mercoledì 21 gennaio 2015

Ma basta. Il centro destra trova subito accordi e 29 senatori fanno le bizze. Aveva ragione Nanni Moretti. Con una classe dirigente come questi 29 non andremo mai al potere e non cambieranno mai l'Italia.

Al Senato la resa dei conti nel Pd, ma la fronda dei 29 si sgretola. Ecco come Renzi ha scelto la linea Esposito

Pubblicato: Aggiornato: 
RENZI

A Palazzo Madama ti raccontano che stranamente il clima in Sala Koch non era surriscaldato. Quasi che non si volesse sottolineare anche con toni accesi la sostanza già di per sé drammatica dell’assemblea del gruppo Pd con Matteo Renzi sull’Italicum. Nessuno scontro frontale, poche battutine e nessun sfottò nemmeno da parte del premier. Eppure oggi si è consumata la resa dei conti finale tra la minoranza Dem e il nuovo segretario. Oggi, in quelle tre ore scarse di assemblea in Sala Koch, è passata la linea del premier (con 71 sì) ed è stata certificata l’esistenza di una fronda di 29 irriducibili nel partito. Chissà se resteranno in 29: i renziani scommettono che in aula alla fine non saranno più di 20 al massimo, ma intanto la fronda esiste sull’Italicum e proietta le sue ombre sull’elezione del presidente della Repubblica. Quel che più risalta dall’assemblea in sala Koch è il timbro sul cambio di linea di Renzi: passato dalla strategia dello spacchettamento della legge elettorale per farla votare con maggioranze variabili, magari pure con il M5s, alla strategia dell’unico voto su un solo emendamento che spazza via tutti gli altri. E’ la nuova linea dura, concentrata nell’emendamento presentato dal Giovane Turco Stefano Esposito e praticamente adottato dal premier a ridosso del weekend, dopo il fallito incontro con Pierluigi Bersani. Anche questo cambio di linea si proietta sulla corsa quirinalizia.
La sorpresa di Corsini e Lo Moro. Quando in assemblea il bersaniano Paolo Corsini prende la parola per annunciare il documento politico del suo collega di corrente Miguel Gotor, firmato dai 29, al tavolo della presidenza c’è un attimo di soprassalto. Nessuno era a conoscenza del documento: né Renzi, né chi gli è seduto accanto, dal ministro Boschi al capogruppo Zanda, ai senatori Tonini e Lepri. Non lo sapeva nemmeno Claudio Martini, pure lui al tavolo della presidenza in quanto vicepresidente vicario del gruppo, lui che aveva firmato l’emendamento della discordia di Gotor ma che non ha aderito al documento politico anti-Renzi. E’ stato il primo shock, ben dissimulato dal premier che comunque già ieri aveva di fatto sposato la linea dura di Esposito, senatore noto per le sue posizioni tranchant. Il secondo shock arriva quando la senatrice Doris Lo Moro, ex magistrato, calabrese, bersaniana, firmataria del documento Gotor, prende la parola per annunciare la decisione di rimettere il mandato di capogruppo in commissione Affari Costituzionali. “Tra il ruolo e le mie convinzioni, preferisco le mie convinzioni per star bene con me stessa”, dice con molto pathos. E’ un’altra scossa elettrica per il tavolo della presidenza. Ma Renzi ha già scelto cosa fare dei 29. “Anch’io voglio star bene con me stesso ma, per il ruolo che abbiamo, la prima cosa è star bene con gli italiani”, replica alla Lo Moro.
Avanti tutta. Il premier si lecca i baffi quando il senatore Bruno Astorre interviene per spiegare il motivo per cui ieri ha ritirato la firma dall’emendamento Gotor contro i capilista bloccati. “Io non metto in discussione la fiducia al governo. La corda si tira per una battaglia ma non per spezzarla…”. E Renzi gongola quando prende la parola il senatore di Areadem Franco Mirabelli: “A favore delle riforme, per responsabilità verso il paese…”. Poi c’è l’ex dalemiano Nicola Latorre, da tempo ormai in maggioranza con Renzi. Però al premier fa bene sentirgli dire che è “stupito per la battaglia di gente che viene dalla mia cultura e tradizione, stupito perché nell’Italicum c’è una battaglia di sinistra!”. E non serve a nulla l’ultimo estremo tentativo di mediazione dell’ex tesoriere Ugo Sposetti, che non ha firmato il documento Gotor ma lancia una provocazione: “Per evitare che vengano eletti 100 nominati, basterebbe che il candidato premier si candidasse in cento collegi. A quel punto dovrebbe optare per un collegio, in tutti gli altri 99 scatterebbe l’eletto con la preferenza”. Insomma, per Sposetti basterebbe allargare il limite massimo di 10 pluricandidature previsto dall’Italicum. Troppo tardi, l’obiezione non riesce nemmeno a planare sul tavolo della presidenza.
