giovedì 18 settembre 2014

I regali che lo stato fa alla mafia.

PERCHÉ MUOIONO LE AZIENDE TOLTE ALLA MAFIA

Perché muoiono le aziende tolte alla mafia
La confisca dei beni alle cosche è una vittoria dello Stato e della legalità, ma ciò che accade dopo è meno esaltante: l'85% delle imprese sottratte alla criminalità finisce infatti per fallire, lasciando una scia di disoccupazione e di costi per le casse pubbliche. Colpa della burocrazia e di norme da rivedere, anche se non mancano gli esempi positivi da seguire
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Tra vizio d'origine ed errori dello Stato

di LUIGI DELL'OLIO
MILANO - 
Ce ne eravamo occupati due anni fa, Don Ciotti aveva lanciato l'allarme: "Così vincono loro". Ma niente da allora si è mosso, anzi, se possibile, le cose sono peggiorate. Uno dei casi più recenti ha riguardato il gruppo 6Gdo di Castelvetrano, sequestrato nel 2007 a Giuseppe Grigoli (provvedimento confermato nel 2013), ritenuto il cassiere del capomafia Matteo Messina Denaro. Dopo la confisca e ripetuti tentativi di rilancio, a fine maggio la società è stata dichiarata fallita dal Tribunale di Marsala. Così, adesso, i 250 dipendenti del gruppo sono oggetto di licenziamento collettivo da parte della Anbsc, l'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. E le cose vanno ancora peggio al personale dell'indotto, privo di qualsiasi tutela. 

La legge 109 del 1996 per il riutilizzo dei beni sequestrati alla criminalità organizzata ha compiuto da poco 18 anni e il bilancio fa emergere diverse zone d'ombra. La normativa ha consentito alla Stato di riprendersi migliaia di beni tra palazzi, appartamenti, terreni e aziende. 
VEDI QUI LE MAPPE INTERATTIVE DELLE CONFISCHE 
Ma sulle aziende i risultati sono stati al di sotto delle aspettative: quasi il 90% delle imprese confiscate ha chiuso i battenti. Le vittime principali di questo sistema sono i lavoratori, costretti a fare i conti prima con il boicottaggio dei vecchi proprietari durante la fase del sequestro, poi con le lungaggini della giustizia e un rimpallo di competenze che durano anni e lasciano andare in malora le strutture e gli impianti. Anche chi prova a costituire una cooperativa per rilevare l'attività d'impresa, spesso impegnando il proprio Tfr, si scontra con un muro di gomma e lo sbocco è quasi sempre la liquidazione della società.

Un meccanismo che genera sfiducia verso le istituzioni e porta molti a rimpiangere le vecchie gestioni, "che, quanto meno, lo stipendio a fine mese lo garantivano". Perché nelle terre martoriate dalla criminalità organizzata, a maggior ragione in periodi di crisi come questo, è quasi impossibile trovare un'altra occupazione che possa garantire un'esistenza dignitosa.

Si salva solo il 15% delle aziendeTranscrime, centro di ricerca che fa capo alla Cattolica di Milano e all'Università di Trento, ha analizzato la situazione delle aziende confiscate dal 1983 a oggi. Lo studio ha guardato sia il periodo prima del sequestro, quando ancora le imprese erano gestite dalle mafie, sia lo stato attuale di queste aziende. I ricercatori ne hanno ricavato stime (per la presenza di informazioni spesso frammentarie) impietose: il 65-70% delle imprese è in liquidazione, il 15-20% è fallita, mentre ne restano attive il 15-20%. Dati che si rivelano sostanzialmente omogenei per settori economici e territori di attività.  

