Casta: i tentativi di aumentare le ore di lavoro dei parlamentari
Renzi contro i weekend lunghi. Ma la fronda bipartisan resiste. Dal Pd al Ncd, da Fi al M5s. Prima del premier ci avevano provato Iotti, Violante e Fini.
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16 Settembre 201Share on faceboo
(© Ansa) Matteo Renzi, presidente del Consiglio italiano.
Ma che significa lavorare di più? Ma che «l’assemblea legislativa è una catena di montaggio?». A Paolo Cirino Pomicino, 75 primavere, deputato per sei legislature e due volte ministro, la proposta del premier Matteo Renzi di abolire i weekend lunghi facendo faticare di più deputati e senatori proprio non piace.
Non è il solo, a dire il vero. Se a chiacchiere, infatti, sono tutti d’accordo nel potenziare l’attività parlamentare per dare il buon esempio e approvare le riforme, il giovedì a Montecitorio e Palazzo Madama c’è il fuggi-fuggi generale perché «c’ho il treno».
UN PARTITO TRASVERSALE. È quello che, con una battuta, potremmo definire il «partito del trolley». Ed è una forza trasversale: da destra a sinistra passando per il centro e i grillini. Prendete quanto accaduto lunedì 15 settembre, giorno in cui si sarebbero dovuti eleggere (finalmente) i due giudici della Corte costituzionale dopo i richiami del presidente della Repubblica e una settimana di veti incrociati dentro Forza Italia e Partito democratico.
EFFETTO FUMATA NERA. I due candidati scelti dai partiti, Luciano Violante e Donato Bruno, si sono fermati rispettivamente a 530 e 529 voti. Per essere eletti ne sarebbero serviti almeno 570. Altra fumata nera e necessario rinvio. La colpa? Dei soliti mal di pancia ma anche degli assenti: 55 in totale tra berlusconiani, Pd, Nuovo centrodestra («ma c’era la direzione nazionale del partito», si sono giustificati gli alfaniani), Popolari e Scelta civica.
SANTANCHÈ PER LO STRAORDINARIO. Il sasso comunque è stato lanciato nello stagno e se ne discuterà nelle prossime settimane. Secondo il bersaniano Miguel Gotor, per esempio, bisognerebbe potenziare il lavoro delle commissioni snellendo quello dell’Aula. Per Daniela Santanché (Fi), invece, si potrebbe addirittura pensare a uno «straordinario» in busta paga per coloro che lavorano dal lunedì al venerdì in modo che «quelli che stanno tutta la settimana prendono una determinata cifra e chi non va prende meno».
LAVORARE PER IL TEMPO NECESSARIO. «Deputati e senatori», attacca però Pomicino, «devono lavorare il tempo necessario ad approvare le leggi. Dire che bisogna stare in Aula anche il venerdì e il sabato è una sciocchezza perché i parlamentari, quelli veri, svolgono l’attività politica nei propri collegi». Per l’esponente centrista la questione casomai è un’altra: «Bisogna fare in modo che i tempi di percorrenza legislativa siano accettabili stabilendo una maggiore sinergia fra Camera e commissioni».
Non è il solo, a dire il vero. Se a chiacchiere, infatti, sono tutti d’accordo nel potenziare l’attività parlamentare per dare il buon esempio e approvare le riforme, il giovedì a Montecitorio e Palazzo Madama c’è il fuggi-fuggi generale perché «c’ho il treno».
UN PARTITO TRASVERSALE. È quello che, con una battuta, potremmo definire il «partito del trolley». Ed è una forza trasversale: da destra a sinistra passando per il centro e i grillini. Prendete quanto accaduto lunedì 15 settembre, giorno in cui si sarebbero dovuti eleggere (finalmente) i due giudici della Corte costituzionale dopo i richiami del presidente della Repubblica e una settimana di veti incrociati dentro Forza Italia e Partito democratico.
EFFETTO FUMATA NERA. I due candidati scelti dai partiti, Luciano Violante e Donato Bruno, si sono fermati rispettivamente a 530 e 529 voti. Per essere eletti ne sarebbero serviti almeno 570. Altra fumata nera e necessario rinvio. La colpa? Dei soliti mal di pancia ma anche degli assenti: 55 in totale tra berlusconiani, Pd, Nuovo centrodestra («ma c’era la direzione nazionale del partito», si sono giustificati gli alfaniani), Popolari e Scelta civica.
