L’ideologia jihadista e l”album di famiglia” degli islamici
LUNEDÌ, 15 SETTEMBRE 2014
Questo articolo è uscito su “La Repubblica”
I tagliagole dell’Is? Ma è chiaro, sono una creatura degli Usa e d’Israele. L’autoproclamato califfo al-Baghdadi? Meglio chiamarlo al-Mossad…
Nei blog frequentati dai musulmani residenti in Italia le farneticazioni complottiste sulla reale natura dello Stato Islamico sembrano riempire un vuoto dettato da paura, reticenza, omertà ma anche, in taluni casi, malcelata o intimorita ammirazione. Un disorientamento di fronte al fatto nuovo che fino ad oggi ha come imbavagliato, paralizzato, la multiforme galassia islamica radicata in Italia da almeno due generazioni. Passano le settimane, passano i mesi e purtroppo non si segnala ancora nessuna incisiva manifestazione pubblica di condanna da parte di coloro che pure dovrebbero sentirsi i più offesi e i più danneggiati, visto che l’offensiva terroristica dispiegata fra Siria e Iraq si arroga niente meno che la pretesa di rappresentare una diretta eredità del Profeta. Questo difatti è il Califfo nella tradizione islamica: il continuatore dell’opera di Maometto.
I filmati con le decapitazioni di inermi prigionieri sono certo divulgati allo scopo di terrorizzare i nemici dell’Is e ostentarne la macabra capacità di impersonare i luoghi comuni occidentali sull’Islam, il ritorno dal videogame alla morte reale; ma forse più ancora la loro diffusione online è pianificata per riscuotere ammirazione e obbedienza tra i fedeli musulmani. Una feroce imposizione di sé come nuovo Islam autentico che calpesta e rimpiazza ogni forma di Islam che lo abbia preceduto, e dunque fra gli scopi della violenza perpetrata c’è anche quello di ammutolire chi dovrebbe denunciarne la blasfemia e scomunicarlo. Una scelta netta contro “l’ideologia velenosa” del jihadismo compiuta ieri da sei leader musulmani britannici che, in una fatwa, si sono spinti oltre: pur ribadendo la loro condanna al regime del dittatore Bashar al-Assad, hanno stabilito la proibizione ai fedeli di arruolarsi per andare in Siria a combatterlo. Viene così affrontato pubblicamente anche lo spinoso problema del consenso ottenuto dai jihadisti fra le seconde generazioni di musulmani occidentali, per contrastare il quale non può bastare solo la vigilanza delle forze di polizia.
E in Italia? Spero di sbagliarmi, ma temo che l’intimidazione dei tagliagole abbia finora ottenuto l’effetto desiderato. I portavoce più rappresentativi delle nostre comunità islamiche, fino a ieri, nei loro generici comunicati di condanna neanche citavano l’Is. Una reticenza nel nominare l’oggetto della propria critica dovuta non so se a timore di ritorsioni o viceversa a un’altra forma di precauzione: la consapevolezza, cioè, che tra i frequentatori delle moschee serpeggia un certo consenso per i miliziani jihadisti, percepiti magari genericamente come vendicatori delle frustrazioni subite. Quando si tratterebbe di lanciare una sfida pubblica durissima contro chi macchia il nome dell’Islam, si registra invece una tendenza alla divagazione. L’espediente più classico è anteporre sempre e comunque la denuncia dei crimini di guerra israeliani alla critica del terrorismo jihadista. Quasi vi fosse una gerarchia precisa delle colpe da rispettare, piuttosto che il generico bisogno di fare pari e patta. Subentra immediatamente dopo la più tipica farneticazione complottista, esercitata per spiegare la genesi dell’Is. Non basta ricordare i finanziamenti e le armi pervenute ai miliziani dalle potenze economiche oscurantiste del Golfo, le stesse che ora si coalizzano con gli occidentali per fronteggiarne l’espansione. Più sbrigativo, e di sicuro effetto, è attribuire direttamente la paternità dell’Is agli Usa o a Israele, incorrendo in un meccanismo di negazione paradossale, tipico di chi sta facendo i conti con una lacerazione interiore. Cito dal blog di un esponente italiano dei Fratelli Musulmani: “Come ha fatto l’Is a prendere mezzo Iraq e mezza Siria, tranquilli tranquilli? C’è qualcosa che non quadra”.
