mercoledì 13 agosto 2014

Cambiare l'Italia eliminando i privilegi delle caste.

Partitocrazia: lo Stato occupato dai partiti per i loro interessi, non i nostri

La foto di di Salvatore Sfrecola
Preside e animatore di quella straordinaria fucina di cultura giuridica e politologica che è stato negli anni ’70 l’Istituto Cesare Alfieri di Firenze, Giuseppe Maranini nei sui editoriali sul Corriere della Sera e poi nel libro Storia del Potere in Italia 1848-1967 va alle radici dello stato liberale e delle sue istituzioni, lui che aveva esordito sulla scena universitaria nel 1926 con uno studio su Le origini dallo Statuto Albertino (la sua tesi di laurea) con prefazione dello storico Arrigo Solmi, per sottolineare il “senso dello Stato” che aveva caratterizzato l’avvio dell’esperienza unitaria pur nel confronto, anche aspro, delle forze politiche, quando la conquista del potere non era ancora degenerata nell’assoggettamento delle istituzioni alla politica ed ai partiti, un insegnamento che condizionerà per molti aspetti perfino l’era della dittatura fascista.
Tanto che il cavalier Benito Mussolini, che non aveva avuto scrupoli nella conquista del potere minacciando la guerra civile e nella occupazione delle poltrone, mantenne sempre un atteggiamento formalmente rispettoso nei confronti delle istituzioni dello Stato, dal Senato del Regno alla Magistratura, tanto che quando volle farsi giustizia da sé, si potrebbe dire, istituì con la legge 25 novembre 1926, n. 2008 (Provvedimenti per la difesa dello Stato) il “Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato”. Non pensò di imporre ai giudici dello Stato l’accertamento di “reati” di natura “politica” né impegnò magistrati di carriera ma militari. Anche il relatore, senza diritto di voto, era scelto tra il personale della giustizia militare.
Ugualmente, nella gestione della pubblica amministrazione, il regime attuò un sistema di controlli preventivi e successivi affidati dalla legge di contabilità generale dello Stato alla Ragioneria Generale che, si ricorda a via XX Settembre, il Duce rispettò sempre nelle sue valutazioni sulla legalità e regolarità dei singoli provvedimenti di spesa.
Ugualmente nei confronti della Corte dei conti, le cui attribuzioni di controllo e giurisdizionali furono riordinate nel testo unico del 1934 (il R.D. n. 1214 del 12 luglio), il Governo fascista mantenne un atteggiamento rispettoso, come dimostra il numero elevato di registrazioni “con riserva” effettuate nel periodo.
Non stupisca la considerazione “positiva” nei confronti dell’istituto. La registrazione “con riserva”, in caso di contrasto non sanabile con la magistratura di controllo, attua un’assunzione di responsabilità politica nei confronti del Parlamento in ordine a provvedimenti dei quali il Consiglio dei ministri delibera che debbano “aver corso” nonostante il diniego della Corte dei conti in punto di legittimità. In sostanza Mussolini ed i suoi ministri non sceglievano la strada di intimidire il Presidente della Corte dei conti o il magistrato competente perché registrasse il provvedimento né cercavano di blandirlo con promessa di futuri incarichi o di altre utilità. Gli uni e gli altri rimanevano sulle distinte posizioni nel rispetto dei rispettivi ruoli.
Questo atteggiamento, frutto della cultura liberale che ancora permeava lo Stato con il giuramento di fedeltà al Re dei pubblici dipendenti, era assicurato da una parte della classe dirigente fascista di origine nazionalista, come De Stefani o Federzoni, ma anche Gentile o Grandi, che teneva al ruolo di “uomo di Stato”, come dimostra il duro confronto in Gran Consiglio nella drammatica notte del 25 luglio 1943.
