Leopolda, Matteo Renzi sfida la minoranza Dem: "Non temo la scissione, non vi lascio il Pd". E gli sfila anche Napolitano
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La sinistra? “C’est moi”. Non troverete questa frase nell’intervento di Matteo Renzi che chiude la quinta edizione della sua Leopolda. Ma il senso è questo. “La sinistra siamo noi leopoldini”, risuona come un’eco insistente nel tributo di applausi dell’affollatissima stazione di Firenze al ‘condottiero Matteo’. Fatti gli effetti speciali a colpi di musica sparata a palla, scenografia sfavillante e accattivante come la vetrina di un negozio di tendenza, il presidente del Consiglio e segretario del Pd tiene per un’ora la platea con quello che lui stesso definisce un “discorso serio”. Per l’occasione, la camicia bianca d’ordinanza è corredata da cravatta da cerimonia. La mission è parlare degli sforzi di governo, “ci tocca cambiare il paese, ce la siamo cercata”. Ma soprattutto l’obiettivo che il premier aveva preannunciato ai suoi è rispondere alla piazza di Cgil e Fiom ieri, respingere la cronaca che ne viene fatta, cioè quella di due paesi, uno in piazza San Giovanni e uno alla Leopolda. La mission è colpire al cuore la minoranza del Pd, quella che ieri gli ha manifestato contro e che ora medita pensieri di scissione. La mission è dire che il premier e le sue truppe non temono la scissione del Pd.
“Li rispetto ma non ho paura che a sinistra si crei qualcosa di diverso – dice Renzi mentre la platea si scalda fino all’inverosimile – si sta a vedere se essere di sinistra vuol dire stare aggrappati alla nostalgia o provare a cambiare”. E poi: “Non consentiremo a chi ha detto che la Leopolda è imbarazzante di riprendersi il Pd e trasformarlo per portarlo dal 41 al 25 per cento”. Qui le urla e gli applausi gli coprono la voce. Lui continua e urla: “Non consentiremo che il Pd sia trasformato nel partito dei reduci. Noi saremo il partito dei pionieri, non quelli del museo delle cere, ma del futuro e del domani”. E’ stata Rosi Bindi a definire la Leopolda “imbarazzante”. “Se uno si imbarazza perché dopo 25 anni in Parlamento trova qualcuno che riesce a mettere insieme gente per parlare di politica, forse gli abbiamo fatto anche un favore…”, scandisce il premier.
E’ un Renzi spietato. Che non fa sconti. Il discorso che conclude la Leopolda lascia impallidire anche le parole di riconciliazione pronunciate dal vicesegretario del Pd Debora Serracchiani: “Lavoro, dignità e uguaglianza appartengono anche a questa stazione. Perché a sinistra dobbiamo sempre cercare la scissione dell’atomo senza produrre energia? Si parla di due parti di un partito che non si riconoscono più. Noi faremo ogni sforzo fino alla fine per cercare di capirci, di comprenderci… Dobbiamo mettere intorno al tavolo imprenditori e operai. Perché oggi gli imprenditori non sono più padroni ma lottano insieme a tutti noi contro una crisi violenta”. Applausi per la Serracchiani.
Ma Renzi non fa prigionieri, non fa mediazioni. E’ lì per parlare al suo popolo, ma anche per dare la sua lettura della fase, convinto di poter offrire una visione di sinistra moderna, non ideologica, post ideologica e sintonizzata con i dati di fatto del presente. Cioè la sinistra che non fa dell’articolo 18 una bandiera, perché “sarebbe come pensare di prendere l’iphone e chiedersi dove si infila il gettone o come pretendere di mettere un rullino alla macchina digitale”. Il punto è che “è finita l’Italia del rullino: io rivendico l’Italia digitale!”. Di nuovo i leopoldini lo coprono di applausi. Di nuovo, lui continua. “Non c’è più il posto fisso ma non perché l’abbiamo scelto noi, ma perché è cambiato il mondo – spiega il premier – Non c’è più il modello fordista, la monogamia aziendale è in crisi nel mondo. E cosa fa un partito di sinistra? Fa un dibattito ideologico sulla coperta di Linus? O crea le condizioni perché chi perde il posto di lavoro sia preso in cura dallo stato? L’articolo 18 significa chiamare un giudice dentro un'azienda a sindacare i motivi per cui si licenzia, significa dare lavoro ai giudici e agli avvocati ma non a chi perde il posto…”. Ovazione generale.
