giovedì 2 gennaio 2014

I grillini cercano solo poltrone. Se aspettiamo un cambiamento da un branco di sudditi di Casaleggio e Grillo vuol dire che siamo messi veramente male.

Quel no dei grillini alla legge taglia-poltrone

Cancellerebbe trentadue nomine: ma il Movimento ha depositato contro un migliaio di emendamenti

Beppe Grillo (Fotogramma) Beppe Grillo (Fotogramma)
Messaggio su Twitter del capogruppo grillino nel consiglio regionale del Lazio Davide Barillari: «Il Pd è alla frutta. Mi incrocia Vincenzi e dice: “Tanto la legge la portiamo a casa”. Si, ma ad aprile». La legge che il suo collega democratico Marco Vincenzi vuole portare a casa è quella con cui la giunta di Nicola Zingaretti ha deciso di fondere in una sola le cinque società direttamente controllate da Sviluppo Lazio, tagliando 32 poltrone. Con un risparmio, dicono, di 3 milioni. Operazione che dovrebbe essere seguita da fusioni analoghe nella giungla delle partecipazioni regionali, con il risultato di falcidiare i posti di consiglieri di amministrazione e revisori.
La cosa va avanti da sei mesi, su e giù fra giunta e consiglio.
«Evviva!» si penserebbe che debbano gridare quelli del Movimento 5 Stelle. Tutto il contrario, invece. Perché ora che si è arrivati al dunque, sulla legge all’esame definitivo dell’assemblea regionale si è abbattuta una valanga di 1.300 emendamenti: un migliaio dei grillini, uniti in un’apparentemente surreale alleanza con le truppe dell’ex governatore Francesco Storace, che al proliferare di quella giungla societaria aveva già dato un fattivo contributo. L’ostruzionismo è feroce, sia pure con motivazioni distinte. Il centrodestra si oppone allo smantellamento della sua creatura, i grillini temono che con le fusioni arrivino potentissimi supermanager. E minacciano una guerra di posizione che può durare mesi. Poco importa se le fusioni in sequenza si dovrebbero risolvere in una riduzione di 75 poltrone: da 88 a 13. Poco importa se quelle società, a cominciare dal gruppo di Sviluppo Lazio, siano zeppe di bubboni. Tanto da far pensare che ai consiglieri del Movimento 5 Stelle impegnati a scavare le trincee sia sfuggita la relazione nella quale il procuratore della Corte dei conti Angelo Raffaele De Dominicis sancisce lo stato fallimentare della Regione Lazio, dedicando passaggi ustionanti a certi modi discutibili con cui venivano coperte le perdite delle aziende regionali. Perché le società partecipate di perdite ne avevano eccome. Da quando la nuova giunta è arrivata, otto mesi fa, ha dovuto sborsare 50 milioni per tappare i loro buchi. Le partecipazioni dirette e indirette in società di capitali sono 103, cui si devono aggiungere agenzie ed enti vari. Per un totale, reggetevi forte, di 7.361 dipendenti. Numero più che doppio rispetto a quello del personale in forza alla stessa Regione, pari a 3.613 unità: il rapporto con gli abitanti è superiore del 91% rispetto ai 3.371 impiegati della Lombardia. Come si è arrivati a quelle cifre è presto detto. Basta ricordare il caso di Lazioambiente, società creata nel 2011 con il solo obiettivo di riassumere i 487 dipendenti di un gruppo di società ambientali fallite che facevano capo a una cinquantina di comuni laziali. Spesa secca, 20 milioni.
E poi ci sono le perdite, su cui ha acceso il faro la Corte dei conti. Per esempio i 10,3 milioni di rosso accumulati nel solo 2012 dall’Azienda strade Lazio, cui si sommano i 400 mila di Autostrade per il Lazio. Per esempio, l’emorragia di 71.120 euro al giorno dell’azienda di trasporto Cotral, che a fine 2012 aveva un patrimonio netto negativo per 15 milioni. O la voragine dell’Arsial, l’agenzia agricola regionale, commissariata da mesi con 17 milioni di debiti. Un decimo dei quali sul groppone di un ristorante aperto dalla Regione nel 2003 a via Frattina, nel cuore di Roma, che è riuscito nella missione impossibile di aprire un buco di 1,7 milioni. Anche grazie a centinaia di pasti somministrati gratis a politici e assessori.
Ma la rogna più impellente è ora quella di Sviluppo Lazio. Nella sua pancia ci sono 76 pacchetti azionari, fra cui quello di Banca impresa Lazio (Bil), costituita anni fa per garantire prestiti concessi alle piccole imprese dalle quattro banche che ne sono anche azioniste di minoranza: Intesa, Unicredit, Bnl e Banca di credito cooperativo. Lavoro analogo, praticamente, a quello che dovrebbe svolgere Unionfidi Lazio, anch’essa partecipata da Sviluppo Lazio. Una duplicazione assurda. Nell’estate 2012 gli ispettori di Bankitalia hanno fatto a pezzi la Bil. La spesa media procapite per il personale è doppia rispetto ai concorrenti, dirigenti e quadri sono il 73,6% del totale, ogni pratica costa sei volte il prezzo di mercato, e ciascun dipendente lavora 29 pratiche l’anno contro 120.
Poi c’è la Filas, la finanziaria «di sviluppo». Dove sviluppo significa mettere un po’ di soldi in imprese private prendendo quote di minoranza. Ne ha 47. Ma 3 sono in società pubbliche. Altre 5 sono in liquidazione o concordato preventivo, mentre ben 12 sono fallite. E 7, invece, non hanno nemmeno sede nella Regione o comunque svolgono attività fuori dei confini regionali. Nell’arcipelago dei soci privati della finanziaria non mancano nomi di un certo spessore. Uno su tutti, per l’incarico pubblico ora ricoperto: quello dell’attuale amministratore delegato di Atac Danilo Broggi, titolare del 24% della società di ricerca KA4, di cui la Regione ha il 13%...

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