composizione sociale.
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