lunedì 19 maggio 2014

Un articolo sul quale riflettere.

In galera!

Non avrei mai pensato di far parte di una nicchia di persone, di una nicchia sempre più ristretta del resto, composta essenzialmente di persone di destra. Ma il pezzo di Guido Vitiello oggi sul Foglio e l’articolo di Filippo Facci sul Post, giornalista di una testata che ho per anni considerato un fogliaccio come Libero, convergono su una verità tanto evidente che la loro disillusione non è più nemmeno provocatoria: in Italia il garantismo è morto. “In galera! In galera!” è l’unico valore condiviso sul quale, in quella ottusa cultura politica che è stato l’antiberlusconismo, abbiamo trovato a sinistra un collante comunitario. (Andate a rivedervi le immagini del 2009 del No Berlusconi Day, per vedere qual è stato in tempo recente il milieu di questa anti-educazione politica). Così il garantismo – diventato a sinistra una cultura ultraminoritaria, ancora di più nel Pd azzerato dalla canonizzazione dei pm da Tangentopoli in poi e da vent’anni di deriva persecutoria di giornalisti che hanno trovato erotizzante la mostrificazione degli indagati – viene di fatto associato con la connivenza.
Senza rendersi conto a sinistra che la gestione ideologica, autoassolutoria, da Stato Etico, della giustizia, proprio a partire del Pool di Mani Pulite, è stata funzionale al formarsi del consenso leghista e berlusconiano, oggi replicano l’errore inseguendo Grillo nella battaglia moralizzatrice. Se a scuola fai l’insegnante di educazione civica (come me), hai voglia a spiegare l’habeas corpus, i tre gradi di giudizio, i principi costituzionali, la separazione dei poteri, la funzione educativa del carcere… Potresti semplicemente sostituire questa fatica con il recitare in classe qualche editoriale di Travaglio; non sono pochi i colleghi che lo fanno.
Vitiello e Facci segnano il tempo della resa semplicemente giustapponendo la notizia dell’arresto di Francantonio Genovese con la sentenza che scagiona gli accusati di Rignano Flaminio. Si pongono domande semplici. 1) Era necessario l’arresto di Genovese? C’era il rischio di reiterazione del reato? Di inquinamento delle prove? No. O meglio, chi lo sa. Le carte non si leggono. Si vota di pancia, per strategia, se non per criterio lombrosiano, sperando di mondare la comunità con un dispositivo che – anche di fronte a un probabile colpevole – se ne frega delle garanzie e cerca la purificazione nel sacrificio del capro espiatorio. Il risultato, misero, è che in assenza di una classe politica che sappia creare dei gruppi dirigenti credibili, l’unica forma di selezione e rinnovamento avviene attraverso i tempo ciclici degli arresti. 2) Come si comportavano i giornali nel 2007 al tempo delle prime pagine su presunti pedofili di Rignano Flaminio? Anche qui, inscenavano perfetti riti di persecuzione spacciandole per inchieste. Qualcuno di quei giornalisti ha chiesto scusa? Qualcuno di quei direttori si è preso la responsabilità di quell’accanimento terribile? No.
Ma c’è una storia più controversa per dar conto della quale mi rendo conto mi arrendo a far parte di una minoranza ancora più esigua e della quale non credevo di ritrovarmi: i difensori di Fabrizio Corona. Due giorni fa è arrivata la sentenza della Cassazione che conferma la condanna a quindici anni, dichiarandolo “socialmente pericoloso”, uno tutto da punire perché preso da “frequentazioni criminali e atteggiamenti fastidiosamente inclini alla violazione di ogni regola di civile convivenza”. Quindici anni per Corona: un’assurdità per me. Per me che sosterrei l’abolizionismo, o almeno la battaglia contro l’ergastolo, o almeno l’amnistia, o almeno l’indulto, e che – in questa difesa progressivamente al ribasso dei diritti degli individui – mi ritrovo a difendere Corona. Un cazzaro, arrogante, bullo, epidermicamente odioso… che invece non riesco a non difendere. Insieme, per dire, a quelli che sul suo profilo Facebook commentano: “Se a Corona è stato usato un provvedimento così restrittivo allora che si taglino i genitali ai pedofili!!!!!!!! Mi fa skifo questa italia corrotta”.
Messo in un cul-se-sac, stretto dalla manovra a tenaglia di un esercito di giacobini senza ideali, mi ritroverò – con questo andazzo – in minoranze ad un certo punto talmente esclusive che finirò, come Groucho Marx, a vergognarmi anche di me stesso: e a volerli mandare in galera, i membri di un clubche accetta tra i suoi soci uno come me.

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