Occorre, dunque, prendere atto del fallimento? Per Michele Riccardi, docente alla Cattolica e tra gli autori dello studio, le ragioni sono essenzialmente due: "In molti casi le aziende mafiose non sono intrinsecamente competitive e quindi, una volta riportate sul mercato legale, faticano a sopravvivere". Dallo studio emerge che spesso queste imprese non nascono con finalità imprenditoriali (massimizzare il profitto), ma per utilità criminali (riciclare denaro, controllare il territorio). Se restano sul mercato è solo grazie a mezzi illegali, dalla corruzione alle frodi negli appalti e contabili, dalle intimidazioni ai danni della concorrenza all'impiego di lavoratori in nero e materiali di scarsa qualità. Inoltre si tratta di realtà spesso piccole (nel 50% dei casi hanno un capitale medio tra 10 e 20 mila euro, per lo più Società a responsabilità limitata, Srl), giovani (in media dieci anni tra la costituzione e la confisca di prima istanza, ancora meno prendendo il sequestro), attive in settori a forte concorrenza (costruzioni, commercio al dettaglio, ristoranti e bar rappresentano circa il 60% di tutte le aziende confiscate) e in territori a basso sviluppo.

Con l'arrivo dello Stato le banche chiudono i rubinetti. Dall'analisi di Transcrime emerge, inoltre, che la competitività di queste aziende peggiora proprio negli anni precedenti il sequestro. La sensazione è che l'imprenditore mafioso "annusi" l'imminente intervento dello Stato e cerchi di disinvestire il prima possibile: non è un caso che, in media, le imprese mafiose abbiano molto più circolante rispetto a quelle legali, non solo per il loro uso strumentale e non produttivo, ma anche per velocizzarne la liquidazione. Lo stesso fanno le banche, riducendo i prestiti già diverso tempo prima del sequestro, come emerge dal paper "Aziende sequestrate alla criminalità organizzata: le relazioni con il sistema bancario", realizzato dalla Banca d'Italia. 

Luigi Donato, Anna Saporito e Alessandro Scognamiglio, autori dello studio, fanno due ipotesi al riguardo: la prima è che gli istituti di credito, venuti a conoscenza dell'avvio di procedimenti penali o di prevenzione, procedano già prima del provvedimento giudiziario - e proprio in vista dello stesso - a ridurre cautelativamente le proprie esposizioni. Infatti gli intermediari possono venire a conoscenza dell'esistenza di procedimenti giudiziari in quanto destinatari - nell'ambito della cosiddetta "collaborazione passiva" - di richieste di accertamento penale disposte dalla magistratura inquirente per ricostruire la posizione bancaria degli inquisiti. Oppure sulla base di informazioni diffuse dagli organi di stampa. Un'altra ipotesi verosimile, ma non verificabile, è che la proprietà criminale abbandoni o "svuoti le imprese oggetto di interesse da parte degli organi inquirenti". 

I costi della legalità. Le vere difficoltà nascono dopo. "Al momento del sequestro l'azienda - sia pure con le storture operative derivanti dall'infiltrazione mafiosa - è spesso una realtà ancora vitale", spiega lo studio della Banca d'Italia. "In quel momento la rotta potrebbe forse ancora essere invertita, o perlomeno potrebbe essere assorbito il contraccolpo del provvedimento giudiziario". Ma dopo l'avvio dell'amministrazione giudiziaria, sottolinea Riccardi, "queste aziende si trovano a fare i conti con una serie di ostacoli (burocratici, legali, tecnici, economici, sociali) che complicano l'amministrazione ordinaria.

Spesso le imprese sottratte alle mafie devono confrontarsi con il boicottaggio da parte di clienti, fornitori e popolazione, nonché con problemi di gestione e regolarizzazione del personale (spesso in sovrannumero e in nero)". Così, stare sul mercato in maniera competitiva diventa difficile, se non impossibile. Anche perché di pari passo, secondo le rilevazioni del Cerved, si chiudono ulteriormente i rubinetti del credito: tra il 2009 e il 2012, i finanziamenti assegnati alle imprese in amministrazione giudiziaria sono diminuiti mediamente del 5,4% annuo, mentre quelli concessi all'insieme di imprese operanti negli stessi settori e nelle stesse aree geografiche sono cresciuti dell'1,6%.

