Iraq, i racconti dei profughi yazidi: "Ho ucciso mia madre per non lasciarla ai carnefici dell'Is"
"Si è rotta una caviglia mentre fuggivamo dagli uomini in nero". Reportage dal Kurdistan iracheno
DOHUK (KURDISTAN IRACHENO) – Sono storie così terribili e crudeli, quelle che raccontano gli yazidi scampati al genocidio jihadista, da sembrare inverosimili. Ma per verificarne la veridicità basta leggere il terrore o l’agghiacciante sgomento che ancora traspaiono negli sguardi di chi le narra. Descrivono una sequela di torture e violenze compiute in nome di una fede sviata che fa capire come, due notti fa, il provvidenziale e improcrastinabile intervento dei corpi speciali americani abbia evitato una nuova Srebrenica, un nuovo Ruanda.
Yalmaz Shanin è uno dei tanti sopravvissuti alla furia islamista. Lo incontriamo alle porte di Dohuk, la città irachena dove molti di loro arrivano nella regione autonoma del Kurdistan iracheno percorrendo la strada lungo il confine siriano per aggirato la regione conquistata dallo Stato islamico. Yalmaz è un ragazzo di vent’anni, alto e magro, con gli occhi chiari e la barba fulva. Tre giorni fa ha ammazzato la sua adorata madre. Dice: «Quando sono arrivati i jihadsiti nel mio villaggio, vicino a Sinjar, hanno cominciato a uccidere tutti quelli che incontravano, sparando dalle macchine in corsa.
Tornando a casa, quel giorno, ho visto decine di cadaveri per le strade. Anche mio padre è morto così, colpito sull’uscio di casa. Non abbiamo neanche potuto seppellirlo: poche ore dopo, appena è tramontato il sole, ho preso il mio fucile e siamo fuggiti verso le montagne, mia madre, i miei due fratelli ed io. Ma appena abbiamo cominciato ad arrampicarci mia madre s’è storta una caviglia. Abbiamo provato a prenderla in braccio, ma senza riuscirci. In quel momento, sotto di noi, abbiamo sentito le urla e gli spari degli islamisti. Mia madre era terrorizzata, e mi diceva, anzi mi implorava di spararle affinché non fossero i jihadisti a farlo. Io non volevo darle ascolto, non volevo sentirla. Lei non riusciva a muoversi, e a un certo punto le ho sparato. E ho ucciso lei e me. Perché finché vivrò non potrò mai perdonarmi di averle ubbidito».
Incrociamo anche Jian a Dohuk, dove è appena sbarcata dopo un’odissea durata giorni, durante i quali questa giovane vedova ha perduto tutto ciò che aveva di più caro: i suoi gemelli di quattro mesi e suo marito. «Siamo stati denunciati come yazidi dai nostri vicini di casa, dei sunniti con i quali prima dell’arrivo dei jihadisti andavamo d’accordissimo. Eravamo terrorizzati che venissero ad ammazzarci a casa, e siamo scappati. Siamo rimasti quattro giorni nascosti in montagna. Avevamo trovato rifugio in una grotta, ma avevamo pochissima acqua con noi e quasi nulla di che nutrirci. Io non avevo più latte, e il quarto giorno i miei piccoli sono morti, uno dopo l’altro. Non sapevamo neanche come seppellirli, li abbiamo perciò avvolti in uno scialle e ci siamo incamminati verso una radura dove avremmo potuto inumarli. Mio marito è caduto, ha battuto la testa ed è morto anche lui. Io non mi sono più voltata indietro. E adesso sono qui, senza sapere che ne sarà di me».
Un logista di Medici senza frontiere, che per motivi di sicurezza preferisce mantenere l’anonimato, perché operativo al confine tra Siria e Iraq, proprio dove sbocca il biblico esodo degli yazidi dalle montagne, sostiene di averne visti passare almeno trentamila nell’ultima settimana. «In questi giorni, in cui ho distribuito tonnellate di cibo e migliaia di litri d’acqua a questa gente che arrivava affamata e assetata, ho sentito tante storie terrificanti.
Certo, le più terribili sono quelle che raccontano dei tanti bambini morti per disidratazione. Ma quelle più spaventose sono forse quelle che la gente non ha la forza di raccontare. L’altro ieri, per esempio, ho assistito all’arrivo dalla montagna di due ragazze adolescenti, spaventatissime, ma forse è meglio dire in stato di choc.
