La cura sbagliata
L'Italia è in recessione, e quando il Pil non cresce allora il rapporto deficit/Pil si aggrava.Ma la risposta -indotta dalla rigida prassi dell'Eurozona- non possono essere ulteriori tagli alla spesa, specie per un Paese che s'indebita sola per pagare interessi sul debito già esistente. Un commento di Alessandro Volpi
di Alessandro Volpi* - 20 agosto 2014
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I più recenti dati sul prodotto interno lordo italiano, forniti da Istat, sono decisamente pesanti: si è passati, infatti, da un'iniziale previsione di crescita, ipotizzata dal Governo intorno a 0,8 punti percentuali, ad un dato recessivo su base annua vicino allo 0,3.
Certo, si tratta di un dato complessivo, che deve essere disaggregato, ma che mette in evidenza l’estrema difficoltà del Paese a ripartire.
L’economia reale non ha ancora respirato l’aria del cambiamento, e i suoi numeri sono ben più rigidi degli spread o delle volatilità dei listini di Borsa. Tali numeri, nella perdurante e soffocante era del Patto di Stabilità, costringono in maniera davvero paradossale a riaprire il cantiere infinito delle manovre correttive.
Secondo la formula magica di Maastricht, se il Pil non cresce, allora il rapporto deficit/Pil si aggrava, e dunque bisogna mettere mano ai conti pubblici. Si configura ancora una volta un assioma sempre meno comprensibile: il Paese non riesce a tornare a crescere, ma per restare in Europa, nella fatidica Eurozona, si materializza l’esigenza di una correzione del bilancio statale, con nuovi sacrifici. Rincorrere l’Europa risulta così, e sempre di più, un’attività tanto costosa, quanto improba: solo la somma delle manovre correttive -quelle necessarie per “riaggiustare il tiro”- ha totalizzato la cifra monstre di 67 miliardi dal 2011 al 2014. Il premier Matteo Renzi ha cercato di ridurre l’impatto di un eventuale nuovo intervento finanziario facendo appello a una imponente spending review, al fortunato esito del recupero evasione non ancora contabilizzato e alla probabile riduzione degli interessi sul debito pubblico. È uno sforzo certamente lodevole, ma che rischia di risultare tanto obbligato, proprio per il vincolo europeo, quanto inutile.
Di fronte ad un Paese che non cresce si producono nuovi tagli per rispettare l’assurdo limite del deficit sotto la soglia del 3%; una soglia che ormai è priva di senso, perché non serve certo a garantire la solvibilità dei Paesi a moneta unica. L’Italia registra un importante avanzo primario, a dimostrazione che ha entrate superiori alle spese, al netto degli interessi. Soprattutto, ha un avanzo consolidato che certifica la condizione di un Paese dove la ristrutturazione della parte corrente del bilancio pubblico è già avvenuta, e dove il carico fiscale permette un surplus significativo. In maniera paradossale, in tali condizioni il ricorso all’indebitamento serve per rifinanziare il debito esistente e il suo pesante costo.
La ricetta, quindi, non deve essere quella di avviare una nuova manovra che tagli quasi 20 miliardi in due anni, perché un intervento tanto pesante, ammesso che sia realmente possibile, finirebbe per spostare l’effetto dei tagli sull’aumento del carico fiscale, migliorando ancora di più il surplus ma deprimendo l’economia. Tagli alle amministrazioni pubbliche significano invece spesso un aumento di tariffe ed imposte locali, che a finiscono per bloccare ancora consumi e investimenti, vanificando l’effetto di misure benefiche come il bonus di 80 euro. Alla luce di quanto avvenuto negli ultimi anni dovrebbe essere palese che la pubblicazione periodica dei dati sul Pil non può tradursi in una aspra sentenza da cui far discendere manovre correttive destinate a provocare ulteriori effetti recessivi. Mario Draghi, per il ruolo che riveste, non può affrontare tale tema perché la rigidità del Patto di Stabilità è una questione decisamente politica. Davanti ai numeri delle recessione italiana, tuttavia, Draghi un po’ di politica ha provato a farla invocando a gran voce le riforme e soprattutto attribuendo alle medesime riforme una capacità immediata di rilanciare il Paese. Se serve, ha sostenuto Draghi, i Paesi europei devono essere disposti, per fare le riforme, persino a cedere parti della loro sovranità. Non è un monito analogo a quelli espressi nell’estate del 2011, ma certo si tratta di un invito a superare la malattia conclamata, nel caso italiano, della lentezza nelle decisioni e degli infiniti regolamenti attuativi che spesso le vanificano anche quando sono state prese.
