domenica 25 maggio 2014

Riceviamo e con piacere pubblichiamo.

10 motivi per votare Matteo Renzi

Sta facendo crescere il Paese. Ha avviato le riforme. Vuole cambiare l'Ue, non lasciarla. E non ci sono alternative valide.

EDITORIALE
editoriale
Nei quasi quattro anni di vita diLettera43.it non l’ho mai fatto. Sono refrattario agli endorsement, penso che compito di un giornale non sia sposare le tesi di partiti o leader ma raccontare i fatti, analizzarli, offrire un punto di vista non fazioso che ne aiuti la comprensione. E per non fazioso non intendo neutrale o incolore, ma non ispirato a interessi di parte, politici o economici che siano.
Stavolta però ho deciso di fare un’eccezione, e di spiegare quali sono le ragioni che mi porterannodomenica 25 maggio a votare per il Pd di Matteo Renzi.
Ho iniziato questo editoriale usando la prima persona, cosa che per una forma di pudore e antidoto al narcisismo dilagante non faccio mai, proprio perché (anche se all’esterno la linea del giornale è quella che esprime il suo direttore) non voglio impegnare la redazione in una presa di posizione che so molti dei colleghi non condividono.
Lettera43 ci sono renziani, comunisti, grillini, qualche berlusconiano (pochi), seguaci di Tsipras, ovvero della sinistra antagonista a questa Europa, persino qualche inconsapevole leghista. Ma al di là di come uno la pensa, quello che ci unisce è un’idea di giornalismo libero e scevro da pregiudizi che ogni giorno ci sforziamo di non disattendere.
Premesso questo, ecco quali sono 10 ragioni per cui mi pare importante che la leadership di Renzi - e queste europee, al di là dei distinguo, hanno assunto il valore di un referendum sul premier e sui suoi primi 80 giorni di governo - esca rafforzata dal voto di domenica. Pur con tutte le remore che si possono nutrire su di lui, la sua esasperata personalizzazione della scena, la tendenza talvolta a privilegiare l'effetto alla sostanza, l'innamoramento per un frenetico fare che sembra compiacersi del suo propagandistico impatto. Nonchè alcune scelte, vedi le nomine ai vertici delle aziende partecipate, che dire lasciano perplessi è poco.

1. Il Paese, pur ancora invischiato in una recessione che dura oramai da sette anni, comincia a mostrare qualche timido segnale di ripresa. Qualcuno obietterà che siamo ancora il fanalino di coda dell’Eurozona, che il Pil del primo trimestre dell’anno è tornato se pur di pochissimo in negativo. Però l’export delle piccole e medie aziende è in espansione, fatturato e ordinativi anche, e l’Istat ha certificato un rialzo dei consumi come non accadeva dal 2010. Sono piccoli sintomi di una guarigione ancora lontana, che non possiamo permetterci di destabilizzare restituendo con questo voto il Paese alla sua cronica condizione di ingovernabilità.

2. Con un sistema finanziario storicamente povero di capitali, e un debito pubblico talmente alto da non consentire robusti interventi di tipo keynesiano sull’economia, diventa fondamentale la capacità di attrarre investimenti dall’estero. Che poi vuol dire nuovi posti di lavoro in un quadro di drammatica disoccupazione. Ma i soldi arrivano solo se c’è predisposizione ad accoglierli e non conclamata ostilità, se il sistema Paese offre garanzie di sicurezza e stabilità. Credo che Renzi, al di là della sua propensione agli annunci roboanti, abbia di fatto avviato una serie di riforme, in primis quella del lavoro, che sono l’indispensabile presupposto per la sua modernizzazione.

3. Pur criticandone le rigidità, Renzi si muove in una sicura prospettiva europeista. Che, pur con storture e paradossi di ogni sorta, resta la sola possibile per chi non voglia consegnarsi all’emarginazione, magari vagheggiando un’impossibile autarchia. E questo anche nel momento in cui è la Germania a trarne tutti i vantaggi a scapito degli altri partner, e un’unione che vada oltre quella della moneta unica stenta a prendere forma. Ma cambiare questa Europa dal di dentro, e non abdicare a un’idea che proprio in Italia trovò nobili precursori, è la sola scelta da perseguire.

