giovedì 28 agosto 2014

Questo vuol dire che dobbiamo boicottare Marchionne?

Burger King scappa dalle tasse e scoppia la rivolta

In Canada per pagare meno tasse: Obama parla di “disertori”, i conservatori lanciano il boicottaggio
(ROBYN BECK/AFP/Getty Images)

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La notizia, nell’aria da qualche giorno, aveva già fatto il giro del mondo, riuscendo persino a trovare discreto spazio sui media italiani. Ora è ufficiale: il colosso americano del fast-food Burger King, noto in tutto il globo, ha annunciato l’acquisizione della catena canadese di caffetterie Tim Hortons per circa 11,4 miliardi di dollari (12,5 miliardi di dollari canadesi). L’operazione darà vita a una nuova compagnia nel business della ristorazione, la terza più grande dell’America settentrionale e, tra le altre cose, sposterà il quartier generale di Burger King Worldwide Inc., che oggi ha base a Miami, in Florida, nel territorio del Canada. Un affare di dimensioni planetarie, alla cui riuscita – riporta Yahoo Finance – ha contribuito anche in maniera determinante anche il magnate Warren Buffett, attraverso la sua Berkshire Hathaway, con un investimento di 3 miliardi di dollari. Una mossa senza precedenti che, oltre ad avere ripercussioni sul business della ristorazione a stelle e strisce – e non solo – ha già scatenato un acceso dibattito politico all’interno degli Stati Uniti, che difficilmente si placherà nel breve periodo.
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Un locale della catena Tim Hortons a New York (Spencer Platt/Getty Images)
Prendendo in prestito le parole di Michael Stipe e dei R.E.M., questa potrebbe essere la fine del mondo del mercato dei fast food, per come lo abbiamo conosciuto finora. Burger King, catena che opera dal ’53-’54 e che rappresenta – se non al pari di McDonald’s e Starbucks, poco meno – uno dei marchi americani più conosciuti e riconoscibili in tutto il pianeta, conta oltre 14 mila locali in quasi 80 Paesi sparsi per i cinque continenti; il suo fatturato annuo globale è di circa 16.3 miliardi di dollari, che equivale alla quinta posizione generale nella classifica del settore, dopo McDonald’s (89,1 miliardi), KFC-Pizza Hut-Taco Bell (42,5 miliardi), Subway (19,6 miliardi) e Starbucks (19 miliardi).
Dall’altra parte, Tim Hortons, specializzata in caffè e ciambelle, nata nel 1964 a Hamilton, Ontario, per volere del giocatore professionista di hockey Tim Horton e del socio Ron Joyce, è la principale catena di fast food in Canada, prima ancora di McDonald’s, e può vantare poco meno di cinquemila locali disseminati sul suolo nordamericano e nell’area del Golfo Persico; il suo fatturato annuo globale si aggira attorno ai 6,7 miliardi di dollari, che lo pone in settima posizione generale, dopo Domino’s Pizza (8 miliardi) e ben prima di DQ Orange Julius (3.8 miliardi). La nuova compagnia, frutto dell’acquisizione di Jimmy Hortons da parte di Burger King, disporrà quindi di oltre 18mila ristoranti in più di cento stati in tutto il mondo, con entrate previste di circa 23 miliardi di dollari. In poche parole, dal matrimonio tra le due società, nasce la terza più grande e potente catena di fast food sulla terra.
Una donna siede solitaria ai tavoli del McDonald’s di piazza Pushkin a Mosca, il primo a essere aperto in Russia, nel 1990 (ALEXANDER NEMENOV/AFP/Getty Images)

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La sfida, ovviamente, è diretta al colosso di McDonald’s. E, in particolare, volge lo sguardo al di fuori dei confini statunitensi e canadesi, e riguarda l’espansione globale, dove la catena degli archi dorati conta più di 35mila location, a dispetto delle 14mila di Burger King. Inoltre, permette alla catena di fast food americana di dotarsi di un conosciuto marchio nel mercato del caffè – e Tim Hortons, in Canada, è un vero prodotto di culto - per poter ampliare la propria offerta anche alla colazione e ritagliarsi uno spazio più consistente all’interno delle cosiddette “coffee wars”, le guerre del caffé il cui scettro rimane saldamente nelle mani del gigante delle caffetterie Starbucks, insidiato dalla concorrenza di McCafé e Dunkin’ Donuts. Senza dimenticare, naturalmente, la concreta opportunità, per Burger King, di poter entrare a gamba tesa anche nel mercato alimentare, attraverso la distribuzione e la vendita di caffè targato Tim Hortons in tutti i supermercati del Nord America.
Un McCafé a Sydney (AFP PHOTO/Greg WOOD)

