Andare in una fabbrica invece che al convegno di Villa d’Este è stato un colpo mediatico straordinario. Ma questa mossa ci deve fare riflettere anche su questioni più di sostanza: per dirla con un’espressione che fa molto anni settanta, sul rapporto tra masse, informazione e potere in Italia. Per capirlo, è utile chiedersi a chi e cosa serve una manifestazione come questa.
A chi servono questi convegni? Serve agli oratori? Per rispondere a questa domanda, basta chiedersi: quanti di questi oratori sarebbero andati al convegno se invece di avere un weekend pagato in una suite con vista sul lago in uno degli hotel più esclusivi del mondo, fossero stati ospitati in un hotel a quattro stelle a Sesto San Giovanni o a Crotone (con tutto il rispetto per queste due città, ovviamente)?
C’è poi una componente di reputazione: essere invitati a Cernobbio significa entrare nel novero di “quelli che contano”. Ma per far sapere che si è stati invitati, bisogna partecipare. Anche qui, niente a che vedere con la sostanza (ma chapeau agli organizzatori che hanno saputo conquistarsi e monetizzare questa fama).
Una volta invitati, cosa ci si deve aspettare? Un politico in carica ovviamente non ha il tempo di preparare un intervento di sostanza, che dica qualcosa di nuovo. E soprattutto non ne ha gli incentivi: se vuole fare una proposta dirompente (come gli ottanta euro, o l’abolizione dell’Ici, per fare due esempi recenti) non la farà mai in un convegno a porte chiuse, o in una tavola rotonda con qualche politico straniero in pensione.
Il convegno serve per creare o consolidare rapporti con altri potenti, cioè per fare networking – una specie di Rotary ad altissimo livello? Al giorno d’oggi le occasioni per comunicare con politici stranieri sono innumerevoli, anche troppe: dai vertici europei a quelli del G7 o del G20 o della Nato, agli incontri bilaterali. Anche qui, nessuno aspetta la tavola rotonda di mezz’ora o l’aperitivo delle diciotto all’Hotel Villa d’Este per esplorare nuovi scenari sul Medio Oriente.
Il convegno serve, si spera, ai partecipanti a pagamento, ma soprattutto da un punto di vista psicologico. Essi sborsano fior di soldi per poter dire che hanno sentito parlare Tizio o Caio su problemi “globali”, e magari si illudono di poter ottenere qualche dritta su dove andrà il mondo e l’economia. E serve, ovviamente, agli organizzatori.
Si potrebbe dunque concludere che questi convegni non fanno male a nessuno, e fanno bene all’ego e alle tasche di qualcuno, quindi perché occuparsene?
In realtà, comportano due costi per la collettività. Il primo è la superficialità dell’informazione che generano. Per un giornalista, Cernobbio significa avere a disposizione tante persone desiderose di farsi intervistare e di aprire il giornale il giorno dopo, per vedere se sono state riportate le loro parole o quelle di qualche altro invitato. Ma questa abbondanza può indurre in errore. Un politico, un sindacalista o un dirigente industriale italiano non dirà niente di più di quello che ha già detto centinaia di volte in altre sedi. E un politico straniero in pensione o un premio Nobel che si è occupato di economia matematica per tutta la vita, per quanto prestigiosi e molto compiaciuti di essere intervistati, potranno solo dire le solite banalità su una situazione che non conoscono: occorrono “riforme strutturali”, bisogna “investire di più nella ricerca”, etc.
Al giorno d’oggi, chiunque voglia seriamente informarsi su un problema trattato al convegno farebbe molto meglio a dedicare lo stesso tempo, e spendendo meno, a una buona ricerca sul web. Basta dare un’occhiata ai pochi documenti postati sul sito del convegno per rendersi conto della genericità e (in)consistenza della discussione. Innumerevoli centri studi e periodici postano invece studi seri fatti da specialisti. Ma per un giornalista è più facile, nonché professionalmente necessario, abbeverarsi alla fontana di Villa d’Este.
Il secondo costo di questi convegni è ancora maggiore, ed è politico. È ovvio a tutti che una buna parte degli italiani è molto disincantata nei confronti del potere politico, per usare un eufemismo. Lo spettacolo di politici che passeggiano con banchieri, industriali ed altri potenti della terra in esclusivi giardini rinascimentali per discutere, secondo la leggenda, dei destini del Paese, non può che rinforzare questo sentimento.
In questi giorni uno dei libri più venduti nella saggistica è un libro sul Bilderberg Group, ovviamente pieno delle nozioni più fantastiche sulle cospirazioni gestite dal gruppo. Moltissimi italiani (incluso il sottoscritto) non conoscevano nemmeno l’esistenza di questo gruppo, fino ad una malaugurata riunione a Roma in cui parteciparono, sembra, alcuni esponenti del governo Monti. Quella riunione non cambiò una virgola nel cammino dell’umanità, ma l’effetto mediatico e politico fu disastroso. Ne valeva la pena?
Questi convegni sembrano sempre più l’equivalente moderno (e fortunatamente meno cruento) delle famose foto della nomenklatura sulla piazza Rossa, durante qualche manifestazione di massa: le cariatidi del potere che salutano, mentre sotto tutti si interrogano su cosa stanno decidendo. Ignari del fatto che, nella gran maggioranza dei casi, non stanno decidendo proprio nulla, ma soltanto godendosi qualche vantaggio del potere e un momento di notorietà.
* L’ autore non è mai stato invitato al convegno Ambrosetti di Villa d’Este. Chi lo desidera è libero di interpretare queste articolo come un classico caso della volpe con l’uva. All’Hotel Villa d’Este ha partecipato, non remunerato, ad un convegno di Confcommercio nel 2012 (organizzato anch’esso dallo studio Ambrosetti), presentando una relazione scaricabile qui. L’autore ha inoltre fatto parte per un anno di un gruppo di lavoro, senza compenso, del World Economic Forum.
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