Come cambiare rotta"L'azienda mafiosa è florida e rimane sul mercato perché è una diretta promanazione dell'organizzazione criminale, perché ricicla danaro proveniente da traffici illeciti e non sconta i costi della legalità (fatturazione, regolarizzazione retributiva e contributiva dei dipendenti). In pratica, opera in un mercato drogato, non concorrenziale", sottolinea Maria Luisa Campise, segretario della commissione del disciolto Consiglio nazionale dei commercialisti in materia di amministrazione giudiziaria e neo eletto consigliere nazionale del Cndcec. "Dopo aver a lungo operato come monopolista, in seguito al sequestro si trova a fare i conti con un mercato concorrenziale, senza averne gli strumenti". Tutto ciò impedisce a queste aziende di rimanere competitive e proseguire l'attività. "Basti pensare che, relativamente alle aziende confiscate in via definitiva, su 1.707 realtà aziendali, soltanto 22 risultano attive con dipendenti e soltanto pochissime sono state riassegnate per usi sociali alle cooperative di dipendenti".

LA MAPPA DEGLI INVESTIMENTI MAFIOSI

Per invertire la tendenza, "innanzitutto i beni aziendali, così come quelli immobili, dovrebbero essere immediatamente assegnati, senza attendere la confisca definitiva", sottolinea Campise. "Sarebbe poi auspicabile l'istituzione di un fondo di rotazione, a disposizione delle autorità giudiziarie, per finanziare le aziende che presentano concrete possibilità di rimanere sul mercato. In terzo luogo, per scongiurare l'azzeramento degli ordini, sarebbe utile prevedere una sinergia tra le aziende sequestrate e confiscate per la rotazione delle commesse, assieme a una rete virtuosa che, coinvolgendo le associazioni rappresentative degli imprenditori, faccia rientrare l'azienda mafiosa in un circuito virtuoso".

Campise auspica anche "una completa rivisitazione della natura e delle funzioni dell'Agenzia nazionale che, per come oggi è strutturata, non funziona e necessita di un rigoroso restyling sia relativamente alle risorse umane impiegate, sia in materia di competenze attribuite, che andrebbero limitate alla gestione dei beni confiscati in via definitiva, ferma restando la fondamentale funzione di ausilio alla magistratura durante la fase giudiziaria". Per Riccardi la prima cosa da fare, anche se dolorosa, è invece evitare di salvare tutte le aziende sequestrate. "Alcune non lo meritano; anzi, i concorrenti legali avrebbero solo vantaggi dalla loro scomparsa. Altre sono in condizioni di bilancio tali da non poter essere salvate: in questi casi vanno liquidate il prima possibile, in modo da minimizzare i costi (compresi quelli dell'amministrazione giudiziaria) e liberare risorse, da concentrare sulle aziende meritevoli". Gli sforzi andrebbero, dunque, puntati solo su un numero ristretto di aziende.

Albo degli amministratori in standby. Va segnalato poi che non è ancora partito l'Albo degli amministratori giudiziari, anche se il termine inizialmente previsto era di 90 giorni dall'entrata in vigore del DLgs. 4 febbraio 2010 n. 14. "L'attesa continua", lamenta Domenico Posca, presidente dell'Istituto nazionale degli amministratori giudiziari, che ricorda i compiti spettanti a questa particolare figura professionale: "Non si tratta di un normale amministratore privatistico. La sua funzione deriva direttamente dall'autorità giudiziaria, con la quale si interfaccia. Per questo motivo non è chiamato solo ad amministrare l'azienda, ma contestualmente svolge un ruolo volto a ripristinare la legalità, anche attraverso attività informative". Dunque un ruolo vicino più a quello di un manager, che al generico incarico giudiziario da condurre attraverso lo studio di una controversia o di una perizia. "Il dato di fatto è che fin quando le aziende sono nella fase del sequestro penale preventivo o di prevenzione, riescono a restare sul mercato, malgrado le difficoltà finanziarie e organizzative. Ma spesso il passaggio di mano delle stesse aziende nella fase della confisca comporta una perdita di efficienza nella gestione, che inevitabilmente le porta alla scomparsa dal mercato con perdita di posti di lavoro e di asset importanti".

