lunedì 11 agosto 2014

Occorre prendere atto che il razzismo è proprio nell'animo umano a prescindere dalla fede religiosa o dal luogo di nascita.


Il marchio dell’odio sulle case dei cristiani di Mosul

SABATO, 9 AGOSTO 2014

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Il marchio d’infamia è stato impresso in vernice nera, con bombolette spray e trasferibili, sulle case di Mosul da cui stanno fuggendo i cristiani iracheni: a noi sembra una mezzaluna sormontata da una stella, nell’alfabeto arabo è la lettera Nun, cioè l’iniziale di Nassarah, Nazareno, il termine con cui il Corano indica i seguaci di Gesù di Nazareth.
Un marchio, appunto. Imposto dalle milizie dell’autoproclamatosi califfo al-Baghdadi agli infedeli per i quali non c’è posto nello Stato islamico dell’Iraq e del Levante a meno che si convertano, soggiacciano a una speciale tassazione, subiscano la devastazione dei loro antichi luoghi di culto e la confisca dei beni. Evoca involontariamente un segno salvifico, la striscia di sangue tracciata sulle case degli ebrei schiavi in Egitto al fine di proteggerli dalla strage dei primogeniti. Ma non è certo il libro dell’Esodo a essere richiamato da questa odiosa schedatura. Semmai torna alla mente la stella di Davide imposta dai nazisti agli innocenti perseguitati per la loro origine etnica.
E’ stata una giornalista irachena di fede musulmana, Dalia al-Aqidi, a denunciare per prima l’abominio di Mosul. Dando vita a una campagna di solidarietà, “Siamo tutti Nun”, di cui si è fatta capofila la tv libanese LBCI. Un’altra donna coraggiosa, Dima Sadek, è apparsa in video indossando una maglietta recante quel simbolo. Il segno di una maledizione che dilaga a macchia d’olio là dove si dissolvono gli Stati-nazione mediorientali; e il fanatismo religioso ritorna a essere uno strumento di dominazione violenta. Non a caso il Libano, minuscolo paese-mosaico di numerose etnie e confessioni religiose, si rivela particolarmente angosciato dal riproporsi su vasta scala di un incubo che ha già vissuto nella sua sanguinosa guerra civile durata quindici anni dal 1975 al 1990. Minacciando i cristiani già a lungo perseguitati, ma anche gli sciiti, i curdi, gli ebrei, e gli stessi musulmani che rifiutano l’oscurantismo jihadista dell’Isis e delle altre affiliazioni fondamentaliste. Una galassia che si estende in forme differenziate, e con forti rivalità interne, fino ai salafiti e ai Fratelli Musulmani.
I guerrieri islamisti che si sono impossessati della rivolta popolare siriana contro la dittatura di Assad –anche per la colpevole inerzia delle democrazie occidentali che non hanno sostenuto per tempo le sacrosante istanze di libertà della primavera araba- manovrano cinicamente la leva del terrore. Hanno diffuso video crudeli di esecuzioni sommarie e crocifissioni, prima di questa vergognosa schedatura delle case. Ma non è certo la fede religiosa a muoverli. Sono miserabili saccheggiatori e violentatori di donne. Il loro è nè più nè meno un disegno di potere. La loro propaganda dell’Isis contempla remote minacce di sottomettere Roma, ma la loro strategia mira alla conquista delle capitali arabe, a cominciare da Bagdad e Damasco, scommettendo che subito dopo possano cadere nelle loro mani anche la fragile Giordania e la ricca Beirut. Vogliono portare a termine il disegno egemonico in cui ha fallito al-Qaeda. Sono crudeli ma realisti: la sfida a Israele non rientra nei loro piani immediati di conquista del mondo arabo.
Così la sfida lanciata contro le comunità cristiane dell’Iraq, costrette a una tragica fuga con cui viene recisa una convivenza millenaria, diviene il simbolo della volontà iconoclasta di fare tabula rasa della storia e della civiltà della regione. Se non venissero fermati in tempo, infine marcerebbero sulla Mecca e magari su Teheran. In un assetto mondiale sempre più pluralista e cosmopolita, l’Isis che perseguita i cristiani sembra rappresentare un anacronismo. Ma è invece il frutto avvelenato della fragilità delle democrazie, incapaci di presentarsi come modello realizzabile anche sulla sponda sud del Mediterraneo; riproposta come terra di califfati e emirati, dalla irachena Mosul alla libica Bengasi.
Gioca a loro favore il sostegno di cui troppo a lungo hanno goduto dittature spietate, proprio ora che, dopo il fallimento delle rivolte arabe, serpeggia fra gli Stati Uniti e l’Europa il miraggio della restaurazione: affidare di nuovo ai rais, come il generale egiziano Al-Sisi, la compromessa stabilità di tutta l’area.
Oggi il marchio Nun impresso sulle case dei cristiani offende la nostra coscienza e ci impone di non ignorare più a lungo il pericolo immanente. Viene da pensare alle nostre due giovani volontarie cattoliche, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, trascinate a Aleppo dal nobile impulso di fare del bene, di soccorrere i bambini siriani. Forse chi le ha sequestrate vuole solo realizzare un bottino economico, ma nello stesso tempo pretenderebbe di dirci che per i cristiani laggiù non c’è più posto, neanche quando si presentano con un ramoscello d’ulivo e con un sorriso disarmato.
L’idea che come al tempo delle crociate il mondo debba essere spartito per appartenenze territoriali conquistate con le armi –la terra dei musulmani, la terra dei cristiani, e nessuna terra per gli ebrei- è antistorica. Vuole indurre anche noi a cedere alla tentazione delle democrazie blindate declinanti sulla via dell’apartheid. Magari a marchiare per ritorsione le case dei musulmani. Ma questo non può essere il nostro futuro, questa sarebbe la nostra fine. Mi auguro che si levi forte, stavolta, e per prima, una voce civile dell’Islam, deturpato da quella lettera Nun.

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