Il mistero della guerra di Libia che ormai è scoppiata anche in casa nostra
LUNEDÌ, 25 AGOSTO 2014
Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Sul confine meridionale dell’Italia è in corso un conflitto armato avvolto nel mistero, di cui registriamo le migliaia di morti in mare e le decine di migliaia di profughi monopolizzati da mafie sempre più potenti: è la guerra di Libia, i cui effetti irrompono sotto forma di emergenza umanitaria, energetica e militare nella nostra politica interna. Ci siamo dentro fino al collo ma continuiamo a far finta di nulla perché ignoriamo perfino chi siano le milizie in campo e quale sia l’intento dei loro burattinai. L’enigma Libia è la propaggine ovest, per noi la più pericolosa perché limitrofa all’Europa, del conflitto che insanguina Iraq e Siria. Ma nonostante lambisca le coste italiane e rovesci i suoi cadaveri nel Canale di Sicilia, la guerra di Libia ci risulta ancor meno decifrabile dell’offensiva scatenata dal sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi .
E’ mai possibile tutta questa ignoranza? Eppure la Libia è un paese che conosciamo benissimo. Tuttora vi operano centinaia di manager, ingegneri e tecnici italiani. Comprendiamo la delicatezza della loro posizione, i pericoli che corrono, gli interessi in ballo, ma siamo sicuri che l’opacità con cui si proteggono alcuni colossi della nostra economia insediati laggiù, o partecipati da azionariato libico, non finisca per nuocere a una strategia di salvaguardia nazionale e europea?
Ufficialmente non sappiamo neppure se davvero, da sabato scorso, l’aeroporto internazionale di Tripoli sia caduto, come pare, nelle mani di milizie islamiste reclutate nella regione di Zentan. Le quali a loro volta sarebbero state oggetto di bombardamenti aerei i cui autori restano ignoti. Mentre il parlamento libico, o ciò che ne resta, si riunisce lontano dalla capitale, a ridosso del confine egiziano. E l’esercito del generale Haftar, un ex fedelissimo di Gheddafi, ultima pedina “laica” (si fa per dire) sostenuta dagli occidentali per contrastare i clan islamisti, sembra ridotto all’impotenza.
Non fingerò di saper distinguere fra le diverse forze in campo, dagli affaristi di Misurata ai miliziani che a Bengasi il 1 agosto hanno proclamato la nascita di un Emirato sul modello dello Stato islamico. In apparenza ciascuno dei clan si concentra in una lotta di mera sopravvivenza, usufruendo di armi e finanziamenti che come al solito giungono, insieme ai propagandisti incendiari, dai ricchissimi paesi del Golfo. Cioè da sovrani assisi su bolle speculative pericolanti che investono nelle nostre economie e al tempo stesso ci minacciano col terrorismo.
E’ un fatto, però, che tali milizie non si limitano a combattere fra loro. Prosperano disponendo di risorse cospicue e –grazie alla dissoluzione dello Stato libico- controllano le coste su cui hanno scatenato il triste commercio degli scafisti: le partenze delle carrette del mare nel 2014 sono quintuplicate, trasportando più di centomila persone. Indifferenti al proporzionale incremento dei naufragi che, secondo l’agenzia Habeshia, in otto mesi avrebbero già causato duemila morti. I profitti del traffico di migranti verso l’Italia, spogliati di ogni avere nel tragitto fra il deserto e il Canale di Sicilia, probabilmente rimpinguano le stesse organizzazioni criminali che controllano anche il commercio delle armi e delle materie prime dell’energia. La nostra inerzia li trasforma in potentati eversivi pronti a ricattarci sfruttando il controllo territoriale concessogli.
Non dimentichiamo che lo stesso tratto di Mediterraneo su cui spadroneggia la nuova pirateria tenendo in ostaggio i disperati in cerca di salvezza è percorso anche dalle condotte di Greenstream, il più lungo gasdotto sottomarino mai realizzato, fra Mellitah e Gela.
Risulta così evidente che la doverosa prosecuzione dell’opera di salvataggio “Mare Nostrum”, per la quale l’Italia rivendica con ragione una partecipazione comune di tutta l’Unione europea, rappresenta solo un tassello, per quanto essenziale, di una strategia ancora tutta da elaborare. Per debellare le mafie che monopolizzano il flusso dei rifugiati, Luigi Manconi e la sindaca di Lampedusa, Giusi Nicolini considerano imprescindibile stabilire presìdi di registrazione e smistamento gestiti nei paesi rivieraschi direttamente dalle Nazioni Unite e dall’Ue. Impensabile attuare un simile piano di smantellamento delle mafie dei trafficanti senza esercitare un minimo di controllo anche sulle coste libiche, cioè in quella che oggi è una zona di guerra.