L'anomalia. Posca sottolinea un'anomalia. "L'inventario dei beni confiscati da parte dell'Anbsc risale al gennaio 2013". Del resto, la stessa Agenzia, più volte sollecitata in merito, non ha voluto contribuire a questa inchiesta giornalistica. "Per affrontare i problemi, occorre quanto meno conoscerli, ma il direttore dell'Agenzia - in audizione al Parlamento - non ha saputo nemmeno dare una stima di massima del valore di quelle confiscate". Per Posca non resta che selezionare, tra le aziende in amministrazione giudiziaria, "quelle attive e profittevoli sulle quali investire risorse e alle quali riservare trattamenti fiscali/previdenziali privilegiati da quelle per le quali non conviene che liquidare immediatamente con una procedura speciale".

Reperire risorse in una fase di spending review non sarà tuttavia facile. "Ma questa strada è praticabile sotto il profilo fiscale se si considera che la durata del sequestro rappresenta un unico periodo d'imposta con la determinazione finale del dovuto, a seconda della confisca definitiva o della restituzione", ribatte Posca. "Tanto più se si pensa che al termine del procedimento dovrebbe intervenire la confisca, quindi per lo Stato non vi sarebbe nessuna perdita, anzi un saldo attivo se l'azienda sopravvive". Interventi ai quali il presidente dell'Istituto chiede di abbinare una sanatoria delle sanzioni previdenziali ante-sequestro e il riconoscimento di sgravi contributivi per l'intera durata della procedura, oltre all'impegno del sistema bancario a mantenere inalterate le linee di credito. 

Se Cosa Nostra provoca rimpianti
di LUIGI DELL'OLIO
MILANO - Parlano di "patto tradito dallo Stato", di "un nemico invisibile con il quale combattere ogni giorno" e in alcuni casi rimpiangono la gestione mafiosa i lavoratori delle aziende fallite dopo essere finite in amministrazione giudiziaria. "Noi siamo qui e non ce ne andiamo. Presidiamo la struttura per evitare furti e distruzioni, ma dopo anni di attesa siamo stanchi. Aspettiamo un segnale dallo Stato", dice Mario Di Marco, direttore tecnico della Riela Group, azienda di trasporti di Belpasso (Catania), confiscata 15 anni fa a Lorenzo Riela, condannato all'ergastolo per omicidio. 

All'epoca della confisca, era la quattordicesima azienda più ricca della Sicilia, con un fatturato di 30 milioni di euro e 250 dipendenti. "L'arrivo dello Stato ci aveva dato la speranza di poter ripartire, seppur solo con 12 persone, ma le speranze sono state tradite", sottolinea De Marco. "Ma noi non ci arrendiamo: in dodici presidiamo costantemente la struttura e abbiamo costituito una cooperativa, con l'obiettivo di agire da base logistica a supporto di altre aziende sequestrate e confiscate". Di Marco racconta di aver ricevuto generale apprezzamento dalle istituzioni, ma senza ricadute concrete: "L'azienda è stata messa in liquidazione e la normativa non consente nemmeno l'affido temporaneo, fondamentale quanto meno per riattivare le utenze: avremo altri incontri con le autorità, ma sembra che la burocrazia sia più potente del buon senso nel nostro paese".

