domenica 18 gennaio 2015

In galera e buttare le chiavi.

Allarme terrorismo in Italia: né imam né predicatori, identikit dello jihadismo di casa nostra. La black list dei 300

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Una black list di oltre trecento possibili jihadisti che vivono, lavorano, mandano i figli a scuola e hanno permesso di soggiorno in Italia. Una lista di indirizzi dal nord al sud del paese, osservata, attenzionata, ascoltata, spiata via web. Appena uno scarica qualche programma di troppo, video e sermoni attinenti al jihad; appena fa scelte decisive, ad esempio si prepara per un viaggio in Medioriente - non per forza la Siria, è più che sufficiente la Turchia – e magari fa le carte anche per la famiglia, la moglie e i figli; appena sparisce, anche da solo, per qualche settimana; scatta l’espulsione “per motivi di sicurezza nazionale”. “Altro - spiega un investigatore dell’antiterrorismo – al momento non è possibile fare. Si tratta di persone nei cui confronti non sono ancora mature le contestazioni per fattispecie di reato legate al terrorismo. Svolgono attività prodromiche e certamente sono persone che vanno oltre la radicalizzazione religiosa. Possiamo solo espellerli. In questo modo otteniamo che non potranno più fare ritorno in Italia e neppure nell’area Schengen”. In attesa di quegli strumenti normativi, nuovi reati, che permetteranno di indagare o arrestare chi si comporta in un modo sospetto. E’ una linea molto sottile tra diritti e doveri, libertà e legge. Ma l’emergenza potrebbe giustificare misure eccezionali. 
Intanto sono nove le espulsioni decise dal Viminale per motivi legati al terrorismo: 5 tunisini, un turco, un egiziano, un marocchino e un pakistano, tutti del nord, Milano, Torino e hinterland. “Si tratta di persone – spiega il ministro dell’Interno Angelino Alfano – con permesso di soggiorno, residenti in Italia da parecchi anni e integrati”. C’è riserbo sui nomi e sui rispettivi identikit per “non bruciare legami personali che possono tornare utili alle indagini”. 
Di certo non sono imam, non sono predicatori, non guidano moschee né centri culturali. Ed è questa la caratteristica di novità rispetto al decennio scorso, alle indagini post 11 settembre quando nel mirino degli investigatori finirono i leader spirituali, o presunti tali, delle comunità islamiche. “Abbiamo a che fare – continua l’investigatore contattato da Huffington Post - con persone che pur vivendo in Italia da anni a un certo punto hanno deciso di radicalizzarsi per condividere l’ideologia e l’orgoglio del Daesh (lo stato islamico di Al Baghdadi, ndr). Di più: diventare combattenti del Daesh è motivo di orgoglio, garantisce un profilo sociale di rispetto”. 
Jelassi Riadh, musulmano radicalizzato, residente nel nord Italia e poi pentitosi nel 2009 poco prima di partire per il jihad ma dopo aver compiuto tutto il processo di condizionamento psichico, aveva già spiegato bene ai carabinieri del Ros (verbale del 26 novembre 2009) come “la lotta armata diventa una via di riscatto personale fino ad accettare l’annullamento anche fisico della propria persona in vista del riscatto verso una vita migliore, ultraterrena, lontana dai drammi quotidiani di chi nonostante tutto non si è integrato”. E’ questa valenza politica-sociale che espone oggi molti musulmani, seppur residenti da molto tempo nelle democrazie occidentali, al rischio del reclutamento. 
Alfano rifiuta l’etichetta di black list. “Non lo è” dice aggiungendo solo che “sono ben più di cento gli attenzionati”. In effetti gli oltre trecento attenzionati sono solo “possibili sospetti”, profili da seguire per capire come e fino a che punto evolve la radicalizzazione. Il numero emerge sommando le attività infoinvestigative di polizia, carabinieri e 007. Nulla a che fare, in ogni caso, con le black list di Francia, Belgio, Gran Bretagna e Germania che partono da comunità musulmane che contano tra i due e i cinque milioni di persone. Polizia e carabinieri hanno fissato una serie di “elementi oggettivi” che fanno scattare lo status di sospetto. Tra questi il più forte è certamente il progetto di partenze, anche con la famiglia. 
Molto presto, “entro una decina di giorni”, il Viminale deciderà altre espulsioni. Un’altra decina di indesiderati. Risultato di un work in progress continuo. “Il monitoraggio è costante” spiega il ministro insistendo sul fatto che la prevenzione è l’arma più utile contro questo tipo di terrorismo, che nasce in casa (homegrown), destrutturato e spontaneo, “a forte rischio emulazione”. 
Se nei confini nazionali l’attenzione è altissima e non da oggi (anche quando l’emergenza jihad era scomparsa dalle pagine dei giornali), preoccupa molto chi arriva da fuori. In questi giorni Alfano è andato in missione con alcuni investigatori dell’antiterrorismo in Albania e Turchia, i paesi che rappresentano per l’Italia il rischio maggiore, per cercare protocolli di collaborazione nel controllo delle partenze. La Bosnia , soprattutto, è attenzionata da mesi dall’antiterrorismo del Viminale. Negli ultimi anni dalla ex Jogoslavia musulmana sono arrivati in Italia un gruppo di imam molto radicalizzati come Husein Bilal Bosnic, Muhamed Fadil Porca, Nusnet Imamovic, Safet Kuduzovic e Kakir Salimi. E’ il gruppo dei cosiddetti “imam erranti”, che vanno e vengono e seminano il verbo della jihad nel Paese senza mai fare veramente base in qualche paese o città. 
Nei profili dei nove espulsi non sembrano esserci contatti con il Belgio e la cellula Sharia4Belgium che si è radicata nel quartiere dormitorio di Molenbeck (Bruxelles). Contatti che invece aveva Del Nevo, il giovane genovese partito nel 2013 per la Siria dove ha fatto perdere la tracce (molto probabilmente è morto). Del Nevo è uno dei 59 foreign fighters italiani, cinque in più rispetto all’ultima fotografia fornita appena una settimana fa. Per la precisione Del Nevo è inserito nel gruppo dei 14 già morti. Sono diventati cinque gli italiani (erano 4 una settimana fa), 15 gli stranieri passati dall’Italia prima di andare in Siria e 25 quelli collegati al nostro Paese. Due di loro hanno la doppia nazionalità.

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