mercoledì 27 agosto 2014

Riceviamo e pubblichiamo.

Uscire dall’euro o “uscire” da questa BCE?

di Pier Giorgio Gawronski
Economisti di scuole diverse convengono: “la BCE non può fare di più”. I liberisti, perché non capiscono le crisi di domanda, e in ogni caso vogliono deregolamentare la società: per loro l’unica soluzione – fallita l’austerità – sono le riforme strutturali. I keynesiani invece ricordano il classico risultato teorico: in una trappola della liquidità ‘la politica fiscale è efficace, la politica monetaria è impotente’! Trascurano però quattro fatti: (1) una banca centrale può sempre fare danni: come quando nel 2011 la BCE alzò i tassi; (2) in economia aperta si può sempre svalutare; (3) i modelli keynesiani moderni sono più sofisticati di una volta; (4) la politica monetaria non è del tutto separabile dalla politica di bilancio. Perciò anch’essi sottovalutano le responsabilità della Banca Centrale Europea.
Nel 2011 la BCE sostenne che la crisi finanziaria era causata dall’insufficienza di austerità in Italia e Spagna. Non dipendeva da lei; non poteva essere fermata da lei; e i Trattati Europei non le consentivano di intervenire. Ma il 26 Luglio 2012 a Mario Draghi fu sufficiente dichiarare il contrario: “The ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And, believe me, it will be enough” (la BCE è pronta a fare tutto ciò che è necessario per preservare l’euro. E, credetemi, sarà abbastanza). Tra questo “necessario” anche il controllo dei tassi di interesse dei debiti sovrani: “To the extent that the size of the sovereign premia hamper the functioning of the monetary policy transmission channels, they come within our mandate” (nella misura in cui la dimensione dei premi dei titoli sovrani ostacola il funzionamento dei canali di trasmissione della politica monetaria, essi entrano all’interno del nostro mandato).
La comparsa di un ‘lender of last resort’ si dimostrò condizione necessaria e sufficiente a por fine alla crisi finanziaria. (Corollario: le dichiarazioni del 2011 destabilizzarono i titoli pubblici).
La BCE previde allora che il calo degli spread avrebbe rilanciato la crescita già nel 2013, nonostante l’austerità: l’insufficienza della domanda, per la macroeconomia neoclassica, non è mai un problema. Di nuovo si sbagliava. Con la ‘svolta’ dello scorso 5 Giugno anche quest’errore è stato riconosciuto. È stata smentita, in particolare, la tesi secondo la quale ‘la depressione dipende dall’insufficienza di riforme strutturali, perciò la banca centrale non può fare di più’: tesi che confonde i problemi della produttività delle risorse produttive (vincolo alla crescita nel 2005-07) con quelli della disoccupazione delle risorse produttive (vincolo alla crescita dal 2009 in poi). La BCE ha ammesso implicitamente che la produttività non ha nulla a che vedere con i problemi attuali dell’Eurozona: questi hanno origine piuttosto in una prolungata depressione della domanda. La Bce riconosce, inoltre, che si tratta di una situazione meritevole di attenzione: il problema non è ‘di breve termine’, e non si risolve da sé, come era stato sostenuto. La retorica delle riforme strutturali c’è ancora, ma è ormai separata dall’analisi della crisi.
Le conclusioni keynesiane della BCE si basano su recenti stime di OCSE e FMI, che confermano che oggi l’offerta dipende dalla domanda, non viceversa. Fino al 2008, infatti, PIL e Pil Potenziale sono cresciuti assieme: dal 2009 il crollo della domanda ha fatto precipitare il PIL. Il Pil potenziale ha resistito a lungo ma poi, specie dal 2012, ha cominciato a cedere: la carenza di domanda distrugge la capacità produttiva. Nel caso dell’Italia le stime del danno al PIL Potenziale oscillano fra 7% e il 12%, e sono in crescita:i giovani lasciano il paese, l’Università, i disoccupati perdono competenze, le imprese non investono, ecc.