Anche i lavoratori dell'Antica masseria dell'Alta Murgia di Gravina (Bari), confiscata a nel 2001 a Saverio Sorangelo e poi fallita nonostante un tentativo di rilancio che aveva portato al coinvolgimento dello chef Gianfranco Vissani, non si capacitano di quanto accaduto. I 36 dipendenti sono stati licenziati nella primavera del 2012 e pochi di loro hanno trovato lavoro, in un'area che resta a elevata disoccupazione. "Alcuni rimpiangono la vecchia gestione, che quanto meno assicurava gli stipendi e sempre in maniera puntuale", commenta sconsolato uno di loro. In quattro per mesi hanno continuato a prendersi cura della struttura gratuitamente, in attesa di uno sbocco di mercato che non è arrivato. Hanno provato anche a costituire una cooperativa per rilevare parte dell'attività, in collaborazione con l'associazione provinciale antiracket, ma alla fine hanno dovuto arrendersi di fronte alla difficoltà di presentare garanzie adeguate. 

Roberto Margiotta è un magazziniere de gruppo 6Gdo, nonché Rsa della Filcams Cgil. "Soffermarsi troppo sullo sfogo, per quanto fuori dalle righe, di chi ha perso il lavoro è ingiusto", sottolinea. "Qui da noi nessuno mette in dubbio l'opportunità dei sequestri e delle confische di beni derivanti dalle attività criminali, ma siamo rammaricati per aver visto cadere nel vuoto tutti i nostri appelli ad affrontare la situazione per tempo, quando sono emerse carenze e incongruenze nella gestione commissariale, in modo da evitare che si arrivasse alla liquidazione, che abbiamo vissuto come una sentenza di condanna alla perdita del posto di lavoro". Negli ultimi giorni per l'azienda di Castelvetrano si è aperto uno spiraglio. L'Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Asnbc) sta lavorano a un progetto per affittare i punti vendita a un'altra società del gruppo sequestrata, ma non ancora confiscata. "Per noi rappresenta l'ultima speranza per continuare a credere nelle istituzioni", sottolinea Margiotta. "Non chiediamo soldi, né assistenzialismo, ma di poter continuare a lavorare in modo onesto".

Ad Altamura ha avuto un destino migliore la Dimora del Barone, albergo/masseria sequestrata allo stesso Sorangelo e affidata - dopo due anni di fermo - alla cooperativa Majorana, composta da neodiplomati e studenti dell'istituto alberghiero di Bari. La soluzione è stata possibile grazie alla decisione del Tribunale di Bari di affidare in gestione la sala ricevimenti senza aspettare la confisca definitiva, per evitare che finisse in malora. Un approccio simile è stato seguito per il Bar Italia, ubicato nella periferia sud di Torino, un tempo luogo di ritrovo delle 'ndrine in Piemonte, sequestrato a Giuseppe Catalano e affidato alla cooperativa sociale Nanà, legata a Libera. "Il sequestro ha riguardato la licenza e gli arredi, non i muri", ricorda la presidente della cooperativa Mara Josè Fava, "e questo ha consentito la rapidità dell'assegnazione". Nei mesi scorsi è arrivata la confisca definitiva e oggi il bar può contare su cinque soci-lavoratori. "Il sistema può funzionare a due condizioni: che si prendano decisioni con tempismo, per evitare che le aziende perdano i clienti e vedano andare in rovina le strutture, e che tutti prendano a cuore la vicenda e contribuiscano al riscatto sociale". Il riferimento è "non solo alle istituzioni, ma anche alla comunità locale, ai cittadini del quartiere, che nel nostro caso hanno dato da subito una risposta calorosa: è soprattutto grazie a loro se l'attività sta in piedi e garantisce occupazione a persone che arrivano da percorsi difficili".

La Ericina dalla mafia all'America's cup
di LUIGI DELL'OLIO
MILANO - "Abbiamo restituito allo Stato la fiducia accordataci in questi anni. Adesso siamo in grado di stare sul mercato con le nostre gambe". Giacomo Messina è presidente della Calcestruzzi Ericina Libera, cooperativa che ha ereditato l'attività dalla Calcestruzzi Ericina sequestrata al boss trapanese Vincenzo Virga nel 1996. 

