Il razzismo è finito quando è finito veramente
Il famoso ex giocatore NBA Kareem Abdul-Jabbar scrive che la battaglia è tutt'altro che vinta, come mostra la diffusione di frasi tipo "non ho niente contro i neri ma..."
È difficile trovare in giro una persona razzista che ammetta di esserlo. Molti razzisti non dicono oppure addirittura non pensano di essere razzisti, usando magari espressioni come “non ho nulla contro i neri però…” oppure “ho tanti amici neri però…”. Ne ha scritto Kareem Abdul-Jabbar, ex grande campione dell’NBA, che la settimana scorsa aveva già scritto su Time un articolo molto letto e discusso sulla storia di Donald Sterling e dei suoi commenti razzisti. Espressioni come “a me non importa se sei bianco, nero, giallo o viola” secondo Abdul-Jabbar sono spesso dette da persone che si stupirebbero se venissero chiamate razziste, tuttavia nascondono un razzismo di fondo, più difficile da riconoscere rispetto al razzismo “istituzionale” come quello dell’apartheid, ma che può per questo essere più pericoloso.
Nel suo precedente articolo Abdul-Jabbar aveva espresso delusione per il fatto che si parlasse del razzismo di Donald Sterling dopo una frase detta in una conversazione privata, e non per fatti ben più gravi che aveva commesso (tra le altre cose, era stato condannato per essersi rifiutato di accettare neri e ispanici come inquilini nelle sue case). Secondo Abdul-Jabbar, in quel caso, il vero scandalo non era che ci fosse un razzista a capo di una squadra di NBA, ma che tutti avessero ignorato la cosa per così tanto tempo.
Nel nuovo articolo Abdul-Jabbar è partito da una considerazione: siamo tutti convinti che il razzismo non esista più. Certo, magari accettiamo il fatto che esistano ancora degli episodi di razzismo, ma li consideriamo in larga parte casi isolati e l’idea generale, soprattutto negli Stati Uniti, è che il razzismo sia una cosa che appartiene al passato. ”I sondaggi mostrano che sono più i bianchi che credono nell’esistenza dei fantasmi che quelli che credono che il razzismo sia un problema. Il problema, forse, dipende da come definiamo il razzismo”. Per esempio, prendiamo il caso di Donald Sterling o di altri americani che si sono rivelati essere razzisti: Sterling aveva una ragazza nera, poteva senz’altro dire di avere degli amici neri e – quando è nato il caso della telefonata – stava per ricevere il suo secondo premio NAACP (l’associazione per l’avanzamento dei diritti delle persone nere) per il lavoro positivo fatto con i bambini delle minoranze degli Stati Uniti.
In molti, insomma, avrebbero detto con una certa sicurezza che Sterling non fosse un razzista, Sterling stesso non si considera un razzista, nella telefonata che è stata pubblicata da TMZ in più di un passaggio dice di non considerarsi un razzista ma di dover badare alla sua immagine “perché i neri sono visti in un certo modo”. In televisione il razzismo viene ampiamente trattato come una questione chiusa, soprattutto dai conservatori, e anche la decisione dello scorso giugno della Corte Suprema – che ha dichiarato non più necessarie le leggi che proteggevano le minoranze da modifiche ostili delle leggi elettorali in nove stati – dimostrano che ci sia la diffusa percezione che i tempi di Rosa Parks e Martin Luther King siano finiti, che la battaglia sia stata vinta.
Secondo Abdul-Jabbar, però, il razzismo è ben lontano dall’essere finito; è cambiato, non è più quello palese degli anni Sessanta, è diventato una sorta di razzismo situazionale: non è più quello che ci farebbe dire che i neri dovrebbero usare bagni separati, ma è quello che ci fa attraversare la strada se ci vediamo camminare incontro un gruppo di ragazzi neri e tatuati. Questa forma di razzismo strisciante è quella più pericolosa, secondo Abdul-Jabbar, perché ci spinge a dire che il razzismo non esiste più e ci impedisce di guardare il problema con onestà. Il nuovo tipo di razzismo è facile da scambiare per banale realismo: “non ho attraversato la strada perché sono razzista me perché è un fatto che in questo quartiere esistano le gang…”, “non ho nulla contro i neri ma è un fatto che gli immigrati rubino di più…”
«La battaglia contro il razzismo sarà finita quando il razzismo non esisterà più, non quando le persone diranno che non esiste più perché non lo notano più. Perché la maggior parte di quelli che sostengono che il razzismo non esiste più sono bianchi? Perché se una cosa non la subisci, non la noti. Un sondaggio di CNN del 2006 aveva mostrato che per il 49 per cento dei neri il razzismo era un problema “molto serio”, mentre solo il 18 per cento dei bianchi aveva espresso la stessa preoccupazione».
Secondo Abdul-Jabbar continuare a dire che il razzismo non esiste più lo rende più difficile da vedere e sconfiggere; continuare a dire che siccome c’è un presidente nero allora il razzismo è stato sconfitto è dannoso, controproducente e falso. Avete mai notato, chiede Abdul-Jabbar, quelle volte che imparate una parola nuova e poi sembra che tutti la usino? È il principio di Baader-Meinhof, l’attenzione selettiva: di tutte le informazioni con cui entriamo in contatto ogni giorno, prestiamo attenzione solo a quelle che sono rilevanti per noi. La stessa cosa succede con il razzismo: meno ne parliamo, meno ne discutiamo in televisione e sui media, meno lo noteremo e meno, a nostra volta, ne parleremo. È un circolo vizioso che rende il problema più difficile da affrontare.
«La verità è che siamo tutti in qualche modo razzisti, in fondo. Ci sentiamo più tranquilli se siamo circondati da persone che ci assomigliano come aspetto, provenienza ed esperienze. Ma in quanto civilizzati e intelligenti, combattiamo questo sentimento “di pancia” perché sappiamo essere irrazionale, sbagliato e, in ultima analisi, dannoso».
Foto: Kareem Abdul-Jabbar (Ronald Martinez/Getty Images)
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