21.08.14
L’agosto non ci ha portato la tanto agognata ripresa. Per milioni di italiani non è arrivata neanche l’estate e speriamo vivamente che l’abbinata crescita-estate non venga più evocata (è anche sbagliata perché avremmo bisogno di ben più che una sola stagione di crescita). In compenso sono arrivati i nuovi vertici della Federcalcio, uno sport che interessa tre italiani su quattro e che in un autunno non facile può essere di qualche conforto in un paese depresso.Si sperava in un profondo rinnovamento. Non tanto per la desolante apparizione ai mondiali in Brasile, ma perché l’interminabile leadership di Giancarlo Abete ha responsabilità rilevanti in un declino non meno profondo di quello del paese nel suo complesso. Le cifre parlano chiaro. Il pubblico sugli spalti degli stadi cala più del Pil, mediamente a un ritmo del 5 per cento ogni anno, le squadre professionistiche hanno visto nel giro di 6 anni raddoppiare il proprio debito, aumentato ancora di più in rapporto al patrimonio dopo che le squadre si sono private dei loro pezzi più pregiati (il patrimonio dei nostri club consiste quasi unicamente nel parco giocatori). Si è allargato lo spread fra i ricavi dei nostri club, concentrati quasi unicamente nei diritti Tv, e quelli delle squadre inglesi, spagnole e tedesche. Ci voleva una svolta, secca. Invece il ricambio dei vertici, in piena tradizione italica è avvenuto all’insegna della più sfacciata continuità col passato – cambiando tutto per non cambiare niente – e per giunta causando un danno d’immagine per il paese.
La Uefa ha aperto una procedura per “presunti commenti razzisti” contro il nuovo presidente della Federcalcio, Giorgio Tavecchio, secondo cui “chi gioca qui fino a ieri mangiava le banane e adesso gioca titolare”. Oltre a dimostrare l’inadeguatezza del personaggio, questa affermazione riportata dai giornali di tutto il mondo svela una totale incomprensione dei problemi dello sport più popolare in Italia. Il nostro calcio non è troppo aperto, ma è troppo chiuso. Non è certo perché arrivano da noi giocatori come Paul Pogba che il calcio italiano e i vivai soffrono, ma è vero esattamente il contrario. Abbiamo troppo pochi giovani campioni stranieri che, col loro esempio, farebbero enormemente crescere il settore e darebbero un esempio da imitare a milioni di aspiranti calciatori, oltre che ai loro giovani compagni di squadra. Il calcio italiano è troppo chiuso ai talenti e ai capitali esteri che, dato un pubblico potenziale senza eguali in Europa, potrebbero sulla carta essere molto interessati a investire sui nostri blasoni. Non lo fanno perché in Italia i cosiddetti «regolatori», vale a dire gli organismi, autorità e individui che dovrebbero vigilare sul rispetto delle regole, vengono sistematicamente catturati dai presidenti delle squadre e da coloro che dovrebbero essere da loro regolati. Ci sono troppe squadre professionistiche che dovrebbero portare i libri in tribunale e cui viene concesso di sopravvivere e violazioni sistematiche delle norme sportive oltre che gravi forme di corruzione. E’ un fenomeno non soltanto italiano, ma che da noi presenta caratteri di sistematicità e quasi scientificità che altrove non è dato trovare e che finiscono per ridurre le sanzioni sociali contro i comportamenti disonesti anche in altri campi. I giovani sognano e si identificano nei campioni, e questo dà al mondo del calcio una grande responsabilità, perché la sanzione sociale contro chi viola le regole si plasma anche (soprattutto nella mente dei giovani) sulla fermezza con cui si risponde agli illeciti sportivi. In un paese in cui non c’è ancora abbastanza sanzione sociale contro chi viola le regole e occupa indebitamente posizioni di potere, questo è un dato di cui tenere conto quando si cambia la governance del calcio. Eppure il nuovo Ct della nazionale, recentemente deferito per omessa denuncia per un caso di scommessopoli, ha voluto come primo atto eliminare il codice etico, invece di preoccuparsi, proprio alla luce del proprio passato, di farlo maggiormente rispettare. Un’altra cosa che chiude e impoverisce il nostro calcio e lo chiude all’estero è il potere delle tifoserie organizzate. Si è scelto di dare spazio in Federcalcio proprio ai presidenti che subiscono il loro ricatto, permettendo sistematicamente di portare petardi e oggetti contundenti sugli spalti. Bisognerebbe invece incentivare le società a ribellarsi e prendere iniziative autonomamente per garantire la sicurezza negli stadi senza gravare solo sulle forze dell’ordine, ingaggiando oltre agli steward anche degli addetti alla sicurezza pagati dalla società. Il primo atto del neo presidente della Federcalcio è stato invece un regalo agli ultrà con la cancellazione delle norme sulla discriminazione territoriale. Per quanto quelle norme fossero discutibili e di difficile attuazione, se non sostituite contestualmente con norme più stringenti contro la violenza fisica e verbale negli stadi e a favore delle società che identificano e denunciano alla polizia i teppisti, offrono un segnale di lassismo preoccupante e contribuiscono a svuotare gli stadi.
Tavecchio nel suo breve inizio è riuscito nel miracolo di far sin qui peggio della gestione Abete. Bene che ne tragga le conseguenze al più presto. Al suo posto non possiamo permetterci un altro presidente fantoccio. I presidenti che oggi governano il nostro calcio usano le squadre per trarne benefici strettamente privati, slegati dallo sport. Ci vuole una maggiore rappresentanza di milioni di tifosi non organizzati, magari attraverso il coinvolgimento, come in Germania, dei Comuni nella gestione delle squadre di calcio.
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