SANTANCHÈ PER LO STRAORDINARIO. Il sasso comunque è stato lanciato nello stagno e se ne discuterà nelle prossime settimane. Secondo il bersaniano Miguel Gotor, per esempio, bisognerebbe potenziare il lavoro delle commissioni snellendo quello dell’Aula. Per Daniela Santanché (Fi), invece, si potrebbe addirittura pensare a uno «straordinario» in busta paga per coloro che lavorano dal lunedì al venerdì in modo che «quelli che stanno tutta la settimana prendono una determinata cifra e chi non va prende meno».
LAVORARE PER IL TEMPO NECESSARIO. «Deputati e senatori», attacca però Pomicino, «devono lavorare il tempo necessario ad approvare le leggi. Dire che bisogna stare in Aula anche il venerdì e il sabato è una sciocchezza perché i parlamentari, quelli veri, svolgono l’attività politica nei propri collegi». Per l’esponente centrista la questione casomai è un’altra: «Bisogna fare in modo che i tempi di percorrenza legislativa siano accettabili stabilendo una maggiore sinergia fra Camera e commissioni».
Da Iotti a Violante e Fini: i tentativi poi naufragati
Quello dei parlamentari che lavorano troppo poco non è comunque un tema nuovo. La prima a interessarsi all’argomento fu Nilde Iotti, che fra il 1979 e i primi Anni 90 fu presidente della Camera. Poi, qualche anno dopo (1998), toccò all’allora numero uno di Montecitorio Luciano Violante intraprendere questa battaglia. L’ex capo della commissione Antimafia disse ai suoi: «Lavoriamo a pieno ritmo, cinque giorni su cinque, per tre settimane al mese. Poi l’ultima siete liberi di fare attività sul territorio». Ma non se ne fece nulla.
IL NODO DELLE FERIE. Ci riprovò Fausto Bertinotti (Rifondazione comunista) nel 2006, durante il breve periodo del governo Prodi, ma fu un altro buco nell’acqua. Stessa sorte è toccata ad altri presidenti della Camera come Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini, che si mostrarono sensibili sul tema. Il primo caricò a testa bassa i colleghi: «Il parlamento lavora poco, potremmo dovercene vergognare». Ma in parecchi fecero orecchie da mercante. L’ex leader di An e Fli cercò addirittura di ridurre i giorni di ferie. Sappiamo com’è andata.
AULE VUOTE. Di casi emblematici e scatti di Aule vuote ce ne sono parecchi. Per esempio fece scalpore, a maggio 2013, vedere la Camera con pochi presenti nel giorno in cui si discuteva la ratifica della convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne.
Nello stesso mese del 2012, per la discussione generale sul taglio dei finanziamenti pubblici ai partiti, si presentarono appena in 20. A giugno del 2013, infine, fu l’allora ministro della Difesa Mario Mauro a dirsi «profondamente amareggiato» nel vedere uno sparuto gruppo di deputati presenziare all’informativa urgente del governo sull’attentato in Afghanistan che causò la morte del capitano Giuseppe La Rosa.
I RECORD DELLA XIV E XV LEGISLATURA. Calcoli alla mano, dal 2000 a oggi, sono state la XIV e la XV legislature (governi Berlusconi II e III e Prodi II) a far registrare un numero di ore di permanenza in Aula bassissimo. Nel primo caso, se si prende a campione il periodo compreso fra giugno 2001 e novembre 2002, la media è di 16 ore di lavoro settimanali. Nel secondo la stessa è pressoché uguale: 16,5 ore ogni sette giorni.
Nel 2013 l’Ocse stilò la classifica dei primi 10 Paesi per rapporto fra orario di lavoro e retribuzione. Al primo posto c’era l’Olanda: 29 ore settimanali e 35 mila euro di stipendio l’anno. Evidentemente allo château de la Muette non conoscevano Montecitorio e Palazzo Madama.
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