14/08/2014
Il “Far East” dei call center italiani
re al ribasso e leggi non rispettate, quando la delocalizzazione è (quasi) un obbligo
«Pronto signora, per disdire contratto deve mandare fax». Quella dall’altra parte del telefono è l’operatrice del call center della principale compagnia telefonica italiana. Ma di italiano, quella voce ha poco o nulla, se non i clienti con cui parlare. L’accento è dell’Est Europa, forse viene dall’Albania, dove negli ultimi anni molte aziende nostrane hanno spostato i centri di assistenza ai clienti. Solo a Tirana ci sono 40 call center che lavorano per l’Italia. Basta un corso di italiano, ed ecco che il lavoratore a metà prezzo è pronto a fare e ricevere telefonate. Certo il servizio a volte lascia a desiderare, per via delle difficoltà linguistiche. Ma mentre negli Stati Uniti, dopo anni di delocalizzazioni massicce ora le compagnie stanno facendo dietrofront vista la richiesta di servizi migliori da parte dei clienti, in Italia non c’è alcuna voglia di fare ritorno a casa. Anzi.
Tutti in Albania «I principali Paesi di destinazione sono Romania e Albania, ma ci sono anche diversi casi in Croazia, Tunisia, qualcosa in Marocco e anche in Sud America», spiega Riccardo Saccone, che per la Slc-Cgil (il ramo delle telecomunicazioni della Cgil) segue le vicende dei call center italiani. «Sono Paesi in cui c’è una maggiore conoscenza della lingua italiana e ci sono diversi casi di immigrazione di ritorno dall’Italia, soprattutto con la crisi. In Romania, poi, sappiamo che le aziende italiane stanno anche investendo in corsi di lingua per i dipendenti».
Ci si sposta nei Paesi in cui c’è una maggiore conoscenza della lingua, e molti lavoratori sono immigrati di ritorno dall’Italia
Nella migrazione dei call center italiani ci ha messo lo zampino pure l’Ilo, International Labour Organisation, che con i fondi dell’Unione europea sta finanziando interventi in Albania per favorire il rientro in patria, tramite i call center, degli immigrati che non trovano lavoro in Italia o che con la crisi lo hanno perso. Per le aziende italiane interessate a tagliare i costi sul personale diventa di certo un buon incentivo a delocalizzare, denunciano i sindacati. Gli immigrati albanesi in Italia, che quindi parlano già fluentemente la lingua, in questo modo vengono reclutati come lavoratori nel loro Paese d’origine, con un costo del lavoro «che è la metà della metà di quello italiano», dice Saccone. Senza contare «tutti i risparmi in termini di sicurezza e ambiente di lavoro che si fanno in questi Paesi». Sul suo sito web, l’Ilo racconta la storia una 28enne albanese, con una laurea italiana in tasca, ma che nel nostro Paese non è riuscita a trovare un lavoro. Così dopo 13 anni, grazie ai fondi europei, è tornata in Albania. E mentre lavora part time per uno studio legale dice di essere «felice di aver trovato un lavoro nel nuovo call center italiano che ha aperto a Durazzo». Dei 200 lavoratori assunti dalla nuova struttura, 30 sono immigrati di ritorno dall’Italia.
«Non vogliamo scatenare una guerra tra lavoratori», dice Saccone, «ma ci dobbiamo rendere conto che questi non sono imprenditori romeni e albanesi che vengono aiutati a fare impresa. Sono italiani che vanno lì sono per una questione di riduzione del costo del lavoro, lasciando a casa i lavoratori italiani».
Le leggi ci sono, ma non le rispettiamo D’altro canto in Italia la regolamentazione del settore è un vero e proprio Far West. Una norma da seguire nel caso di una delocalizzazione c’è, e si trova nel dl sviluppo (articolo 24 bis del decreto legislativo 83/2012) di due anni fa, in cui si dice - per esempio – che le aziende che intendano spostare la loro attività, o parte delle loro attività, all’estero debbano comunicarlo almeno 120 giorni prima al ministero del Lavoro. Il decreto sospendeva anche l’erogazione degli incentivi «ad aziende che delocalizzano attività in Paesi esteri», ma la norma poi è stata in parte mitigata da una circolare con la quale il ministero del Lavoro ha limitato le restrizioni solo alle delocalizzazioni verso “paesi extracomunitari”. Lo stesso decreto prevede poi che il cittadino-cliente debba essere informato sul luogo fisico in cui vengono gestiti i suoi dati personali, permettendogli di rifiutare il trattamento dei propri dati dall’estero. «In teoria», spiega Saccone, «quando il cliente chiama dovrebbe sentire una voce che dice più o meno: “Preferisce un operatore dall’estero o uno italiano?”. Ecco, questa legge non viene rispettata. L’unica cosa che dicono alcuni operatori è: “Sto rispondendo dall’estero”. Ma è un diritto del cittadino scegliere se vuole un capo sartoriale made in Italy o un capo comunque buono che viene dall’estero. Lo stesso deve avvenire con i servizi di assistenza telefonici».
