L’Argentina stretta tra fondi avvoltoio e svalutazione
di Andrés Lazzarini* e Margarita Olivera** da Economiaepolitica.it
Mondo assurdo questo in cui abitiamo. Un Paese onora il suo debito estero, ma non gli è consentito di effettuare i relativi pagamenti. Questa è la situazione che affronta l’Argentina dal 1 agosto. Per decisione del giudice Thomas Griesa di New York, i 539 milioni di dollari che l’Argentina aveva depositato dal 30 giugno alla Bank of New York (BNY Mellon) per pagare alcune scadenze del debito ristrutturato nel 2005 e nel 2010 giacciono lì, bloccati. L’Argentina ha pagato, ma vi è comunque un rischio default.
Eppure non è un default come quello del 2001-2002, bensì una situazione particolare, che alcune agenzie di rating, come Standard & Poor’s, chiamano “default tecnico”. Non è che l’economia argentina stia attraversando una forte crisi, o sia sull’orlo del collasso finanziario al punto da dover dichiarare la sospensione dei pagamenti. Tuttavia, si è creata una situazione finanziaria anomala per l’Argentina, i cui effetti sull’economia reale potrebbero mettere a rischio il processo di crescita e sviluppo iniziato nel 2003. In effetti, questa situazione si è creata dopo l’assurda sentenza del giudice Griesa, il quale, agendo su richiesta di un gruppo minoritario di holdouts (coloro che non hanno accettato la ristrutturazione, ndr), rischia di mettere a repentaglio l’intera ristrutturazione del debito. La sentenza impone all’Argentina di pagare il 100 per cento dei valori nominali dei titoli più gli interessi ad un gruppo ridotto di speculatori, rappresentati dalla NML Co., che non sono entrati nelle ristrutturazioni del 2005 e 2010 (è importante sottolineare che questi fondi, chiamati informalmente “avvoltoio”, non sono i proprietari originali dei titoli, ma coloro che li comprarono a prezzi stracciati dopo la dichiarazione di default nel 2002). Nel rendere esecutiva la sentenza, il giudice Griesa ha determinato che, finché non sarà pagato agli holdouts il totale di 1,6 miliardi di dollari, resteranno bloccati i fondi che l’Argentina ha depositato alla BNY Mellon per pagare, in base alla legislazione americana, gli holdins (coloro che hanno accettato le ristrutturazioni, ndr). Finora, la posizione degli holdouts è stata intransigente: non sono disposti ad accettare la proposta di ristrutturazione, con condizioni simili a quelle del 2005-2010, fatta dal governo argentino, cosa che comunque darebbe loro un tasso di profitto netto del 150%.
Ma l’Argentina non può fare una proposta migliore. Pagare agli holdouts l’ammontare preteso costituirebbe un grosso passo indietro nel processo di disindebitamento estero. Infatti, tutti i fondi ristrutturati (holdins) potrebbero appellarsi alla clausola RUFO (Right upon future offers), secondo cui, se il governo argentino accetta di rinegoziare il debito a condizioni migliori di quelle offerte in precedenza, anch’essi avrebbero automaticamente diritto di esigere lo stesso trattamento, ossia il 100 % del debito originale. In questo caso si stima che la somma da pagare salirebbe a più di 200 miliardi di dollari (che rappresenta un terzo del PIL 2013, secondo i dati della World Bank). Bisogna sottolineare che la clausola RUFO scade l’1 gennaio del 2015 perciò, se i fondi avvoltoio accettassero di posporre le negoziazioni fino al 31 dicembre di 2014, l’Argentina avrebbe maggiori possibilità di offrire soluzioni alternative. Dunque, sembrerebbe che tanto la decisione di Griesa quanto la posizione dura degli holdouts siano guidate più da obiettivi politici che dalla pura ricerca di profitto.