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Ma l’impatto sul mercato della ristorazione americano e mondiale, o le ripercussioni sulla concorrenza, non sono gli unici aspetti di rilievo dell’affare portato a termine. Anzi, ultimo ma non in ordine di importanza, c’è un ulteriore fattore che, almeno a livello politico e mediatico, sta catturando la maggior parte dell’attenzione: la decisione, da parte dei vertici di Burger King, di spostare più a nord il quartier generale dell’azienda, dalle calde temperature di Miami al ben più freddo Canada. Un trasferimento che, climaticamente eccepibile, troverebbe le sue ragioni sotto il profilo fiscale, perché comporterebbe per l’azienda il versamento di importi notevolmente inferiori in termini di “corporate tax”, ovvero imposta sul reddito delle società, che negli States riguarda anche i profitti registrati all’estero. Si tratta, dunque, di una cosiddetta “tax inversion” (o “corporate inversion”): lo spostamento della sede di una società in una nazione dove le tasse sono minori (o addirittura quasi inesistenti, nei casi dei paradisi fiscali), pur mantenendo la sua principale attività nel Paese di origine.
Insomma, cambiare sede per pagare meno tasse. Uno stratagemma già sfruttato da numerose aziende nel recente passato (almeno 21 compagnie Usa dall’inizio del 2012, secondo Bloomberg News), che mai prima d’ora era stato utilizzato da grandi nomi o da marchi conosciuti in tutti i fusi orari. Burger King, vera e propria istituzione a livello mondiale, è il primo “big” a ricorrere a questa soluzione per aggirare la pressione fiscale Usa, e la decisione – che potrebbe rappresentare un precedente impossibile da ignorare, anche in relazione alle future mosse del gigante delle banane Chiquita e della casa farmaceutica Mylan, decise a emularla – sta facendo discutere non poco.

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La “corporate tax” americana è del 35%, quella canadese è di circa il 15 per cento. Difficile non intravvedere un netto vantaggio, nella scelta di Burger King. Il Governo Usa, comprensibilmente, non approva l’espediente della “tax inversion”, e non ne fa mistero. Anzi, lo stesso presidente Usa Barack Obama, in un suo recente intervento pubblico, ha candidamente bollato come “disertori” coloro che non hanno escluso di intraprendere tale percorso, quasi a indicare l’atteggiamento come non patriottico, o apertamente anti-americano, promettendo azioni per limitare il fenomeno, con o senza l’approvazione del Congresso. Parole forti, quelle del Presidente, che però, alle orecchie degli addetti ai lavori di Wall Street, suonano come un tentativo di nascondere i difetti del sistema fiscale degli Stati Uniti, che sembra rendere più complicata, anziché più semplice, l’esistenza alle aziende americane che vogliono essere competitive sul piano globale. E comunque, a dispetto della dura presa di posizione della Casa Bianca, solo qualche settimana dopo è arrivata l’ufficialità della fusione tra Burger King e Tim Hortons, quasi un gesto di sfida nei riguardi di Obama e del suo Dipartimento del Tesoro.
L’inquilino della Casa Bianca tuttavia, non è l’unico ad aver accolto in malo modo la notizia. Il popolare presentatore televisivo dalle simpatie conservatrici Joe Scarborough e la sua sparring partner Mika Brzezinski, conduttori del seguitissimo programma quotidiano “Morning Joe” sulla Msnbc, hanno già affermato, in diretta tv, la loro intenzione di non recarsi più a mangiare da Burger King. Un vero e proprio invito alla diserzione degli Whopper, lanciato da un palcoscenico di richiamo nazionale, che non è rimasto inascoltato. Il Senatore Sherrod Brown, Democratico dell’Ohio, ha invitato gli americani a boicottare la catena di ristoranti, chiedendo ai suoi clienti, d’ora in poi, di rivolgersi altrove, e più precisamente da Wendy’s e White Castle, due fast food che, non a caso, hanno i loro natali a Columbus, Ohio e che, a detta del Senatore, “non hanno abbandonato il proprio Paese o i propri clienti”. Critico, ma senza istigare al boicottaggio, il suo collega Bernie Sanders, indipendente del Vermont, secondo il quale la scelta di Burger King sarebbe un segno di “disprezzo verso l’americano medio e verso gli Stati Uniti d’America”. “Queste compagnie non possono sostenere di essere americane quando ne traggono beneficio, ma correre all’estero quando si tratta di assumere personale o pagare le tasse. Non è accettabile”, ha tuonato Sanders, intervistato dall’Huffington Post.
Posizioni, quelle di Scarborough e dei due Senatori, che sembrano essere condivise da molti, come confermato dalla miriade di messaggi di disapprovazione lasciati da utenti comuni, sulla pagina Facebook di Burger King, accusato di “avidità aziendale”, unitamente a numerose altre imputazioni di anti-americanismo. Una campagna denigratoria simile a quella di cui è stato oggetto il gigante farmaceutico Walgreen, inizialmente intenzionato a effettuare una “tax inversion” con trasferimento in Svizzera, tornato sui suoi passi dopo forti pressioni da parte di politici e utenti, e dopo una minaccia di boicottaggio firmata da 300 mila persone. Roger Hickey, a capo del gruppo Campaign for America’s Future che ha fatto fare marcia indietro a Walgreen, ha già annunciato una nuova crociata, questa volta contro Burger King. A questo, si aggiunge una petizione già partita su MoveOn.org e anaoghe iniziative da parte del gruppo di sinistra “Occupy Democrats”.
(foto da Flick - Thomas Hawk)

