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5 cose per capire cosa succede in Iraq

Guida minima per chi vuole sapere come si è arrivati agli attacchi statunitensi di ieri

Nel pomeriggio di venerdì 8 agosto i caccia statunitensi hanno cominciato ad attaccare alcune postazioni di artiglieria dello “Stato Islamico” in Iraq, vicino a Erbil, la capitale del Kurdistan Iracheno. Per gli Stati Uniti si tratta della più importante operazione militare in Iraq dal ritiro dei soldati americani nel 2011: l’obiettivo è frenare l’avanzata dai miliziani estremisti sunniti dello “Stato Islamico” in territorio curdo, e le violenze compiute nei confronti delle minoranze etniche dell’Iraq settentrionale, tra cui i cristiani e gli yazidi. Nelle ultime settimane la situazione in Iraq è peggiorata notevolmente e si è complicata molto.
1. Tre stati in uno
Il governo centrale iracheno si trova a Baghdad ed è guidato dal primo ministro sciita Nuri al-Maliki (gli sciiti sono la maggioranza in Iraq). Al-Maliki controlla in pratica solo Baghdad e i territori a sud. Il nord-ovest è finito negli ultimi mesi nelle mani dei miliziani dello “Stato Islamico” –organizzazione prima conosciuta come ISIS – che hanno attaccato una città dopo l’altra avvicinandosi progressivamente alla capitale Baghdad. Nel nord-est del paese invece ci sono i curdi, che governano nella regione autonoma del Kurdistan Iracheno. Questi tre “stati” – li chiamiamo stati perché di fatto esercitano il monopolio della forza all’interno dei rispettivi confini – hanno eserciti/milizie che in questi giorni si stanno scontrando tra loro.
2. Le critiche a Nuri al-Maliki
Da diversi mesi – e soprattutto da quando alla fine del 2013 i miliziani dell’ISIS hanno conquistato le città irachene di Ramadi e Fallujah – al-Maliki è considerato come il primo responsabile dell’indebolimento dello stato iracheno. Dall’inizio del suo primo mandato da primo ministro, alla fine del 2005, al-Maliki ha attuato diverse politiche contro la minoranza sunnita dell’Iraq, considerate la causa più importante dell’aumento delle violenze settarie tra sciiti e sunniti. L’amministrazione americana sta spingendo da settimane per favorire un cambio a capo del governo iracheno, ma al-Maliki sembra non voler mollare. Nell’ultimo mese anche l’ayatollah Ali al-Sistani, la principale autorità religiosa del paese, si è espresso più o meno esplicitamente a favore di un cambio di governo, facendo capire di non sostenere più al-Maliki. In pratica oggi non c’è più nessuno che vuole che al-Maliki rimanga a capo del governo iracheno.
3. Lo Stato Islamico
Prima conosciuto come Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), lo Stato Islamico (IS) è un gruppo estremista sunnita che opera sia in Siria che in Iraq. Non ha un sistema di alleanze definito: in generale si può dire che finora non è stato sostenuto apertamente da nessuno ed è odiato praticamente da tutti. La sua avanzata è stata piuttosto inaspettata e – semplificando – dovuta soprattutto a due fattori: la debolezza dei governi a cui ha sottratto territorio (in Siria quello di Bashar al Assad, che da oltre tre anni è impegnato in una violentissima e complicatissima guerra con diverse fazioni di ribelli; in Iraq quello di Nuri al-Maliki, che dopo il ritiro dei soldati americani ha perso progressivamente il controllo sul suo territorio nazionale); e la propria capacità di trovare le risorse per governare i territori conquistati – come Raqqa per esempio – e per conquistarne di nuovi. Lo Stato Islamico vuole creare un califfato islamico: tutti quelli che gli si oppongono – minoranze religiose, sunniti moderati, forze sciite e curde – sono trattati come nemici (qui un’infografica delNew York Times che racconta l’avanzata dell’ISIS in Iraq e in Siria). I metodi usati per raggiungere questo obiettivo sono particolarmente brutali e violenti.
4. Le minoranze del nord e i curdi
Nell’ultima settimana lo Stato Islamico ha attaccato diverse città e villaggi nel nord dell’Iraq abitate principalmente da minoranze etniche, soprattutto cristiani e yazidi. In particolare sono stati due gli attacchi ripresi molto dalla stampa internazionale: quello del 3 agosto a Sinjar e quello del 7 agosto a Qaraqosh (o Bakhdida), la più grande città cristiana dell’Iraq. Nel primo circa 150mila persone sono state costrette a lasciare le loro case e centinaia di famiglie yazidi si sono rifugiate sulle montagne di Sinjar, dove si trovano da allora senza né acqua né cibo in una situazione di grave emergenza umanitaria. Nel secondo circa 100mila persone – la maggior parte cristiani – sono state costrette ad andarsene verso il Kurdistan Iracheno, poco più a est, che però potrebbe non essere in grado di accoglierle tutti. Queste città erano difese dalle milizie curde “Peshmerga”, che però si sono ritirate prima degli attacchi dello Stato Islamico. In pratica, negli ultimi giorni i miliziani dello Stato Islamico si sono avvicinati molto a Erbil, capitale del Kurdistan Iracheno, creando molta apprensione sia a livello internazionale che locale.
5. Spiegazioni e prospettive dell’intervento americano
Charles Lister, analista del Brookings Doha Center e uno dei più preparati esperti di Stato Islamico e cose irachene, ha scritto l’attacco aereo statunitense ha già avuto l’immediata conseguenza di legittimare lo Stato Islamico come seria e credibile minaccia per l’Occidente, e come gruppo emergente per il panorama jihadista. Lister ha anche scritto che nella pratica l’artiglieria che gli Stati Uniti dicono di avere colpito «è solo un bonus per l’IS, niente di più». Secondo Max Fisher, giornalista del sito Vox, il messaggio di Obama con questo attacco aereo è: “state fuori dal Kurdistan, ma il resto dell’Iraq settentrionale è tutto vostro” (una tesi che sta in piedi, visto che l’attacco è arrivato solo nel momento in cui è stata minacciata Erbil e i “disastri umanitari” citati per giustificare l’intervento sono in atto da tempo sia in Iraq che in Siria). In generale nessuno crede che l’intervento americano possa essere risolutore della grave crisi in cui si trova oggi l’Iraq.