Eppure non è la delocalizzazione la causa di tutti i mali del settore. Semmai «la delocalizzazione è solo la risposta all’assenza di regole». Per capire di cosa parliamo baste riavvolgere il nastro dello sviluppo dei call center in Italia, che negli ultimi anni ha seguito l’odore dei soldi e del risparmio.
“La delocalizzazione è solo la risposta all’assenza di regole”
Fino al 2006 i centri di inbound(quando è il cliente a chiamare) e outbound (quando è l’operatore a telefonare al cliente) sono spuntati come i funghi, e senza alcuna regola. Il libro di Michela Murgia, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria (a cui poi Paolo Virzì nel 2008 si ispirerà per il film Tutta la vita davanti) proprio nel 2006 aveva tracciato una fotografia del precariato selvaggio dietro le cuffie. Ma nel 2007 qualcosa sembra cambiare e le regole (poche) entrano in un settore che fino a quel momento era il caos: grazie all’intervento del governo vengono regolarizzati e assunti a tempo indeterminato 26mila dipendenti, quasi tutti part time. Con le leggi sugli incentivi all’occupazione e i fondi strutturali europei è arrivata poi la prima “delocalizzazione”: i call center hanno preferito emigrare dal Centro Nord al Sud Italia per accaparrarsi i fondi pubblici, e proprio nel Mezzogiorno ancora oggi viene dirottata gran parte delle telefonate di molti clienti (il 47% delle aziende si trova al Sud).
Di certo la crisi non ha aiutato. Così tra la scarsità di risorse e la competizione tre le imprese sempre più numerose, è partita una gara al massimo ribasso, di cui lo spostamento fuori dall’Italia è solo l’ultimo degli effetti. Le tariffe degli appalti hanno cominciato a calare a picco, la richiesta di ridurre i costi, le minacce di cambiare fornitore da parte delle aziende e i cambi continui di società appaltanti hanno spinto al ribasso i prezzi, e si è rastrellato sempre più nel pozzo degli incentivi e degli ammortizzatori sociali di Stato, diventati una sorta di conditio sine qua non per aprire un’impresa - salvo poi chiudere una volta finita l’acqua dei fondi pubblici, come è avvenuto ad esempio per Phonemedia-OmiaNetwork, che solo in Calabria ottenne 11 milioni di euro dai Fondi strutturali europei e poi lasciò a casa 12mila lavoratori allo scadere dei benefici.
Perché la concorrenza, nel settore, si gioca ormai sul filo del costo del lavoro. I committenti premono per prezzi più bassi. Così meno paghi, più riceverai commesse, più sarà ampio il margine di guadagno. E sono le stesse gare pubbliche che scelgono soluzioni al massimo ribasso. Assocontact, associazione delle imprese in outsourcing dell’assistenza al cliente, lo scorso aprile ha presentato un ricorso e ha invitato a boicottare la gara per l’appalto del call center 020202 del Comune di Milano: era prevista una remunerazione di 45 centesimi per minuto lavorato, che corrisponde a 18 euro per lavoratore, a fronte di un costo per l’azienda che arriva ai 17,79 euro. Guadagno: pochissimo. Unica soluzione: mandare via qualcuno e spremere al massimo chi resta. Altrimenti, c’è sempre l’Albania. Tanto che a fine 2013 gli stessi sindacati hanno firmato un accordo in cui si accettava una riduzione dello stipendio in ingresso per gli outbound pur di tenere le aziende dentro i confini. Ma non è servito a molto. I processi di delocalizzazione inizialmente hanno coinvolto le attività di outbound, ma poi si sono estese anche all’inbound. Ad oggi, la Cgil calcola che il 10% dei call center si trovi fuori dai confini nazionali, di cui oltre la metà in Paesi extra europei. E «il fenomeno è in aumento».
Sono le stesse gare pubbliche che scelgono soluzioni al massimo ribasso
Il percorso è questo: dopo tre anni, finiti gli incentivi all’occupazione, un’azienda diventa meno competitiva rispetto a chi apre ex novo e che beneficia di un costo del lavoro minore (480 milioni la spesa prevista in ammortizzatori sociali e incentivi nel solo triennio 2012-2014, secondo Slc-Cgil). Quindi se prima i call center si sono spostati dal Nord al Sud dell’Italia, il secondo passaggio ora è la migrazione verso Est. Tanto che «le aziende che non delocalizzano e rispettano le regole perdono le commesse a favore di chi delocalizza le attività o adotta comportamenti illeciti nella gestione del personale». E l’altro risultato è che abbiamo il maggior numero di aziende di call center in Europa: in Italia sono 2.227, anche se solo dieci rappresentano il 67% del settore. Settore che se da un lato richiede ai propri lavoratori sempre più produttività oraria e sempre nuove competenze soprattutto informatiche, dall’altro però non gode di standard minimi di qualità. «Le verifiche», spiega Riccardo Saccone, «vengono fatte da istituti di ricerca pagati dalle stesse aziende. Cioè il controllato paga il controllore. Ma se Telecom paga un istituto di ricerca, quello dirà mai che fa schifo il suo servizio?». L’ultima direttiva dell’Agcom sulla qualità dei servizi del settore risale però al 2009. «Al ministero dello Sviluppo economico abbiamo anche incontrato un rappresentante dell’Agcom», racconta Saccone, «che ha ammesso che occorre intervenire, come avviene negli altri settori, per monitorare il comparto anche con verifiche e sanzioni».