Si tratta di un’operazione rischiosa, piena di incognite in quel ginepraio. Ma ogni giorno d’attesa peggiora la situazione. La prudenza rischia di trasformarsi in un attendismo che non ci possiamo permettere perché la guerra di Libia ci è già entrata in casa.
Dal governo è lecito attendersi innanzitutto una relazione veritiera sul dramma che si sta consumando ai nostri confini. Gli stessi amministratori delegati delle imprese italiane che intrecciano relazioni d’affari con la Libia, sotto forma di rifornimento energetico (l’Eni importa da lì circa il 15% del nostro fabbisogno di gas e petrolio), di esportazione di armi (Finmeccanica), di grandi infrastrutture (Salini Impregilo) o di partecipazioni azionarie (Unicredit), debbono contribuire a un quadro veritiero delle condizioni in cui operano.
Nessuno può trincerarsi dietro al rimpianto dell’epoca in cui trafficavamo con un dittatore, il colonnello Gheddafi, rimasto al potere per più di quarant’anni. La sua caduta era inevitabile, e l’illusione di contenere l’incendio della sponda sud del Mediterraneo ricorrendo al terrore dei rais si è rivelata non solo cinica, ma perdente. Vero è che l’intervento militare del 2011, affrettato dissennatamente da Sarkozy, si è tradotto in un disastro. Ma questo non ci esime dal dirimere la matassa libica. Non solo perché i naufragi con centinaia di vittime innocenti pesano anche sulle nostre coscienze e favoriscono una rotta di collisione fra due continenti separati solo da un ristretto braccio di mare. Ma anche per una banale constatazione: se non sarà l’Italia, direttamente coinvolta, a prendere subito l’iniziativa e a trascinare nell’azione il resto d’Europa, nessuno lo farà al posto nostro. Tripoli ci è molto, molto più vicina di Bagdad.
Sul confine meridionale dell’Italia è in corso un conflitto armato avvolto nel mistero, di cui registriamo le migliaia di morti in mare e le decine di migliaia di profughi monopolizzati da mafie sempre più potenti: è la guerra di Libia, i cui effetti irrompono sotto forma di emergenza umanitaria, energetica e militare nella nostra politica interna. Ci siamo dentro fino al collo ma continuiamo a far finta di nulla perché ignoriamo perfino chi siano le milizie in campo e quale sia l’intento dei loro burattinai. L’enigma Libia è la propaggine ovest, per noi la più pericolosa perché limitrofa all’Europa, del conflitto che insanguina Iraq e Siria. Ma nonostante lambisca le coste italiane e rovesci i suoi cadaveri nel Canale di Sicilia, la guerra di Libia ci risulta ancor meno decifrabile dell’offensiva scatenata dal sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi .
E’ mai possibile tutta questa ignoranza? Eppure la Libia è un paese che conosciamo benissimo. Tuttora vi operano centinaia di manager, ingegneri e tecnici italiani. Comprendiamo la delicatezza della loro posizione, i pericoli che corrono, gli interessi in ballo, ma siamo sicuri che l’opacità con cui si proteggono alcuni colossi della nostra economia insediati laggiù, o partecipati da azionariato libico, non finisca per nuocere a una strategia di salvaguardia nazionale e europea?
Ufficialmente non sappiamo neppure se davvero, da sabato scorso, l’aeroporto internazionale di Tripoli sia caduto, come pare, nelle mani di milizie islamiste reclutate nella regione di Zentan. Le quali a loro volta sarebbero state oggetto di bombardamenti aerei i cui autori restano ignoti. Mentre il parlamento libico, o ciò che ne resta, si riunisce lontano dalla capitale, a ridosso del confine egiziano. E l’esercito del generale Haftar, un ex fedelissimo di Gheddafi, ultima pedina “laica” (si fa per dire) sostenuta dagli occidentali per contrastare i clan islamisti, sembra ridotto all’impotenza.
