Isis, gli ostaggi muoiono due volte: torture prima della decapitazione
Picchiati, umiliati, costretti alla conversione, torturati e crocifissi: quello che devono sopportare gli ostaggi dell'Isis. Così i miliziani del califfo hanno creato la loro Guantanamo
Redazione 27 Ottobre 2014
ROMA - Un infradito di plastica beige. Una ciabatta da due spicci, una di quelle che avevano usato più e più volte per andare in bagno. Loro avevano camminato nelle stesse scarpe di chi non ce l'aveva fatta. Ed era solo un caso che loro fossero lì, al sicuro nella loro casa in qualche angolo del mondo, mentre Foley era lì, su una collina di sabbia in Sira. Morto. Senza testa. Con una ciabatta beige, da due spicci, accanto al suo cadavere. Anche l'ultimo atto del copione era compiuto: Foley aveva pagato per tutto. E per tutti. Aveva pagato per la sua conversione all'Islam, non si sa quanto vera, quanto sentita. Ma soprattutto aveva pagato per la fermezza del suo governo, quello americano, mai sfiorato dall'idea di sedersi a un tavolo per trattare con gli "incappucciati". E la differenza tra una ciabatta usata per andare in bagno e una usata per andare a morire era tutta là: chi paga vive. Chi si rifiuta muore.
Ma la decapitazione, la morte, è solo l'ultimo atto del film dell'orrore. Prima, per Foley come per gli altri ostaggi dei miliziani dello Stato islamico, erano venute botte, finte esecuzioni, torture, conversioni forzate, speranze e delusioni atroci. Tutto raccontato da Rukmini Callimachi sulle colonne del New York Times in un lunghissimo reportage, con deposizioni di ex prigionieri, familiari e di Jejoen Bontick, un "foreign fighter" belga attualmente sotto processo.
La prigionia inizia naturalmente con il rapimento. Spesso i giornalisti - tra le vittime preferite - o gli operatori umanitari vengono presi fuori dagli internet point, o dai loro alberghi. Un'auto, con a bordo tre o quattro miliziani, segue il taxi. Al "check point" scatta l'assalto. Gli obiettivi vengono presi, quasi sempre con i loro traduttori locali, e portati in cella. Lì comincia il calvario.
In una stanza, i carcerieri pongono tre domande personali, espediente classico per fornire la prova che un prigioniero è ancora in vita durante le trattative per il riscatto.
Lo stesso era successo a James Foley. "Tornò nella cella che spartiva con una ventina di altri ostaggi occidentali e scoppiò in lacrime per la gioia". Le domande erano così personali - "Chi ha pianto alle nozze di tuo fratello?" - che aveva capito che finalmente erano in contatto con la sua famiglia. Era il dicembre del 2013 ed era passato più di un anno da quando James, giornalista freelance quarantenne, era scomparso lungo una strada della Siria settentrionale.
Quello che sembrava un punto di svolta in realtà era l’inizio di una spirale discendente che si concluse ad agosto con la decapitazione di Foley di fronte a una telecamera. La storia di quello che è successo nei sotterranei usati come prigioni in Siria è una storia di atroci sofferenze.
Foley e gli altri ostaggi venivano regolarmente picchiati e sottoposti alla tortura del "waterboarding". Come in una sorta di contrappasso i terroristi islamici volevano far subire ad americani e occidentali quello che i loro "compagni" avevano subito a Guantanamo. Le tute arancione, quelle della morte: anche quelle sembrano scimmiottare le divise dei prigionieri nelle vecchie celle cubane.
L’organizzazione - l'Isis, lo Stato islamico del califfo Abu Bakr al-Baghdadi - non esisteva ancora il giorno in cui Foley fu rapito, ma è cresciuta pian piano fino a diventare il movimento armato più potente e temuto della regione. Forse del mondo. E più la forza cresceva, più i rapimenti aumentavano. A due anni dall’inizio della prigionia di Foley, l’Is aveva accumulato oltre una ventina di ostaggi. Ed è qui che le strade dei prigionieri si dividono. Drammaticamente. A decidere per loro, persone che non hanno mai incontrato, che non hanno mai conosciuto: i capi dei loro Stati.