Tuttavia, questa situazione eccezionale non fa altro che generare una grande incertezza sull’avvenire dell’economia argentina. Il “default tecnico” condiziona la possibilità di accedere nuovamente ai mercati finanziari internazionali, mettendo a rischio la crescita e il processo di sviluppo del Paese. L’Argentina è esclusa dal 2002 dai mercati finanziari internazionali, ma nei primi anni dopo il default questo non ha generato grosse difficoltà nei conti con l’estero grazie al forte aumento delle esportazioni (principalmente di materie prime, ma anche di prodotti agroindustriali e automobili). Con la ripresa dell’economia, dal 2003, è iniziato un processo di industrializzazione orientato al mercato interno che, insieme alle politiche economiche espansive, ha consolidato la crescita economica e la creazione d’impiego. Con lo sviluppo del settore industriale (automobili e industria leggera, come vestiti, calzature, ecc.) le pressioni sulle importazioni sono fortemente cresciute data la dipendenza da beni capitali, materie prime e prodotti energetici provenienti dall’estero. Infatti, se analizziamo il comportamento dei singoli componenti delle importazioni negli ultimi dieci anni, possiamo osservare che, negli anni recenti, le importazioni dei prodotti energetici sono cresciute sopra la media (tabella 2).
Inoltre, l’industria produce essenzialmente per il mercato domestico, non generando dollari ma consumandone in quantità. In più, con il miglioramento generale del potere d’acquisto, le importazioni dei beni di consumo (smart phones, tablets, ecc.) e, soprattutto, di automobili, sono aumentate vertiginosamente, generando anch’esse forte necessità di valuta estera.
Negli ultimi dieci anni, sebbene le esportazioni siano aumentate continuamente (tranne che negli anni 2009 e 2012, di forte crisi economica regionale, vedere tabella 1), il loro tasso di crescita è stato sempre inferiore a quello delle importazioni. Infatti, il saldo positivo della bilancia commerciale negli ultimi anni si è ridotto notevolmente, e le esportazioni nette non bastano più per coprire il pagamento degli interessi sul debito estero, tanto che il saldo di conto corrente, dal 2011, è tornato ad essere negativo (in media del 2 % del PIL).
Senza l’accesso al credito internazionale, si rischia quindi una forte crisi della bilancia dei pagamenti, con i corollari di: svalutazione, caduta dell’attività, perdita del potere di acquisto dei lavoratori, disoccupazione, ecc. Ossia: con la svalutazione si tenterebbe di aggiustare la bilancia commerciale attraverso gli effetti negativi sulle importazioni provocati dal minore tasso d’attività industriale e dalla recessione. Tutto ciò sta già cominciando ad accadere, perciò le prospettive future, a meno di un ritorno sui mercati finanziari internazionali, non appaiono rosee. La politica d’indebitamento estero seguita in Argentina durante gli anni del neoliberismo trionfante (dal 1976 al 2002), che ha portato al collasso dell’economia nel 2002, ha segnato fortemente il governo attuale e dunque ha condizionato le sue decisioni di utilizzare il debito come strumento per rilanciare il processo d’industrializzazione sostitutiva e rilassare il vincolo estero. Purtroppo, il governo argentino non ha avuto la prontezza di andare a contrattare coi mercati finanziari internazionali la questione del rientro dell’Argentina in momenti, per esempio nel corso del 2011, quando l’attuale governo vinse le elezioni con il 54 % dei voti. In quel frangente la situazione economica era ancora di forte crescita, ma si poteva prevedere che il saldo del conto corrente avrebbe resistito poco alle pressioni dovute alle importazioni senza un salto di qualità dell’industrializzazione sostitutiva. E la possibilità d’indebitamento sui mercati finanziari internazionali sarebbe stato uno strumento utile a tale fine. Benché il governo si sia infine accordato, nel 2014, con il “club di Parigi” per rientrare sui mercati finanziari internazionali, purtroppo i fantasmi dei debiti esteri del passato hanno prevalso sulla sua analisi economica.
Ora si sta provando a correre ai ripari, ma con la situazione anomala creata dai fondi avvoltoio e dal giudice Griesa sommata ad un presente di recessione le prospettive economiche argentine sono grigie. Ciò che conta è risolvere il problema con i fondi avvoltoio, senza cadere nel loro ricatto, riaffermando il modello di crescita e sviluppo con inclusione sociale. Bisogna dunque utilizzare tutti gli strumenti disponibili per evitare ulteriori svalutazioni, che approfondirebbero la recessione economica in atto.
*Professore di Sviluppo Economico, Universidad Nacional de San Martin, Argentina.
**Professoressa di Economia Internazionale, Universidad Nacional de San Martin, Argentina.
Gli autori ringraziano il dott. Hervé Baron per la revisione linguistica.
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