Il corso della giustizia non è stato rapido, tra i diversi gradi delle pronunce giurisprudenziali e persino un tentativo di riacquisto da parte di un imprenditore all'epoca incensurato, ma che si è scoperto poi essere legato allo stesso Virga. Ci sono voluti ben 15 anni tra sequestro e confisca per arrivare all'assegnazione dell'azienda al nucleo di 11 dipendenti della passata gestione. "Un tempo lunghissimo, ma ce l'abbiamo fatta, grazie al contributo di quanti hanno creduto in noi", sottolinea Messina, che nella vecchia gestione era impiegato come ragioniere. "Oggi possiamo rivendicare di aver aumentato l'organico dei dipendenti di tre collaboratori in più rispetto al momento del sequestro e di essere l'unica azienda, sul tutto il territorio nazionale, sopravvissuta ai boicottaggi mafiosi, all'amministrazione da parte dello Stato ed essere stata assegnata alla cooperativa dei lavoratori". Messina insiste su un punto: "La salvezza delle imprese sequestrate alla criminalità organizzata non può prescindere da una rapida definizione del progetto di rilancio. Non si possono attendere i tempi della confisca per poi decidere a chi affidare i beni; il mercato ha bisogno di progettualità e risposte rapide". "Importante coinvolgere da subito i dipendenti, possibili futuri imprenditori in un contesto di squadra". 

Subito dopo il sequestro, l'azienda si è trovata in difficoltà perché nessuno le affidava commesse e ha sfiorato il fallimento. "E' stato grazie alla vicinanza dell'ex prefetto di Trapani Fulvio Sodano se siamo rimasti in piedi: in più occasioni si è espresso a livello pubblico sottolineando l'importanza di dare fiducia a un'azienda allora nelle mani dello Stato e la svolta è arrivata quando abbiamo partecipato ai lavori per riqualificare il porto di Trapani in vista della preparazione alla America's Cup". Nel frattempo, grazie alla sensibilizzazione dell'associazione Libera di don Luigi Ciotti, a un mutuo concesso senza garanzie (impossibili da produrre dato che i cespiti erano nella disponibilità dello Stato) da Unipol Banca e ai fondi Por regionali, la società è stata ricapitalizzata e sono stati effettuati gli investimenti per ammodernare gli impianti che stavano andando in malora. Il resto lo hanno fatto gli stessi ex-lavoratori, impegnando parte del loro Tfr per costituire il capitale sociale della cooperativa, che ha affittato l'intero complesso aziendale come previsto dalla legge n.109 del 1996. 

Il 2012, primo esercizio completo di attività della nuova entità imprenditoriale, si è chiuso con un fatturato di 1 milione di euro, mentre lo scorso anno il giro d'affari è cresciuto a quota 1,3 milioni. "Grazie alla progettualità messa in atto durante l'amministrazione da parte dello Stato accanto allo stabilimento principale è stato realizzato un impianto di riciclaggio dei rifiuti provenienti dalle costruzioni e demolizioni tecnologicamente all'avanguardia per il nostro Paese", sottolinea Messina, che vede nella diversificazione del business in chiave green la chiave di svolta per crescere ancora. 

Quanto all'impatto dei cosiddetti "costi della legalità", il suo pensiero è chiaro: "Siamo consapevoli che ci precludiamo una fetta del business perché rifiutiamo sotterfugi come la vendita di materiale in nero, ma abbiamo stretto un patto con lo Stato: l'aiuto ricevuto ci impegna a non sfuggire alle regole. Il profitto per noi è importante, come per qualsiasi altra azienda, ma sentiamo di avere anche un valore sociale, che mettiamo a disposizione della comunità. I nostri cancelli sono sempre aperti alle visite delle scolaresche e diversi laureandi hanno già scritto la tesi sulla nostra realtà d'impresa. "Non siamo degli eroi", conclude, "ma riteniamo di essere l'antimafia dei fatti e non solo delle parole. Bisogna fare ancora tanto sulla gestione dei beni aziendali confiscati, ma soprattutto occorre tutelare la legalità riconquistata".
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