La BCE ha grandi responsabilità per la depressione della domanda. Dal 2012 definisce la politica monetaria ‘accomodante’. Ma nel frattempo l’attivo del suo bilancio è calato di mille miliardi di Euro (mentre l’attivo della Fed è cresciuto di un importo analogo). L’offerta di moneta nell’Eurozona è quasi ferma (M3: +0,7%, M2: +1,7%; USA: +6,5%). Le riserve bancarie depositate presso la Bce sono scese da 800 a 100 miliardi: perciò i tassi negativi introdotti il 5 Giugno per stimolare il credito incideranno su fondi assai limitati. La riduzione dei tassi d’interesse, inoltre, non frena l’aumento dei tassi ‘reali’, spinti verso l’alto dal calo dell’inflazione. In Spagna, ad esempio, i tassi pagati dalle imprese sono scesi in 2 anni dal 5,2% al 4,8% circa, e l’inflazione da 3,5% a 0,2%: perciò i tassi reali sono aumentati di circa il 3%. Andamenti simili, anche in Italia, scoraggiano gli investimenti.
Nel 2009-14 l’obiettivo d’inflazione (2%) è stato mancato: la media (core) è stata 1,3%; oggi è a 0,7%; la BCE prevede che resterà sotto l’1,5% fino a tutto il 2016. Già un anno fa la BCE si disse ‘preoccupata’, ma ha atteso 10 mesi per intervenire, pur avendo tassi più alti di quelli suggeriti dalla ‘Taylor rule’ (la regola d’oro dei banchieri centrali): la differenza era di +1% (Svizzera -1,2%, USA -1,5%, UK -3%, Giappone -4%, Guggenheim Inv.; Morgan Stanley stima divari persino maggiori). Draghi, basandosi su alcuni sondaggi, considera le aspettative d’inflazione “saldamente ancorate al 2%”: ma i mercati obbligazionari (TIPS) incorporano una previsione d’inflazione media nei prossimi dieci anni dell’1,35%.
I fallimenti della BCE hanno destabilizzato molti debitori. In Italia, un punto e mezzo di inflazione aumenta il debito pubblico italiano di due punti percentuali di PIL ogni anno, tre contando gli effetti indiretti. L’impatto su famiglie e imprese (i cui debiti Eurostat stima al 126% del Pil, l’Ocse al 188%) potrebbe essere ancora più forte. Avvantaggiando i creditori sui debitori, la BCE ha frenato sia il ‘deleveraging’ in atto – quindi la domanda interna pubblica e privata -, sia il riequilibrio della competitività con la Germania (domanda estera). Draghi ritiene ora di avere in mano “a significant package”. Per la prima volta la BCE utilizza tutto lo spazio delle politiche convenzionali; e sta varcando la soglia delle politiche non convenzionali. Basterà?
Le politiche monetarie non convenzionali sono essenzialmente di due tipi: la ‘Forward Guidance” e il “Quantitative Easing”. La prima mira ad alzare le aspettative di inflazione per abbassare i tassi reali ‘percepiti’, stimolare il credito, accrescere la propensione all’investimento. Si realizza alzando l’obiettivo d’inflazione per alcuni anni; i Trattati Europei non creano ostacoli giuridici. Ma Draghi si limita ad annunciare “tassi bassi” per un lungo periodo di tempo. A differenza delle altre banche centrali, la BCE continua inoltre a rimandare il Quantitative Easing (l’acquisto di titoli dai mercati finanziari a fronte dell’emissione di nuova moneta) perché non vuole comprare titoli pubblici. Attende perciò lo sviluppo del piccolo mercato Europeo degli Asset Backed Securities (meno rischiosi?): oggi vale 1300 miliardi, in gran parte mutui immobiliari, considerati inadatti. Potrebbe intanto acquistare titoli pubblici americani, inglesi, svizzeri, ecc., svalutando l’Euro en passant… eppur non si muove!
