lunedì 27 ottobre 2014

Riceviamo e pubblichiamo.



Un mestiere apparentemente in via d’estinzione, in uno dei Paesi in cui dovrebbe essere più diffuso. In Italia fare l’archeologo sembra sempre più difficile, almeno a giudicare dai numeri: quelli di chi ha abbandonato la professione o ci sta pensando, quelli che descrivono bassi stipendi e alta percentuale di senza lavoro. E le istituzioni? Un po’ fanno da ammortizzatore sociale, un po’ contribuiscono alla crisi. Che non è solo occupazionale: centinaia di siti sono abbandonati, tanto che un’associazione di agricoltori si offre di prendersene cura. L’idea potrebbe essere buona, nel contesto di un’apertura più ampia ai privati che porti soldi e snellimento delle procedure.
La crisi degli archeologi
Il rapporto 
Discovering the Archaeologists of Italy 2012-14, pubblicato dalla Confederazione italiana di categoria nell’ambito di un progetto europeo, parla di 4.383 professionisti attivi nella penisola. L’età media di chi ha partecipato all’indagine è 37 anni; circa sette su dieci sono donne. «Il nostro Paese ha una tradizione di prevalenza femminile negli studi umanistici in genere», dice Alessandro Pintucci, presidente della Confederazione. «Poi c’è un’altra questione: il mestiere è considerato poco appetibile economicamente, e gli uomini sembrano dare più peso a questo. Lo squilibrio si riduce se guardiamo ai posti di maggior prestigio: la quantità di donne ai vertici non è proporzionale a quella totale delle archeologhe». Ma chi dà lavoro a loro e ai colleghi maschi? Ai professionisti coinvolti nella ricerca è stato chiesto di indicare i soggetti per cui hanno operato nell’ultimo anno. Al top ci sono le università, seguite da società attive nel comparto e dal ministero di settore. «Gli enti pubblici fanno un po’ da ammortizzatori», sintetizza Pintucci. Allo stesso tempo, però, il governo ha ridotto i fondi per la tutela, tagliati di 100mila euro (il 58%) tra 2012 e 2013.
Così arriviamo ai dati legati più strettamente all’occupazione. Il 43% degli intervistati si dichiara libero professionista: più o meno 700 persone, la maggior parte con partita Iva. Poi c’è chi è rimasto a casa (28%), i dipendenti a tempo indeterminato (16%) e quelli a tempo determinato (14%). Lo stipendio medio annuo è 10.687 euro, contro i 18mila che si ottengono se si considerano tutti i mestieri esistenti in Italia. Un quadro scoraggiante nel vero senso della parola: negli ultimi cinque anni il tasso di abbandono della professione si è attestato intorno al 60%, almeno tra gli archeologi più formati (circa uno su due vanta un titolo superiore alla laurea). La tendenza non sembra destinata a invertirsi: il 21% prevede di cambiare presto lavoro, un altro 38% la ritiene un’opzione possibile. Solo il 41% la esclude. «Risposte che però sono molto emotive», sottolinea Pintucci.
“Ogni taglio ha un effetto pratico: se il mio ente pubblico non può permettersi la benzina per il tosaerba, come potrò impedire alle piante di danneggiare i reperti?”
A migliorare la situazione potrebbero contribuire due provvedimenti politici: il primo approvato da poco, l’altro in ritardo di decenni. In estate è passata la legge 110/14, che ha inserito nel codice dei beni culturali il riconoscimento di professioni come archivista, bibliotecario, storico dell’arte e appunto archeologo. «Ora aspettiamo il regolamento attuativo, per eliminare finalmente gli scavatori della domenica, i troppi volontari attivi nel settore. Non si può far operare persone non titolate e che lavorano gratis, togliendo posti a chi ha una qualifica». Il secondo provvedimento riguarda la convenzione europea de La Valletta del 1992, mai ratificata dall’Italia. Il testo impone che nel bilancio di ogni lavoro di scavo (sia pubblico che privato) venga inserita la spesa per le analisi archeologiche necessarie. Così, dice Pintucci, «ci sarebbe tutela per ogni intervento sul sottosuolo. A quel punto anche noi dovremmo rimetterci in discussione, e cercare metodi di indagine che non blocchino il paese intero». Al momento il tema è in discussione in una commissione parlamentare, che sta esaminando un progetto di legge. Nel comune di Roma la presenza obbligatoria di un archeologo per ogni tipo di scavo è prevista dal piano regolatore almeno dal 1983. Sarà anche per questo che il 20% dei professionisti italiani lavora nella capitale, e che quasi il 27% si concentra nel Lazio. 