I sequestratori confiscavano i computer, i cellulari e le videocamere, e chiedevano le password per accedere agli account dei prigionieri. Passavano al setaccio i loro profili di Facebook, le conversazioni su Skype, gli archivi di immagini e le caselle di posta elettronica, cercando prove di collusione con organismi d’intelligence e forze armate di Paesi occidentali. Una strada verso la salvezza poteva essere la conversione all'Islam: un segno, secondo i jihadisti, di rigetto dell'Occidente e delle sue tradizioni. E per far abbracciare l'Islam agli ostaggi, i modi dei carcerieri erano convincenti. Brutali.
"Si vedevano le cicatrici sulle sue caviglie", ha raccontato Jejoen Bontinck, un diciannovenne belga convertito all’Islam che nell’estate del 2013 ha passato tre settimane nella stessa cella di Foley. "Mi disse che gli avevano incatenato i piedi a una sbarra e che avevano appeso la sbarra al soffitto, lasciandolo a testa in giù". I carcerieri parlavano in inglese e ripetevano ossessivamente ai prigionieri la parola "naughty", cattivo in inglese. Lo stesso avevano fatto più e più volte con Foley. Lui "si era convertito all’Islam poco dopo la sua cattura e aveva adottato il nome di Abu Hamza", ha raccontato Bontinck. Secondo le parole degli ex ostaggi, la maggior parte dei prigionieri occidentali si era convertita, durante la prigionia. Si era convertito anche Kassig, che aveva adottato il nome di Abdul Rahman. Solo pochi erano rimasti fedeli alla loro vera religione: fra questi Sotloff, ebreo praticante.
"Si vedevano le cicatrici sulle sue caviglie", ha raccontato Jejoen Bontinck, un diciannovenne belga convertito all’Islam che nell’estate del 2013 ha passato tre settimane nella stessa cella di Foley. "Mi disse che gli avevano incatenato i piedi a una sbarra e che avevano appeso la sbarra al soffitto, lasciandolo a testa in giù". I carcerieri parlavano in inglese e ripetevano ossessivamente ai prigionieri la parola "naughty", cattivo in inglese. Lo stesso avevano fatto più e più volte con Foley. Lui "si era convertito all’Islam poco dopo la sua cattura e aveva adottato il nome di Abu Hamza", ha raccontato Bontinck. Secondo le parole degli ex ostaggi, la maggior parte dei prigionieri occidentali si era convertita, durante la prigionia. Si era convertito anche Kassig, che aveva adottato il nome di Abdul Rahman. Solo pochi erano rimasti fedeli alla loro vera religione: fra questi Sotloff, ebreo praticante.
Le conversioni, ottenute per lo più con la violenza e non frutto di una scelta libera, avevano convinto i jihadisti che l'Isis era pronto per il grande salto. Così, dopo mesi di prigionia "anonimi" - senza richieste - improvvisamente i miliziani avevano elaborato un piano per ottenere un riscatto. A partire dal novembre dello scorso anno, avevano chiesto a ogni prigioniero di fornire l’indirizzo email di un parente. Il primo contatto avveniva là, sicuri che il familiare prescelto avrebbe avvisato le forza di sicurezza nazionali.
A dicembre i militanti avevano già scambiato diverse email con la famiglia di Foley e di altri ostaggi. Man mano che le settimane passavano, Foley cominciava a notare che i compagni di cella europei venivano chiamati fuori ripetutamente. Lui no. Mai. E gli unici nella stessa sua situazione erano o americani come lui, o britannici. Tutto stava diventando chiaro: c'erano governi disposti a pagare, o quanto meno a trattare, e altri no.