Non fingerò di saper distinguere fra le diverse forze in campo, dagli affaristi di Misurata ai miliziani che a Bengasi il 1 agosto hanno proclamato la nascita di un Emirato sul modello dello Stato islamico. In apparenza ciascuno dei clan si concentra in una lotta di mera sopravvivenza, usufruendo di armi e finanziamenti che come al solito giungono, insieme ai propagandisti incendiari, dai ricchissimi paesi del Golfo. Cioè da sovrani assisi su bolle speculative pericolanti che investono nelle nostre economie e al tempo stesso ci minacciano col terrorismo.
E’ un fatto, però, che tali milizie non si limitano a combattere fra loro. Prosperano disponendo di risorse cospicue e –grazie alla dissoluzione dello Stato libico- controllano le coste su cui hanno scatenato il triste commercio degli scafisti: le partenze delle carrette del mare nel 2014 sono quintuplicate, trasportando più di centomila persone. Indifferenti al proporzionale incremento dei naufragi che, secondo l’agenzia Habeshia, in otto mesi avrebbero già causato duemila morti. I profitti del traffico di migranti verso l’Italia, spogliati di ogni avere nel tragitto fra il deserto e il Canale di Sicilia, probabilmente rimpinguano le stesse organizzazioni criminali che controllano anche il commercio delle armi e delle materie prime dell’energia. La nostra inerzia li trasforma in potentati eversivi pronti a ricattarci sfruttando il controllo territoriale concessogli.
Non dimentichiamo che lo stesso tratto di Mediterraneo su cui spadroneggia la nuova pirateria tenendo in ostaggio i disperati in cerca di salvezza è percorso anche dalle condotte di Greenstream, il più lungo gasdotto sottomarino mai realizzato, fra Mellitah e Gela.
Risulta così evidente che la doverosa prosecuzione dell’opera di salvataggio “Mare Nostrum”, per la quale l’Italia rivendica con ragione una partecipazione comune di tutta l’Unione europea, rappresenta solo un tassello, per quanto essenziale, di una strategia ancora tutta da elaborare. Per debellare le mafie che monopolizzano il flusso dei rifugiati, Luigi Manconi e la sindaca di Lampedusa, Giusi Nicolini considerano imprescindibile stabilire presìdi di registrazione e smistamento gestiti nei paesi rivieraschi direttamente dalle Nazioni Unite e dall’Ue. Impensabile attuare un simile piano di smantellamento delle mafie dei trafficanti senza esercitare un minimo di controllo anche sulle coste libiche, cioè in quella che oggi è una zona di guerra.
Si tratta di un’operazione rischiosa, piena di incognite in quel ginepraio. Ma ogni giorno d’attesa peggiora la situazione. La prudenza rischia di trasformarsi in un attendismo che non ci possiamo permettere perché la guerra di Libia ci è già entrata in casa.
Dal governo è lecito attendersi innanzitutto una relazione veritiera sul dramma che si sta consumando ai nostri confini. Gli stessi amministratori delegati delle imprese italiane che intrecciano relazioni d’affari con la Libia, sotto forma di rifornimento energetico (l’Eni importa da lì circa il 15% del nostro fabbisogno di gas e petrolio), di esportazione di armi (Finmeccanica), di grandi infrastrutture (Salini Impregilo) o di partecipazioni azionarie (Unicredit), debbono contribuire a un quadro veritiero delle condizioni in cui operano.
Nessuno può trincerarsi dietro al rimpianto dell’epoca in cui trafficavamo con un dittatore, il colonnello Gheddafi, rimasto al potere per più di quarant’anni. La sua caduta era inevitabile, e l’illusione di contenere l’incendio della sponda sud del Mediterraneo ricorrendo al terrore dei rais si è rivelata non solo cinica, ma perdente. Vero è che l’intervento militare del 2011, affrettato dissennatamente da Sarkozy, si è tradotto in un disastro. Ma questo non ci esime dal dirimere la matassa libica. Non solo perché i naufragi con centinaia di vittime innocenti pesano anche sulle nostre coscienze e favoriscono una rotta di collisione fra due continenti separati solo da un ristretto braccio di mare. Ma anche per una banale constatazione: se non sarà l’Italia, direttamente coinvolta, a prendere subito l’iniziativa e a trascinare nell’azione il resto d’Europa, nessuno lo farà al posto nostro. Tripoli ci è molto, molto più vicina di Bagdad.
Nessun commento:
Posta un commento