Escluse le grandi manovre macroeconomiche, alla BCE sono rimaste solo misure parziali e mirate. ma difficilmente i TLTRO – i fondi che da settembre saranno messi a disposizione delle banche per prestiti alle PMI – da soli saranno efficaci. Le banche Europee hanno nei bilanci sofferenze per 1020 Mld., a fronte dei quali riserve per soli 570 (Fitch); in Italia, Spagna e Portogallo le sofferenze superano il 10% degli impieghi; in Italia il 14,5% dei crediti alle imprese (Moody’s): perché dovrebbero offrire nuovo credito, oltre a quello già offerto ai clienti migliori, aumentando ancora i rischi in portafoglio? E le imprese perché dovrebbero fare nuovi investimenti se le vendite non ripartono? Tanto più che – ha ricordato Visco – quelle italiane hanno debiti ‘in eccesso’ per 400 Miliardi. Il basso livello dell’inflazione indica piuttosto che l’Eurozona ha bisogno di aumentare l’offerta di Moneta, alzare le aspettative sui prezzi, e più in generale di un nuovo paradigma economico che abbatta il rischio di disoccupazione percepito dalle famiglie.
Le responsabilità della BCE vanno anche oltre la politica monetaria. La BCE ha promosso l’austerity e la deregulation del mercato del lavoro, forte del suo status di prestatore di ultima istanza e dell’assenza di check and balance democratici europei. Non solo: influenza anche la composizione del bilancio pubblico (ad es. in Francia), sostenendo che l’austerità è growth friendly se taglia la spesa invece di alzare le tasse: il contrario di quanto insegna la teoria economica (Teorema di Haavelmo) quando è la domanda che vincola la crescita! Altrove, le banche centrali si coordinano con la politica di bilancio: dichiarandosi senza riserve lender of last resort consentono ai governi di indebitarsi a tassi bassissimi; o comprano titoli pubblici e girano loro gli interessi.
La BCE – pur essendo ‘behind the curve’ – sta evolvendo. Ma la ‘svolta’ del 5 Giugno non deve trarre in inganno: senza una discontinuità politica, non potrà mai diventare una banca centrale normale. La BCE è diventata il centro ideologico dell’Eurozona: essendo stata monopolizzata dalla scuola neoclassica, ha grandi difficoltà a capire e applicare le politiche keynesiane. Grazie all’immagine di organo ‘tecnico’ e super partes, fornisce copertura ideologica alla Commissione Europea, alla Germania, e agli interessi dei rentiers (che beneficiano degli alti tassi reali). Tollerare alti tassi di disoccupazione è una scelta, non un accidente, che implica la riduzione dei salari reali rispetto ai profitti in tutta l’Eurozona. L’assetto istituzionale è strutturalmente carente: l’interpretazione dei Trattati non è affidata ad un organo terzo (Parlamento Europeo); né vi è controllo sulla performance dei banchieri centrali. Poiché questi sono istintivamente avversi all’inflazione più che alla disoccupazione, l’interpretazione delle norme ne viene sistematicamente distorta. Ma è possibile sottoporre la BCE al controllo democratico senza che vi sia dietro uno Stato Europeo? E in uno stato europeo, un paradigma diverso dall’attuale sarebbe possibile?
Molti chiedono l’abbandono dell’Euro. Ma forse basterebbe uscire da questa BCE. Perché con un’inflazione europea al 3% anche la periferia potrebbe recuperare 3-4% di competitività all’anno, rendendo la svalutazione meno urgente. Il vero problema è l’assenza di politiche espansive. Purtroppo, i nostri commentatori continuano – quasi all’unanimità – ad incensare la BCE in modo superficiale ed acritico: così diventa politicamente impossibile uscire dal paradigma vigente. Alla BCE è stato attribuito informalmente un ruolo politico improprio di ‘arbitro’ dei conflitti monetari fra i paesi membri: perciò un eventuale tentativo di cambiarne gli assetti sarebbe di una delicatezza estrema. Ma se è vero, come sostiene Zingales (Sole24ore del 27/7) che la BCE è preda degl’interessi politici tedeschi, a maggior ragione un vero negoziato (discreto ma di alto livello) sull’Euro non può che mettere al centro la BCE.

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