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Non solo Pompei
La distribuzione di aree e parchi archeologici sembra essere diversa da quella dei lavoratori del settore. Secondo l’Istat, Sud e isole ospitano un sito su due, e nel 2011 se ne contavano 240, visitati da nove milioni e mezzo di persone. «Parliamo dei luoghi valorizzati e aperti al pubblico», spiega Pintucci. «Poi ce ne sono circa altri 300 chiusi, ma che finora non sono crollati. Ne restano fuori diverse centinaia, di cui solo una minoranza è sottoposta a un vincolo puntuale. Probabilmente oltre metà dei siti di interesse italiani è da recuperare». Il caso più famoso è quello di Pompei, ma Pintucci ne cita altri quattro particolarmente significativi: «Innanzitutto le mura aureliane di Roma, il più grande monumento capitolino ancora in piedi e uno dei meno conservati. In Campania ricordo Paestum, in Calabria le zone archeologiche di Caulonia e Sibari: la prima sta sparendo perché mangiata dalle maree, la seconda è stata allagata un paio di anni fa». Il problema è importante, ma un dossier puntuale sullo stato di manutenzione dei siti non esiste. «La maggior parte delle schede ministeriali sulle singole aree non è aggiornata, perché i fondi per la catalogazione sono stati falcidiati per primi. Ogni taglio ha un effetto pratico: se il mio ente pubblico non può permettersi la benzina per il tosaerba, come potrò impedire alle piante di danneggiare i reperti?».
la soluzione contro degrado e disoccupazione: aprire ai privati, ovviamente rispettando le regole necessarie perché i beni siano conservati correttamente
Il presidente della Confederazione italiana archeologi indica una direzione per limitare il degrado e aumentare l’occupazione: aprire ai privati, ovviamente rispettando le regole necessarie perché i beni siano conservati correttamente. «Al momento lo Stato dice che occuparsi di questi tesori è solo compito suo. Se io ho un’idea su come recuperarne e valorizzarne uno, dovrò sudare molto per avere l’autorizzazione a farlo. Bisogna allentare queste rigidità e ampliare le possibilità di investimento privato. Certo, chi ne propone uno pensa di guadagnarci o almeno pareggiare i conti, ma se lo fa in modo pulito che male c’è?». Pintucci rammenta le polemiche sui 25 milioni offerti da Della Valle per il restauro del Colosseo: «Il problema però riguarda soprattutto monumenti meno importanti, che potrebbero essere sistemati grazie a progetti intelligenti. In casi di questo tipo trovare finanziamenti è più difficile: sarebbe importante che anche gli archeologi imparassero a preparare un business plan, a spiegare come si costruisce un'operazione sostenibile anche se il sito non sarà visitato da milioni di persone». Gli spazi per aumentare la collaborazione pubblico-privato ci sono: in queste settimane è spuntata una proposta che potrebbe fare da apripista, e che Pintucci considera interessante.

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Braccia rubate all’archeologia
Negli ultimi anni si è parlato molto di agricoltura multifunzionale, capace di spaziare dall’enogastronomia alle fattorie didattiche. Ora la confederazione di settore Cia dice che tra i suoi iscritti c’è voglia di «prendersi cura del patrimonio di beni archeologici e culturali disseminato sul territorio, e attualmente in stato di abbandono». L’organizzazione e la sua associazione Turismo Verde hanno scritto al ministro della Cultura Dario Franceschini chiedendo il permesso di recuperare aree che attirerebbero visitatori, aumentando il giro d’affari delle imprese coinvolte. Un passo avanti in questa direzione potrebbe essere fatto con il decreto sblocca-Italia, in particolare con gli emendamenti presentati dal movimento Cittadinanzattiva per «ampliare le fattispecie previste all'ambito del recupero e riuso di beni immobili e aree inutilizzati». Alessio Guazzini, vicepresidente di Turismo Verde, dice che l’obiettivo del dialogo col governo è arrivare a un protocollo d’intesa che agevoli chi gestisce un’attività agricola o agrituristica e vuole occuparsi di un sito dismesso.
«Già ora molte nostre aziende custodiscono beni archeologici», spiega. «Vorremmo che farlo fosse più facile, che ci fosse meno burocrazia. Penso a due tipi di progetti possibili. Il primo è la “semplice” gestione di un sito, con gli incassi dei biglietti d'ingresso divisi tra privato e pubblico. Il secondo è la creazione di collaborazioni tra realtà del nostro comparto, università, enti di scavo e ricerca per portare alla luce aree ancora non del tutto scoperte. Se dietro c’è un business plan fatto bene, iniziative simili si mantengono da sole». Guazzini si è fatto quest'idea a partire dall'esperienza diretta: «Sono appassionato di storia e da nove anni gestisco un agriturismo. Ho avvicinato professionisti che lavorano per la soprintendenza, i comuni, gli atenei, e ho patrocinato l'analisi di reperti emersi da scavi etruschi ad Albinia, nel grossetano. Per oltre un mese ho ospitato studenti e archeologi provenienti da tutta Europa e dall'America, che mi hanno permesso di guadagnare in un periodo di bassa stagione». Ovviamente i fondi pubblici sono benvenuti, se ci sono. «Se però un bene è solamente invaso dai rovi, un nostro iscritto può benissimo pulirlo e gestirlo a costo zero. Magari l’amministrazione locale potrebbe dargli una mano facendogli un po’ di pubblicità». Un modello di cooperazione da sperimentare, sperando che possa riportare in vita una parte dei tesori abbandonati d’Italia.

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