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Al di là delle reazioni indignate e del tutto trasversali e bipartisan, la decisione di spostare il quartier generale più a nord, e di puntare sulle basse temperature (e imposte) canadesi, rappresenta un importantissimo segnale d’allarme per le istituzioni Usa, impossibile da trascurare, che prende di mira il modo in cui è strutturato il sistema delle imposte e, in particolare, il funzionamento della “corporate tax”. Non è un caso se, sulle pagine di alcune delle più importanti testate – non solo finanziarie – si stiano moltiplicando gli editoriali che invitano a una profonda riflessione sulla imposta sul reddito delle società. E c’è persino chi, come N. Gregory Mankiw, professore di economia a Harvard, ha proposto, dalle pagine del New York Times, di abrogarla completamente. “Demonizzare le compagnie e i loro dirigenti è una risposta sbagliata”, ha scritto il docente. “Il capo di un’azienda che organizza una fusione che aumenta l’utile al netto delle imposte della società fa il suo lavoro”. Anzi, “rinunciare a tale possibilità significherebbe venire meno in qualità di fiduciario responsabile per gli azionisti”. Dunque, “se le ’tax inversion’ sono un problema, la colpa non è dei capi d’azienda che fanno il meglio nel loro lavoro, ma piuttosto dei legislatori che hanno fallito nel fare altrettanto”. Sulla stessa linea d’onda, l’autorevole Forbes, che titola “La inversion non è anti patriottica” e che, criticando la “corporate tax” a stelle e strisce, la più alta dei paesi OCSE, chiede una riforma della legge in materia. Simile posizione per il Senatore Orrin Hatch, Repubblicano dello Utah: “Il perseguimento di una tax inversion da parte di Burger King non fa che evidenziare ulteriormente l’arcana, anti-competitiva natura del sistema tributario americano”.
Tra una minaccia di boicottaggio e l’altra, negli Stati Uniti il dibattito si fa sempre più incandescente. Nel mese di settembre, Camera e Senato Usa torneranno pienamente operativi, e la fusione tra Burger King e Tim Hortons potrebbe provocare una brusca accelerata nell’azione legislativa, in particolare per quanto concerne la pratica della “tax inversion”. “Burger King è un nome conosciuto da tutti, e ciò concentrerà l’attenzione del pubblico su questo tema come nessuna altra tax inversion in precedenza”, ha affermato al Wall Street Journal il deputato Chris Van Hollen, Democratico di punta all’interno della Commissione Budget della Camera dei Rappresentanti. Probabile, dunque, che i Democrats, se non addirittura lo stesso Obama e il Dipartimento del Tesoro, si facciano a breve promotori di provvedimenti volti a contrastare e ridurre il trasferimento delle sedi di altre compagnie Usa al di fuori dei confini, mentre i Repubblicani - preoccupati che leggi più restrittive di quelle attuali possano avere l’effetto opposto di quello desiderato, dunque di far “fuggire” ancora più aziende e investimenti - sembrerebbero più propensi a una revisione generale del sistema fiscale, al fine di rendere il territorio statunitense più appetibile e attraente per le imprese. Una questione di non semplice soluzione. A pochi mesi dal fondamentale appuntamento delle elezioni mid-term del prossimo novembre per il rinnovo del Congresso, la Casa Bianca e la politica americana cercano contromisure, timorose che altri illustri spostamenti possano emergere all’orizzonte. Nel frattempo, il quartier generale di Burger King prepara le valigie e si appresta a salutare il sole e le spiagge di Miami, per partire alla volta del Canada. E della minore pressione fiscale.

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