L’Italia vive infatti il paradosso di un costante ricorso ai decreti di urgenza che rimangono poi impallati dalla interminabile sequenza di atti necessari per attuarli. Passare dal principio generale alla prassi costituisce il cammino più impervio, reso complesso dal bicameralismo perfetto, dal trionfo del formalismo dell’ingegneria giuridica e dalla celebrazione delle garanzie ad libitum. Superare il vincolo del 3% ed abbattere in maniera rapida la selva delle norme attuative diventano le precondizioni della ripresa. In caso contrario, ogni dato sul Pil diventerà la diagnosi per dar corpo ad una cura sbagliata.
* Università di Pisa
Certo, si tratta di un dato complessivo, che deve essere disaggregato, ma che mette in evidenza l’estrema difficoltà del Paese a ripartire.
L’economia reale non ha ancora respirato l’aria del cambiamento, e i suoi numeri sono ben più rigidi degli spread o delle volatilità dei listini di Borsa. Tali numeri, nella perdurante e soffocante era del Patto di Stabilità, costringono in maniera davvero paradossale a riaprire il cantiere infinito delle manovre correttive.
Secondo la formula magica di Maastricht, se il Pil non cresce, allora il rapporto deficit/Pil si aggrava, e dunque bisogna mettere mano ai conti pubblici. Si configura ancora una volta un assioma sempre meno comprensibile: il Paese non riesce a tornare a crescere, ma per restare in Europa, nella fatidica Eurozona, si materializza l’esigenza di una correzione del bilancio statale, con nuovi sacrifici. Rincorrere l’Europa risulta così, e sempre di più, un’attività tanto costosa, quanto improba: solo la somma delle manovre correttive -quelle necessarie per “riaggiustare il tiro”- ha totalizzato la cifra monstre di 67 miliardi dal 2011 al 2014. Il premier Matteo Renzi ha cercato di ridurre l’impatto di un eventuale nuovo intervento finanziario facendo appello a una imponente spending review, al fortunato esito del recupero evasione non ancora contabilizzato e alla probabile riduzione degli interessi sul debito pubblico. È uno sforzo certamente lodevole, ma che rischia di risultare tanto obbligato, proprio per il vincolo europeo, quanto inutile.
Di fronte ad un Paese che non cresce si producono nuovi tagli per rispettare l’assurdo limite del deficit sotto la soglia del 3%; una soglia che ormai è priva di senso, perché non serve certo a garantire la solvibilità dei Paesi a moneta unica. L’Italia registra un importante avanzo primario, a dimostrazione che ha entrate superiori alle spese, al netto degli interessi. Soprattutto, ha un avanzo consolidato che certifica la condizione di un Paese dove la ristrutturazione della parte corrente del bilancio pubblico è già avvenuta, e dove il carico fiscale permette un surplus significativo. In maniera paradossale, in tali condizioni il ricorso all’indebitamento serve per rifinanziare il debito esistente e il suo pesante costo.
La ricetta, quindi, non deve essere quella di avviare una nuova manovra che tagli quasi 20 miliardi in due anni, perché un intervento tanto pesante, ammesso che sia realmente possibile, finirebbe per spostare l’effetto dei tagli sull’aumento del carico fiscale, migliorando ancora di più il surplus ma deprimendo l’economia. Tagli alle amministrazioni pubbliche significano invece spesso un aumento di tariffe ed imposte locali, che a finiscono per bloccare ancora consumi e investimenti, vanificando l’effetto di misure benefiche come il bonus di 80 euro. Alla luce di quanto avvenuto negli ultimi anni dovrebbe essere palese che la pubblicazione periodica dei dati sul Pil non può tradursi in una aspra sentenza da cui far discendere manovre correttive destinate a provocare ulteriori effetti recessivi. Mario Draghi, per il ruolo che riveste, non può affrontare tale tema perché la rigidità del Patto di Stabilità è una questione decisamente politica. Davanti ai numeri delle recessione italiana, tuttavia, Draghi un po’ di politica ha provato a farla invocando a gran voce le riforme e soprattutto attribuendo alle medesime riforme una capacità immediata di rilanciare il Paese. Se serve, ha sostenuto Draghi, i Paesi europei devono essere disposti, per fare le riforme, persino a cedere parti della loro sovranità. Non è un monito analogo a quelli espressi nell’estate del 2011, ma certo si tratta di un invito a superare la malattia conclamata, nel caso italiano, della lentezza nelle decisioni e degli infiniti regolamenti attuativi che spesso le vanificano anche quando sono state prese.
L’Italia vive infatti il paradosso di un costante ricorso ai decreti di urgenza che rimangono poi impallati dalla interminabile sequenza di atti necessari per attuarli. Passare dal principio generale alla prassi costituisce il cammino più impervio, reso complesso dal bicameralismo perfetto, dal trionfo del formalismo dell’ingegneria giuridica e dalla celebrazione delle garanzie ad libitum. Superare il vincolo del 3% ed abbattere in maniera rapida la selva delle norme attuative diventano le precondizioni della ripresa. In caso contrario, ogni dato sul Pil diventerà la diagnosi per dar corpo ad una cura sbagliata.
* Università di Pisa
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