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Il messaggio è sempre quello: fare del Pd il partito della nazione, la “Big tent” dove c’è spazio per tutti, fedeli e critici, ‘destri e sinistri’, imprenditori e operai. Renzi lo persegue punto per punto, giorno per giorno, piazza o non piazza, protesta o non protesta. Convinto di poter piegare le resistenze interne con il voto di fiducia sul Jobs Act, alle brutte. Oppure, è il monito implicito, prendessero le loro decisioni di scissione: in questo caso la porta del voto anticipato potrebbe essere aperta da una modifica all’Italicum che lo renda valido anche per votare al Senato, oltre che introdurre il premio di lista. Ad ogni modo, non è questo l’orizzonte del premier, non oggi.
Dalla Leopolda Renzi fa il bagaglio con cui si presenta in Europa, con cui dice ad Angela Merkel e ai “burocrati europei” che “gli 11 milioni” che hanno votato Pd alle scorse europee potrebbero essere “il nono paese europeo”. Sono tanti e “rispettateci”. “Nessuno in Europa è così stupido da impiccare un paese a una virgola, ma il punto è che c’è un atteggiamento per cui il nostro paese non solo è l’ultima ruota del carro ma un problema. Io rivendico il diritto alla verità per il mio paese sennò significa negare l’Europa”.
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Naturalmente, bisogna riuscire nell'avventura di governo. "Non siamo al governo per scaldare la seggiola o per mantenerci al governo o per consolidare noi stessi - dice Renzi - Ci tocca cambiare il paese, ce la siamo cercata e ora è arrivato il momento di prenderci terribilmente sul serio che non significa non perdere la voglia di scherzare o smettere di divertirci. Il paese va cambiato perché è nostra responsabilità". E allora, "noi siamo chiamati a fare in pochi mesi quelli che gli altri potevano fare in tanti anni. In questa salita ci saranno momenti di difficoltà anche perché parte del pubblico non aspetta altro che noi cadiamo,
quelli che hanno voglia di andare avanti con le facce di sempre non aspettano altro che il nostro fallimento. La strada è difficile ma la bici è buona, la gamba c’è...".
quelli che hanno voglia di andare avanti con le facce di sempre non aspettano altro che il nostro fallimento. La strada è difficile ma la bici è buona, la gamba c’è...".
Ma per la minoranza Dem c’è un ultimo colpo al cuore. Stavolta Renzi non solo cita e ringrazia il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ma invita la platea a fare “un applauso e mandare il nostro abbraccio” al capo dello Stato. Non è un caso: è solidarietà esibita a due giorni dalla deposizione del presidente nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. Ma insieme è anche un messaggio, l’ennesima bad news, per la minoranza Pd: anche Napolitano sta con Renzi, sta con lui nella battaglia contro l’austerity Ue e nelle battaglie interne, sta con il governo guidato dal segretario Dem, con i suoi ministri – anche i non renziani Franceschini, Pinotti e Poletti - che oggi hanno preso la parola alla Leopolda facendo proprio il verbo del renzismo. Non è roba da poco, se si pensa che meno di un anno fa, alla prima assemblea nazionale del Pd a Milano, nel suo primo discorso da segretario, Renzi non citò il capo dello Stato. E la minoranza appena sconfitta se ne risentì. Nel giro di dieci mesi, il quadro è ribaltato. “La sinistra c’est moi”.
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