La vita politica nell’Italia del dopoguerra è, poi, progressivamente degradata, per cui la “partitocrazia” denunciata da Maranini, con svilimento progressivo del ruolo delle istituzioni, in primo luogo del Parlamento, composto da “nominati”, ben prima che fossero eliminate le preferenze, perché erano comunque i partiti e le correnti di partito a designare i candidati tra i quali gli elettori erano chiamati a scegliere. Ugualmente la “Partitocrazia” prevedeva che fossero i partiti a scegliere i presidenti degli enti pubblici dai quali o per mezzo dei quali giungevano ai segretari amministrativi, come ricordano le drammatiche cronache televisive degli interrogatori dinanzi al tribunale di Milano, tra gli altri, di Citaristi, di Craxi e di Forlani, gli ingenti finanziamenti necessari per sostenere i “costi della politica”, le burocrazie e le scuole di partito, i convegni e le associazioni di categoria e culturali fiancheggiatrici.
Quanto ai controlli di legalità è stato un continuo erodere le attribuzioni dei giudici e dei pubblici ministeri. E per la materia attribuita alla Corte dei conti, dopo un primo intervento positivo posto in essere dal presidente del Consiglio Giuliano Amato che avviò all’inizio del 1993 il decentramento della giurisdizione contabile con istituzione nei capoluoghi di regione di Sezioni giudicanti ed uffici del Pubblico Ministero, un fatto di per sé essenziale per perseguire i fatti causativi di danno erariale stando vicino a dove gli illeciti sono stati prodotti, è iniziato uno stillicidio di disposizioni normative, sempre introdotte con decreti legge convertiti con voto di fiducia, che hanno introdotto limiti all’iniziativa del Procuratore contabile che di fatto impediscono l’approfondimento delle più rilevanti fattispecie di danno, in particolare in vicende riguardanti la realizzazione di opere pubbliche.
Per le fattispecie di danno derivanti da forniture di beni in società partecipate, poi, la giurisprudenza della Corte di Cassazione è ferma a distinguere tra danni provocati all’ente partecipante, che riconosce alla giurisdizione della Corte dei conti, e danni subiti dalla società partecipata che ritiene debbano seguire le ordinarie azioni societarie previste dal codice civile. Anche quando la società è partecipata al 100% dall’ente locale che inevitabilmente dovrà far fronte, sia pure in modo indiretto con il classico aumento di capitale, al danno che nessun amministratore sarà chiamato a risarcire.
Passando dalla seconda alla terza Repubblica le cose non sono migliorate. Travolti nel 1992 dagli scandali accertati dall’inchiesta “mani pulite” della Procura della Repubblica di Milano, che nel giro di pochi mesi hanno mandato in soffitta Democrazia Cristiana e Partito Socialista e costretto il Partito Comunista a cambiare ripetutamente nome, molti dei protagonisti dell’epoca sono ancora in campo, in politica e negli affari.
I partiti continuano a riempire di fedelissimi i consigli di amministrazione di enti e società a capitale pubblico, nazionali e locali nei quali vengono collocati amici e collaboratori di chi oggi detiene il potere. Anzi si sono creati più posti disponibili per i politici perché, con il decreto legge di riordinamento della P.A., è stato vietato ai funzionari di partecipare ai consigli di amministrazione in rappresentanza dei ministeri.
Si sente anche dire che saranno eliminate moltissime delle migliaia di aziende e società partecipate dagli enti locali. L’idea è certamente condivisibile. Ma come sarà attuata? Perché i partiti dovranno trovare il modo per “ricollocare” quegli stessi clientes che prima sedevano nei consigli di amministrazione e nelle posizioni amministrative di vertice. Poi ci sono e ci saranno i parlamentari, i consiglieri regionali, provinciali e comunali non rieletti o eliminati a seguito della riforma della province.
Sappiamo che la fantasia dei politici è particolarmente fervida, alimentata dalla necessità di risolvere i “problemi”, che non sono quasi mai quelli degli italiani dei quali, a parole, molto si preoccupano.

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