"Stabilirono un ordine in base alla facilità con cui pensavano di poter negoziare", ha confessato un ex ostaggio. "Cominciarono con gli spagnoli, proseguirono con i quattro francesi. Dopo le domande personali, i prigionieri europei passarono a girare dei video sempre più drammatici, con minacce di morte e ultimatum per l’esecuzione". Progressivamente i ventitré prigionieri erano stati divisi in due gruppi. I tre americani e i tre britannici erano quelli sottoposti alle violenze peggiori, per il risentimento dei miliziani verso i loro Paesi e perché i loro governi non volevano trattare. All’interno di questo sottogruppo, Foley aveva subito il trattamento più crudele. Le condizioni di prigionia erano diventate sempre più dure. Fino alla svolta. Il baratro verso il buio.
I carcerieri avevano capito che l’unico ostaggio russo, Sergej Gorbunov, era il "prodotto" meno "scambiabile". La Russia di Putin non si sarebbe mai seduta a trattare col califfo. Non avrebbe mai ceduto. Vennero a prenderlo, lo trascinarono fuori dalla cella e gli spararono. Il suo corpo crivellato dai colpi fu ripreso con una videocamera e mostrato agli ostaggi sopravvissuti. "Questo - dissero - è quello che vi succederà se il vostro governo non pagherà". L'avviso, lo dicono i numeri, ha funzionato.
A dicembre i militanti avevano già scambiato diverse email con la famiglia di Foley e di altri ostaggi. Man mano che le settimane passavano, Foley cominciava a notare che i compagni di cella europei venivano chiamati fuori ripetutamente. Lui no. Mai. E gli unici nella stessa sua situazione erano o americani come lui, o britannici. Tutto stava diventando chiaro: c'erano governi disposti a pagare, o quanto meno a trattare, e altri no.
"Stabilirono un ordine in base alla facilità con cui pensavano di poter negoziare", ha confessato un ex ostaggio. "Cominciarono con gli spagnoli, proseguirono con i quattro francesi. Dopo le domande personali, i prigionieri europei passarono a girare dei video sempre più drammatici, con minacce di morte e ultimatum per l’esecuzione". Progressivamente i ventitré prigionieri erano stati divisi in due gruppi. I tre americani e i tre britannici erano quelli sottoposti alle violenze peggiori, per il risentimento dei miliziani verso i loro Paesi e perché i loro governi non volevano trattare. All’interno di questo sottogruppo, Foley aveva subito il trattamento più crudele. Le condizioni di prigionia erano diventate sempre più dure. Fino alla svolta. Il baratro verso il buio.
I carcerieri avevano capito che l’unico ostaggio russo, Sergej Gorbunov, era il "prodotto" meno "scambiabile". La Russia di Putin non si sarebbe mai seduta a trattare col califfo. Non avrebbe mai ceduto. Vennero a prenderlo, lo trascinarono fuori dalla cella e gli spararono. Il suo corpo crivellato dai colpi fu ripreso con una videocamera e mostrato agli ostaggi sopravvissuti. "Questo - dissero - è quello che vi succederà se il vostro governo non pagherà". L'avviso, lo dicono i numeri, ha funzionato.
Quindici ostaggi sono stati liberati fra marzo e giugno, in cambio di riscatti superiori, in media, a due milioni di euro. Tutti soldi che hanno accresciuto la potenza e l'autostima dell'Isis. Ora rimangono solo tre uomini dei ventitré originari: due americani, Kassig e una donna di cui non si conosce il nome, e un inglese, Cantlie. I miliziani hanno annunciato che il prossimo a essere ucciso sarà Kassig.
Quello che è venuto dopo l'avviso, invece, fu James Foley. Ad agosto i miliziani lo hanno preso dalla sua cella - negli ultimi giorni si trovava in un edificio a Raqqa, prima era stato in un ospedale di Aleppo - gli hanno fatto infilare una tuta arancione e un paio di infradito beige. Lo hanno portato su una collina spoglia vicino alla capitale dello Stato islamico e lì lo hanno sgozzato. Poi è toccato a Sotloff, Haines, Henning. Accanto ai loro corpi, sempre, una ciabatta beige. Le stesse che tutti mettevano per andare al bagno. Quelle che loro, i "naughty", i "cattivi", hanno indossato per andare a morire.
Nessun commento:
Posta un commento