Ciò che dolorosamente trapela dalla reticenza e dalle divagazioni che ne conseguono, è lo schiacciamento, l’imprigionamento di una vasta area musulmana tradizionalista dentro la terminologia e i codici simbolici dell’ala terrorista. Quand’anche i jihadisti abbiano collezionato sconfitte e isolamento politico dal 2001 in poi, essi hanno conseguito però un’egemonia in campo ideologico. Rendendo così faticosa, imbarazzata, la presa di distanza così urgente oggi.
Se il dramma storico che stiamo vivendo non avesse una ben più vasta portata planetaria, verrebbe naturale proporre un’analogia col trauma vissuto quarant’anni fa in Italia dal popolo di sinistra, trovatosi improvvisamente alle prese con un partito armato che, in suo nome, praticava la violenza e il terrore. Dapprima la negazione –“sono provocatori, con noi non c’entrano nulla”- poi l’indulgenza per i “compagni che sbagliano”. Di mezzo quel riconoscere con disagio una terminologia comune, gli stessi simboli di riferimento, le biografie prossime, che Rossana Rossanda sintetizzò nella formula dell’“album di famiglia”.
Si parva licet, in presenza di una degenerazione oscurantista che insanguina due continenti, ricordiamo che il terrorismo di sinistra cominciò a perdere colpi quando la sinistra medesima ne riconobbe le origini e prese in prima persona l’iniziativa di combatterlo. Sul piano culturale, oltre che giudiziario. Correndo rischi e pagando un prezzo doloroso.
Chi ha la fortuna di vivere la propria fede religiosa musulmana nell’ambito di una cittadinanza democratica, deve comprendere che non siamo qui a chiedergli malintesi patti di sottomissione. Ma che senza un loro apporto di contrapposizione esplicita, a viso aperto, senza una revisione del linguaggio, senza la lungimiranza di una visione autocritica, senza il coraggio della contaminazione reciproca fra Islam e occidente di cui sono portatori, la guerra all’Is sarà ancora più lunga e dolorosa.
Nei blog frequentati dai musulmani residenti in Italia le farneticazioni complottiste sulla reale natura dello Stato Islamico sembrano riempire un vuoto dettato da paura, reticenza, omertà ma anche, in taluni casi, malcelata o intimorita ammirazione. Un disorientamento di fronte al fatto nuovo che fino ad oggi ha come imbavagliato, paralizzato, la multiforme galassia islamica radicata in Italia da almeno due generazioni. Passano le settimane, passano i mesi e purtroppo non si segnala ancora nessuna incisiva manifestazione pubblica di condanna da parte di coloro che pure dovrebbero sentirsi i più offesi e i più danneggiati, visto che l’offensiva terroristica dispiegata fra Siria e Iraq si arroga niente meno che la pretesa di rappresentare una diretta eredità del Profeta. Questo difatti è il Califfo nella tradizione islamica: il continuatore dell’opera di Maometto.
I filmati con le decapitazioni di inermi prigionieri sono certo divulgati allo scopo di terrorizzare i nemici dell’Is e ostentarne la macabra capacità di impersonare i luoghi comuni occidentali sull’Islam, il ritorno dal videogame alla morte reale; ma forse più ancora la loro diffusione online è pianificata per riscuotere ammirazione e obbedienza tra i fedeli musulmani. Una feroce imposizione di sé come nuovo Islam autentico che calpesta e rimpiazza ogni forma di Islam che lo abbia preceduto, e dunque fra gli scopi della violenza perpetrata c’è anche quello di ammutolire chi dovrebbe denunciarne la blasfemia e scomunicarlo. Una scelta netta contro “l’ideologia velenosa” del jihadismo compiuta ieri da sei leader musulmani britannici che, in una fatwa, si sono spinti oltre: pur ribadendo la loro condanna al regime del dittatore Bashar al-Assad, hanno stabilito la proibizione ai fedeli di arruolarsi per andare in Siria a combatterlo. Viene così affrontato pubblicamente anche lo spinoso problema del consenso ottenuto dai jihadisti fra le seconde generazioni di musulmani occidentali, per contrastare il quale non può bastare solo la vigilanza delle forze di polizia.