Saranno proprio 29? Soprattutto però Renzi si prende la soddisfazione di rinfacciare ai bersaniani che "non sono io il primo che parla con Berlusconi", riferimento nemmeno troppo velato agli incontri di Maurizio Migliavacca e Denis Verdini nella passata stagione delle riforme. E stuzzica il suo conterraneo Vannino Chiti, alfiere della protesta in Senato contro la riforma costituzionale l'estate scorsa e contro i capilista bloccati dell'Italicum ora. Gli ricorda i bei tempi andati in Toscana, quando lavoravano insieme al "laboratorio democratico per l'Ulivo...", quando non c'era il governo dei rottamatori. E il premier prova sollievo quando fa il suo affondo contro Francesco Boccia, il lettiano che ad Affaritaliani ha parlato di “metodo Isis” da parte del governo. La sala Koch applaude, la minoranza è un po’ più gelida ma di fatto sembra in altre faccende affaccendata. Perché a quel punto manca poco al voto finale sulla relazione del segretario. Gotor, il protagonista di questa battaglia come lo fu Chiti sulla riforma costituzionale l’estate scorsa, è nervoso, siede in mezzo alla sala, ma spesso si alza, sente i suoi via sms. Dopo poco dirà: "Nessuna trattativa, siamo 29". E' Corsini ad annunciare che i 29 non partecipano al voto in assemblea. Renzi e i suoi si compiacciono del fatto che alla fine non si capisce in quanti davvero non partecipano alla votazione. L’anti-renziano Massimo Mucchetti, per dire, se n’è già andato per impegni in commissione. 
Il cavallo di Troia di Esposito e la nuova linea. Di fatto i presenti al momento del voto sono 90. Settantuno sono i sì per Renzi, un astenuto. Di fatto sono solo 18 quelli che non partecipano al voto. E’ la ragione per cui i luogotenenti di Renzi al Senato non contano più di 20 dissidenze al momento del voto sull’ormai noto emendamento Esposito. Cioè il “cavallo di Troia” dell’Italicum, costruito per inglobare tutti gli altri 44mila emendamenti ed entrare subito, di forza, nel regno della nuova legge elettorale bipartitica. A poche ore dal voto sul suo emendamento, è proprio Esposito a portare la contabilità per il premier. Il suo pallottoliere dice che la maggioranza può contare su una 40ina di voti garantiti da Berlusconi nel suo partito e nel Gal. Più una 40ina di centristi, compreso Ncd. Dal Pd ne arriverebbero un’80ina su un totale di 108, ma potrebbero essere di più: dipende da quanto e se si sgretola il fronte dei 29. Per ora i renziani contano sullo smarcamento di: Cucca, Puppato, Broglia, Capacchione, Filippi, Guerrieri, Lai, Lo Giudice, Manassero, Albano, Manconi. E in effetti Laura Puppato, Donatella Alfano e anche Josefa Idem annunciano il loro sì all'emendamento Esposito, pur difendendo il documento dei 29. “La maggioranza c’è”, ci dice Esposito. Per un pelo, forse. Ad ogni modo, Renzi conta di portare a casa l’Italicum entro giovedì. Il sospetto dei renziani è che Gotor e i suoi abbiano deciso di presentare "un documento politico per nascondere la marcia indietro di molti firmatari dell'emendamento contro i capilista bloccati...", dicono dalla cerchia del premier.
Ormai linea dura: chi ci sta, ci sta, anche sul Colle. Il “cavallo di Troia” di Esposito è comunque ormai un simbolo della nuova linea che vale sull’Italicum e già guarda alla partita per il Colle. E’ la linea dura che ha mandato al macero il tentativo di spacchettare l’Italicum e lasciarlo votare a maggioranze variabili. Renzi ci ha lavorato fino a venerdì, quando ha scoperto l’emendamento del suo Giovane Turco in Senato: un solo voto e via ogni mediazione. Ieri sera una telefonata del ministro Boschi a Esposito ha messo il sigillo definitivo sulla nuova strategia. Fallite le altre strade, avanti così: chi ci sta, ci sta. E’ un test che guarda al Quirinale: dritto dritto verso la quarta votazione, quando, mettendo insieme voti di qua e di là, il premier conta di poter eleggere il successore di Napolitano. L’unità del Pd non è per niente scontata.

Nessun commento:

dipocheparole     venerdì 27 ottobre 2017 20:42  82 Facebook Twitter Google Filippo Nogarin indagato e...