La non continuità nei cambi di appalto Quello che manca, insomma, è una norma che non solo regoli le delocalizzazioni, ma anche i continui cambi di appalto. Una delle richieste in gioco è quella dell’applicazione al settore dell’articolo 2112 del codice civile, che serve a garantire che alla fine di una commessa i posti di lavoro siano mantenuti nel passaggio dalla società uscente a quella entrante come nelle cessioni di parti d’azienda. Se per esempio un committente sceglie un’altra azienda per spendere di meno (cosa che accade sempre più spesso) e disdice l’appalto, i lavoratori non seguono la commessa. Prendiamo quello che sta accadendo a Palermo: British Telecom ha disdetto il contratto di appalto con Accenture outsourcing e 260 lavoratori rischiano il posto, non potendo seguire la commessa.
L’Italia, al contrario di altri Paesi europei come Germania e Inghilterra, non ha recepito infatti la direttiva europea 23 del 2001 che equipara il cambio di appalto alla cessione del ramo di azienda, per la quale è invece previsto l’obbligo della continuità degli assunti. «I grandi operatori della telefonia sono contrari», spiega Saccone, «perché dicono che in questo modo una leva competitiva verrebbe meno. Ma che Paese è il Paese che basa la competitività delle aziende sulla riduzione del costo del lavoro della fascia più debole dei lavoratori?».
L’Italia non ha recepito la direttiva europea che equipara il cambio di appalto alla cessione del ramo d’azienda
«Le follie generate da un vuoto normativo presente solo nel nostro Paese generano ulteriore disoccupazione con costi enormi a carico delle casse dello Stato, mentre la committenza, Enel, Wind, Con Te Assicurazioni, Poste Mobile, Vodafone, Telecom, Eni e, anche, il Ministero del Lavoro, continua fare utili a scapito dei lavoratori», commenta Michele Azzola, segretario nazionale Slc Cgil. «È un sistema insostenibile. Da un lato la qualità che viene offerta ai cittadini-clienti è sempre più bassa a causa del continuo spostarsi delle commesse che non consente una professionalità adeguata dei lavoratori, con lamentele causate dai disservizi in crescita e cittadini che si rivolgono ai call center sempre con maggiore disagio. Dall’altro un dramma sociale che aumenta di giorno in giorno nella totale assenza di un intervento della politica e del governo. Tanta attenzione riservata alla vicenda Alitalia mentre si stanno perdendo migliaia di posti di lavoro nell’unico settore che è stato in grado di garantire assunzioni ai giovani nell’ultimo decennio».
Per i call center in Italia oggi lavorano 80mila persone, soprattutto donne e giovani. I contratti, nel 60% dei casi, sono a tempo indeterminato. E il tasso di turn over, come ha rivelato una recente ricerca di Assocontact, è bassissimo. Cosa che, per giunta, fa anche aumentare il costo del lavoro per via degli scatti di anzianità. I call center, soprattutto al Sud, hanno rappresentato e rappresentano ancora una delle poche occasioni che si trova di fronte un giovane dopo gli studi, o una donna che non ha a disposizione i servizi alla famiglia necessari per poter lavorare full time. Ma la lista dei tavoli di crisi che i sindacati stanno discutendo al ministero dello Sviluppo economico è lunga: 280 lavoratori a rischio per British Telecom a Palermo (fornitore di telefonia anche per il ministero del Lavoro); quasi 2.000 i posti in bilico per Infocontact in Calabria; 200 dipendenti in pericolo per Voice Care che a Ivrea ha perso la commessa di Seat Pagine Gialle; a Taranto Teleperformance ha annunciato la chiusura della sede con 1.500 lavoratori coinvolti; 400 i lavoratori di 4you che da Palermo ha annunciato la volontà di delocalizzare.
Il 4 giugno scorso, in piazza della Repubblica, erano in 7mila (numeri dei sindacati) i dipendenti dei call center a scioperare per il No Delocalizzazioni Day, accompagnati anche da qualche rappresentante di azienda che della pressione al ribasso non ne può più. Per un giorno, in tanti, hanno attaccato le cuffie al chiodo. «Nonostante l’ampio riscontro dello sciopero del 4 giugno e gli impegni assunti per individuare opportune soluzioni, il settore ha avuto una nuova accelerazione in direzione esattamente opposta», dice Azzola, «con la condizione per cui nelle prossime settimane potrebbero essere più di un migliaio i lavoratori che perderanno il posto di lavoro. Posto di lavoro perso non in quanto non esiste più, ma unicamente perché spostato in altro territorio o, spesso, al di fuori dei confini nazionali. È ormai evidente che il tempo non è neutro rispetto alla decisione di un intervento sul settore».
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