E in Italia? Spero di sbagliarmi, ma temo che l’intimidazione dei tagliagole abbia finora ottenuto l’effetto desiderato. I portavoce più rappresentativi delle nostre comunità islamiche, fino a ieri, nei loro generici comunicati di condanna neanche citavano l’Is. Una reticenza nel nominare l’oggetto della propria critica dovuta non so se a timore di ritorsioni o viceversa a un’altra forma di precauzione: la consapevolezza, cioè, che tra i frequentatori delle moschee serpeggia un certo consenso per i miliziani jihadisti, percepiti magari genericamente come vendicatori delle frustrazioni subite. Quando si tratterebbe di lanciare una sfida pubblica durissima contro chi macchia il nome dell’Islam, si registra invece una tendenza alla divagazione. L’espediente più classico è anteporre sempre e comunque la denuncia dei crimini di guerra israeliani alla critica del terrorismo jihadista. Quasi vi fosse una gerarchia precisa delle colpe da rispettare, piuttosto che il generico bisogno di fare pari e patta. Subentra immediatamente dopo la più tipica farneticazione complottista, esercitata per spiegare la genesi dell’Is. Non basta ricordare i finanziamenti e le armi pervenute ai miliziani dalle potenze economiche oscurantiste del Golfo, le stesse che ora si coalizzano con gli occidentali per fronteggiarne l’espansione. Più sbrigativo, e di sicuro effetto, è attribuire direttamente la paternità dell’Is agli Usa o a Israele, incorrendo in un meccanismo di negazione paradossale, tipico di chi sta facendo i conti con una lacerazione interiore. Cito dal blog di un esponente italiano dei Fratelli Musulmani: “Come ha fatto l’Is a prendere mezzo Iraq e mezza Siria, tranquilli tranquilli? C’è qualcosa che non quadra”.
Ciò che dolorosamente trapela dalla reticenza e dalle divagazioni che ne conseguono, è lo schiacciamento, l’imprigionamento di una vasta area musulmana tradizionalista dentro la terminologia e i codici simbolici dell’ala terrorista. Quand’anche i jihadisti abbiano collezionato sconfitte e isolamento politico dal 2001 in poi, essi hanno conseguito però un’egemonia in campo ideologico. Rendendo così faticosa, imbarazzata, la presa di distanza così urgente oggi.
Se il dramma storico che stiamo vivendo non avesse una ben più vasta portata planetaria, verrebbe naturale proporre un’analogia col trauma vissuto quarant’anni fa in Italia dal popolo di sinistra, trovatosi improvvisamente alle prese con un partito armato che, in suo nome, praticava la violenza e il terrore. Dapprima la negazione –“sono provocatori, con noi non c’entrano nulla”- poi l’indulgenza per i “compagni che sbagliano”. Di mezzo quel riconoscere con disagio una terminologia comune, gli stessi simboli di riferimento, le biografie prossime, che Rossana Rossanda sintetizzò nella formula dell’“album di famiglia”.
Si parva licet, in presenza di una degenerazione oscurantista che insanguina due continenti, ricordiamo che il terrorismo di sinistra cominciò a perdere colpi quando la sinistra medesima ne riconobbe le origini e prese in prima persona l’iniziativa di combatterlo. Sul piano culturale, oltre che giudiziario. Correndo rischi e pagando un prezzo doloroso.
Chi ha la fortuna di vivere la propria fede religiosa musulmana nell’ambito di una cittadinanza democratica, deve comprendere che non siamo qui a chiedergli malintesi patti di sottomissione. Ma che senza un loro apporto di contrapposizione esplicita, a viso aperto, senza una revisione del linguaggio, senza la lungimiranza di una visione autocritica, senza il coraggio della contaminazione reciproca fra Islam e occidente di cui sono portatori, la guerra all’Is sarà ancora più lunga e dolorosa.
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