martedì 6 gennaio 2015

Acco perché i sindacati nullafacenti devono andare a casa. Difendono i privilegi di fannulloni e indicano i dirigenti che devono fare carriera per poterli controllare. Via a casa.

Ricolfi: «In Italia ci sono 10 milioni di esclusi»

Per il sociologo, è ora di occuparsi della “terza società” fatta di disoccupati e lavoratori in nero
CRISTINA QUICLER/AFP/Getty Images

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Raramente è banale quando scrive, Luca Ricolfi. E nemmeno il suo debutto come editorialista del Sole 24 Ore lo è stato. In un articolo dal titolo “Le due parti in commedia del Governo Renzi e il partito che non c‘è”, il sociologo torinese ha tratteggiato l‘esistenza di un gruppo sociale emergente, che lui chiama "terza società”, che nessuno rappresenta e della quale nessuno si occupa, men che meno il governo: «Qualcuno lo ha letto come un intervento a favore degli ultimi - precisa a Linkiesta -, ma io non avevo in mente gli ultimi, bensì gli esclusi. Nella terza società c‘è molto ceto medio. Anzi, forse c‘è più ceto medio che altro».
Parliamone, allora. Cos‘è la "terza società", professor Ricolfi? Chi ne fa parte?
Ho fatto dei calcoli e sono arrivato a dividere l‘Italia che lavora o che vorrebbe lavorare - 32 milioni di individui circa, vecchi e bambini esclusi - in tre segmenti: la prima società, quella delle garanzie, fatta di dipendenti pubblici e dipendenti privati protetti dall’articolo 18; la seconda, quella del rischio, fatta di liberi professionisti, commercianti, artigiani, lavoratori autonomi, dipendenti privati delle imprese minori; e la terza società, per l‘appunto, composta di persone disponibili e interessate a un lavoro regolare - non illegale o in nero - che tuttavia non hanno accesso a questo tipo di lavoro.
Perché ritiene che oggi sia importante parlare della “terza società”?
Perché un tempo questo pezzo di società era in qualche modo marginale, mentre oggi, per la prima volta, appare dello stesso ordine di grandezza delle altre due. Dieci, undici milioni di persone, più o meno equamente divise tra chi è disoccupato, chi lavora in nero e chi non cerca più lavoro perché è scoraggiato, ma se potesse lavorerebbe.
Lei dice che la terza società è fatta di esclusi, non di ultimi. In che senso?
Nel senso che non è solo in questo segmento che si annida la debolezza. Ci sono persone che sono deboli e fragili anche nella società delle garanzie, come ad esempio gli operai di una grande impresa con un orario di lavoro molto ridotto, e non per propria volontà. Così come ve ne sono nella società del rischio, come le false partite Iva nei settori dei servizi. La differenza basilare tra questi ultimi e la “terza società” è che gli uni sono dentro, gli altri sono fuori.
E come si fa a riportarli dentro?
Oggi in Italia mancano sei milioni di posti di lavoro...
Il Jobs Act può concorrere a crearne qualcuno?
Non sono molto ottimista. Secondo i calcoli che abbiamo fatto come Fondazione David Hume, il Governo spenderà circa 5 miliardi di euro all‘anno di decontribuzione per creare non più di 50, 60mila nuovi posti di lavoro aggiuntivi. Di questi soldi, peraltro, usufruiranno anche diverse imprese che di posti di lavoro non ne creeranno alcuno.
Dove hanno sbagliato, secondo lei?
Noi abbiamo una proposta che si chiama Job Italia e si fonda sull‘idea di introdurre una decontribuzione molto incisiva. Per dare dei numeri: fatta 100 la retribuzione in busta, noi vorremmo portare il costo del lavoro a 125. Questo tipo di contratto, tuttavia, vorremmo riservarlo esclusivamente alle imprese che aumentano l‘occupazione rispetto l‘anno precedente.
Lei pensa che questo contratto possa effettivamente aumentare l‘occupazione in Italia?
Secondo i nostri calcoli, il moltiplicatore legato a una proposta simile sarebbe almeno di due. Tradotto: se l‘anno prossimo le imprese avessero in mente di creare 300mila nuovi posti di lavoro, con questo contratto se ne creerebbero 600mila. C‘è di più, peraltro.
In che senso?
Nel senso che è un contratto che si autofinanzia attraverso l‘aumento del Pil. Il gettito aggiuntivo che i nuovi posti di lavoro generano è infatti maggiore rispetto ai contributi che si perdono.