4. Renzi ha avviato un processo di sburocratizzazione del Paese cercando di incidere su vincoli e incrostazioni che ne bloccano lo sviluppo. Da troppo tempo ci sono rendite di posizione che la politica combatte solo a parole, corporativismi che ammorbano ogni dinamica sociale uccidendo sul nascere l’unico criterio che dovrebbe ispirarle, quello della meritocrazia. Conflitti di interesse e posizioni dominanti che rendono economicamente più gravosa la vita dei cittadini. In questi giorni la polemica su Uber, l’applicazione che disintermedia il servizio di trasporto privato offrendo un’alternativa al monopolio dei tassisti, è diventata l’emblema di una battaglia per l’affermazione del principio di libera concorrenza. Che, contrariamente ad alcuni suoi ministri, il premier stia con la prima e non con i secondi, è una rassicurante dichiarazione di intenti.

5. Renzi ha messo nel mirino la partitocrazia, ne ha minato alle fondamenta l’auto referenzialità, sta provando a scalfire l’atavico potere di classi dirigenti il cui fine è diventato solo quello di riprodurre se stesse. Ma deve avere ancora tempo per debellare la granitica solidità degli apparati nonché la loro ineluttabile tendenza a trasformarsi da rappresentanti dei cittadini a comitati d’affari trasversali, come gliscandali dell’Expo stanno ampiamente dimostrando.

6. Il premier ha ridotto il potere di veto delle parti sociali, interrompendo il rito della concertazione che accomunava associazioni di categoria e sindacati nel ritenersi gli unici depositari del principio di rappresentanza. Un principio dietro cui si cela invece una totale contiguità, per non dire collusione, a quegli interessi che invece si propongono di combattere. A parole tutti contro un sistema cui nella realtà dei fatti sono totalmente omologati.

7. Renzi si è mostrato da subito estraneo a quel subdolo principio di supremazia morale che storicamente è stata la dannazione della sinistra, la zavorra che le ha impedito di passare da giudice forte della sua presunta diversità a interprete della realtà sociale. Che ne ha svuotato lo spirito identitario inseguendo posizioni che non le appartenevano, o peggio definendo se stessa in chiave di puro antagonismo nei confronti degli avversari, vedi Berlusconi, considerati come della singole anomalie da esorcizzare e mai come portatori di interessi che non fossero solo i propri.

8. L’ex sindaco di Firenze ha svecchiato il linguaggio della politica, la rigida semantica dei suoi riti che ha finito con l’allargare la separatezza tra sé e il mondo. Per qualcuno è solo strategia mediatica studiata a tavolino, virtuosismi della comunicazione che ne fanno un emulo di Berlusconi. Ma il fattore generazionale e i suoi riferimenti culturali, pescando metafore in un bagaglio non polveroso, autorizzano a pensare che la soluzione di continuità rispetto al passato non sia un artifizio retorico buono solo a incantare le folle.

9. Occorre un cambio di mentalità, una discontinuità forte nel tentativo di arginare l’indole autodistruttiva che ovunque spadroneggia. Siamo un Paese in cui tutti litigano con tutti, ognuno bada a che il suo interesse particolare non venga intaccato da quello generale, in cui imperversa un rancore che avvelena il corpo sociale in ogni sua parte. È una metastasi che divora le poche cellule sane, e rende il contesto invivibile obbligando ad espatriare chi, e sono soprattutto i giovani, vuol sottrarsi a questa logica perversa. Privilegiare ciò che unisce, come esorta Renzi, rispetto all’enfasi verso tutto quello che ci divide è un comportamento ineludibile per tentare di ricostruire lo spirito collettivo di una nazione.

10. Anche se non lo si tollera, se si diffida di lui pensando che, al di là della sua prosopopea non sia diverso dai suoi predecessori, o peggio si sospetta sia un burattino messo lì a tutelare gli interessi di gruppi di potere più o meno forti, al momento Renzi non ha alternative. Non Berlusconi, il cui declino è asseverato dalla riproposizione di vecchie ricette che furono all’origine della sua discesa in campo, poi sempiternamente disattese e ora riproposte nella parodia di se stesse. Non Grillo, che magari in molte cose ha ragione da vendere, ma che nei suoi modi lascia trasparire un approccio talebano alle persone e al mondo, ancora più inquietante nella versione tecno-apocalittica del suo alter ego Casaleggio.

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