Non riuscivamo a parlare, non sapevano dove andare, non ricordavano neanche come si chiamavano né da dove venivano. Era come se non riuscissero a uscire dall’incubo che le perseguitava. Sono finalmente partite su un camion verso la Siria, per poi rientrare in Iraq. Chissà che cosa hanno vissuto? Chissà quale abbominevole martirio hanno subìto?»
Yalmaz Shanin è uno dei tanti sopravvissuti alla furia islamista. Lo incontriamo alle porte di Dohuk, la città irachena dove molti di loro arrivano nella regione autonoma del Kurdistan iracheno percorrendo la strada lungo il confine siriano per aggirato la regione conquistata dallo Stato islamico. Yalmaz è un ragazzo di vent’anni, alto e magro, con gli occhi chiari e la barba fulva. Tre giorni fa ha ammazzato la sua adorata madre. Dice: «Quando sono arrivati i jihadsiti nel mio villaggio, vicino a Sinjar, hanno cominciato a uccidere tutti quelli che incontravano, sparando dalle macchine in corsa.
Tornando a casa, quel giorno, ho visto decine di cadaveri per le strade. Anche mio padre è morto così, colpito sull’uscio di casa. Non abbiamo neanche potuto seppellirlo: poche ore dopo, appena è tramontato il sole, ho preso il mio fucile e siamo fuggiti verso le montagne, mia madre, i miei due fratelli ed io. Ma appena abbiamo cominciato ad arrampicarci mia madre s’è storta una caviglia. Abbiamo provato a prenderla in braccio, ma senza riuscirci. In quel momento, sotto di noi, abbiamo sentito le urla e gli spari degli islamisti. Mia madre era terrorizzata, e mi diceva, anzi mi implorava di spararle affinché non fossero i jihadisti a farlo. Io non volevo darle ascolto, non volevo sentirla. Lei non riusciva a muoversi, e a un certo punto le ho sparato. E ho ucciso lei e me. Perché finché vivrò non potrò mai perdonarmi di averle ubbidito».
Incrociamo anche Jian a Dohuk, dove è appena sbarcata dopo un’odissea durata giorni, durante i quali questa giovane vedova ha perduto tutto ciò che aveva di più caro: i suoi gemelli di quattro mesi e suo marito. «Siamo stati denunciati come yazidi dai nostri vicini di casa, dei sunniti con i quali prima dell’arrivo dei jihadisti andavamo d’accordissimo. Eravamo terrorizzati che venissero ad ammazzarci a casa, e siamo scappati. Siamo rimasti quattro giorni nascosti in montagna. Avevamo trovato rifugio in una grotta, ma avevamo pochissima acqua con noi e quasi nulla di che nutrirci. Io non avevo più latte, e il quarto giorno i miei piccoli sono morti, uno dopo l’altro. Non sapevamo neanche come seppellirli, li abbiamo perciò avvolti in uno scialle e ci siamo incamminati verso una radura dove avremmo potuto inumarli. Mio marito è caduto, ha battuto la testa ed è morto anche lui. Io non mi sono più voltata indietro. E adesso sono qui, senza sapere che ne sarà di me».
Un logista di Medici senza frontiere, che per motivi di sicurezza preferisce mantenere l’anonimato, perché operativo al confine tra Siria e Iraq, proprio dove sbocca il biblico esodo degli yazidi dalle montagne, sostiene di averne visti passare almeno trentamila nell’ultima settimana. «In questi giorni, in cui ho distribuito tonnellate di cibo e migliaia di litri d’acqua a questa gente che arrivava affamata e assetata, ho sentito tante storie terrificanti.
Certo, le più terribili sono quelle che raccontano dei tanti bambini morti per disidratazione. Ma quelle più spaventose sono forse quelle che la gente non ha la forza di raccontare. L’altro ieri, per esempio, ho assistito all’arrivo dalla montagna di due ragazze adolescenti, spaventatissime, ma forse è meglio dire in stato di choc.
Non riuscivamo a parlare, non sapevano dove andare, non ricordavano neanche come si chiamavano né da dove venivano. Era come se non riuscissero a uscire dall’incubo che le perseguitava. Sono finalmente partite su un camion verso la Siria, per poi rientrare in Iraq. Chissà che cosa hanno vissuto? Chissà quale abbominevole martirio hanno subìto?»
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