Avete provato a sottoporre al governo questa idea?
Giorgia Meloni ne ha fatto emendamento parlamentare, ma il Governo ha rispedito al mittente l‘idea. Le dirò di più, tuttavia: anche Susanna Camusso della Cgil si è detta in sintonia rispetto alla nostra proposta. Così come l‘Unioncamere e la Confartigianato del Piemonte. Di fatto, la nostra è una proposta osteggiata solamente da chi sta al Governo.
Incontrare il consenso sia della Meloni, sia della Camusso è meritorio, ma rischia di essere poco produttivo. Alla fine, non si capisce chi si debba occupare di questa ”terza società”, se la destra o la sinistra... 
In tutta sincerità? Non lo so. La terza società, credo, non avrà mai una rappresentanza. Tendo a pensare che non ci sarà mai un partito o un movimento che si occupa della terza società.
Come mai?
Perché i membri della terza società sono legati a quelli della prima e della seconda. Facciamo l‘esempio di una famiglia in cui c‘è una moglie che non lavora, dei figli che cercano lavoro o che lavoricchiano e un padre sessantenne che non va in pensione perché deve provvedere ai bisogni di tutti. In questa situazione è difficile che qualcuno organizzi figli e mogli contro i padri. Non si tratta di una parte del territorio nazionale contro l‘altra o di una classe sociale contro l‘altra. Noi abbiamo enormemente aggravato il problema durante la crisi. Da noi, il maschio anziano ha conquistato parecchi posti di lavoro, mentre si è indebolita, di molto, la dinamica occupazionale dei 25-35enni. Quasi nessun paese ha avuto questo tipo di processo.
Come ci siamo finiti, in una situazione del genere? Voglio dire: la crisi c‘è stata dappertutto...
Diciamo che tra i governi italiani che si sono succeduti c‘è sempre stata la tendenza a scaricare i problemi nel futuro. Una tendenza che continua, peraltro. Il Jobs Act, in questo senso è un capolavoro.
In che senso?
Nel senso che ci sarà un mercato del lavoro diviso in tre: quello dei neo-assunti, quello dei già-assunti e quello del pubblico impiego, con un assurda penalizzazione dei neo-assunti. Il Governo Renzi non sta ricomponendo le fratture, le sta accentuando.
Come mai, secondo lei, in Italia si fanno solo riforme ai margini, che valgono solo per i neo-assunti, o per i neo-pensionati? 
Qui non è questione di volontà: il problema è che ci vuole troppo coraggio per mettere in discussione i diritti acquisiti. Sono troppo diffusi, questo è il problema.
C‘è da dire, tuttavia, che Renzi appare più determinato di altri nel far cadere i tabù...
Nessun governo può toccare i diritti acquisiti o i privilegi immeritati, nemmeno quello di Renzi ne ha la forza. Può limarli, al massimo, eroderli poco per volta, senza dirlo. Vogliamo parlare degli stipendi dei dirigenti della pubblica amministrazione? Alla fine non è stato fatto quasi niente, giusto qualche sforbiciata agli stipendi più alti. O di quel che prendono i dipendenti del Parlamento? O dei certificati medici di fine anno dei vigili? O dei 10 miliardi che paghiamo ogni anno di false pensioni di invalidità? Con quei soldi si pagavano gli ottanta euro, tanto per essere chiari.
Altrove stanno affermandosi movimenti come Podemos, Syriza, lo stesso Front National, che se non altro pescano nel bacino elettorale della ”terza società”. In Italia? Può nascere qualcosa in grado di rappresentare queste istanze? 
Possiamo pensare che possa nascere un partito più sensibile, certo, ma sarà un partito che cercherà un riequilibrio, non certo un conflitto. Sociologicamente, Grillo sta già raccogliendo il proprio consenso più nella terza società che nelle prime due. Il Movimento Cinque Stelle, tuttavia, sconta la propria incapacità nel fare politica. La terza società ha bisogno di soluzioni, non di invettive. Grillo rappresenta bene il disagio, ma non ha soluzioni. La “terza società” non è fatta da indignati con problemi espressivi, ma da un ceto medio con problemi reali. Un partito che rappresentasse in qualche misura gli interessi della terza società, dovrebbe avere un programma realistico, non degli slogan.

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