Le mille leggende sul rigorismo europeo
Non è vero che l’Italia dovrà tagliare la spesa di 50 miliardi l’anno per il fiscal compact
INDICE ARTICOLO
Dopo aver provato a fare un po’ di chiarezza sulla prima leggenda attribuita al Fiscal Compact (il presunto obbligo di pareggio di bilancio), esaminiamo la seconda, quella relativa al vincolo sul rapporto debito/Pil.
La leggenda narra che dal prossimo anno saremo costretti a tagliare la spesa pubblica di almeno 50 miliardi di euro l’anno al fine di ridurre il nostro debito pubblico fino al valore fissato dall’Unione Europea.
L’art.4 del Fiscal Compact recita:
quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore di riferimento del 60% […] tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo l’anno come parametro di riferimento secondo il disposto dell’art.2 del regolamento CE n.1467/97 del Consiglio del 7 luglio 1997 come modificato del regolamento UE n.1177/2011 del Consiglio, dell’ 8 Novembre 2011
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La lettura originale del testo ci consente quindi di comprendere tre cose:
1) Non è lo stock del debito in valore assoluto che deve necessariamente ridursi (cosa che imporrebbe la necessità di accumulare corposi avanzi di bilancio), bensì il rapporto debito/Pil, che è una frazione. Come probabilmente noto ai più, una frazione diminuisce anche se il numeratore (il debito) sta fermo, e il denominatore (il Pil) aumenta, o anche se il numeratore (sempre il debito) aumenta, ma il denominatore (sempre il Pil) aumenta in misura superiore. Il valore di riferimento del 60% è lo stesso che fu scelto a Maastricht nel 1992, nel momento della definizione dei criteri di convergenza macroeconomica per la costituzione dell’unione monetaria.
Va detto che tale valore fu scelto in quanto era, all’inizio degli anni Novanta, il valore medio del rapporto debito/Pil tra tutti gli Stati candidati all’ingresso nell’euro; oggi la media è circa il 90%, come conseguenza soprattutto degli shock macroeconomici - senza precedenti in tempo di pace - che in occasione della Grande Crisi hanno colpito sia il numeratore che il denominatore del rapporto tra debito e Pil. Va però anche detto che - proprio in virtù di tale percorso storico - la convergenza verso il 60% non è una novità, né un’invenzione del Fiscal Compact: è un obbligo presente da più di vent’anni, e che per più di vent’anni abbiamo in pratica bellamente ignorato: a differenza di quanto accaduto ad esempio in Belgio - che entrò nell’euro con un valore simile al nostro - il rapporto debito/Pil italiano non è mai sceso sotto il 100% ed è anzi in continua crescita da quasi quindici anni, ben prima quindi dell’inizio della crisi.
2) Se l’obbligo di diminuzione è specificato in forma fissa (un ventesimo, ovvero il cinque per cento) rispetto ad una soglia fissa (il 60%), allora significa che la riduzione della frazione è decrescente nel tempo. Solo per esporre il concetto (in realtà, come vedremo in seguito, il Fiscal Compact impone un vincolo molto più favorevole in quanto considerato sulla base di una media triennale), considerate il seguente esempio. Se peso 120 chili, e devo ridurre di un ventesimo l’anno la differenza verso il mio peso-forma (60 chili), allora il primo anno la riduzione è di 3 chili (=0,05* (120-60)); quindi l’anno seguente peserò 117 chili (=120-3). A quel punto, la riduzione sarà “soltanto” di 2,85 chili (=0,05*(117-60)), e il mio peso scenderà a 114,15 (=117-2,85). Il terzo anno, in virtù di questa riduzione, lo sforzo richiesto sarà ancora inferiore, vale a dire pari a 2,70 (=0,05*(114,5-60)).
Lo sforzo di riduzione del rapporto debito/Pil - se rispettato - è quindi in realtà sempre meno esigente man mano che passa il tempo; se a questo aggiungiamo la considerazione trattata nel punto precedente (e cioè che le riduzioni del rapporto debito/Pil non significano necessariamente riduzioni di debito), allora lo scenario apocalittico prospettato dalla disinformazione ne esce già fortemente indebolito. Il prossimo punto, dedicato a esaminare il modo in cui l’obbligo di riduzione si concretizza in realtà, fornirà ulteriori elementi.
3) L’obbligo sancito nell’articolo del Trattato viene ulteriormente specificato da un Regolamento comunitario, la cui piena comprensione è cruciale. Gli aspetti su cui concentrarci, in particolare, sono due:
a) Viene fornito un elenco di fattori attenuanti che devono essere presi in considerazione nel valutare i progressi compiuti dallo Stato membro nella riduzione del rapporto debito/Pil. Tra questi non vi è solo l’influenza del ciclo economico, ma anche il contributo economico erogato dallo Stato membro per il sostegno alla stabilizzazione finanziaria degli altri membri Ue, la quota di debito dovuta alla stabilizzazione del sistema finanziario nazionale, gli interventi strutturali sul settore delle pensioni in grado di garantire una piena sostenibilità di medio-lungo termine al sistema di welfare, il livello del debito privato. Con l’eccezione del secondo (il nostro sistema bancario non ha avuto bisogno di massicci interventi di ricapitalizzazione finanziati con emissioni di debito pubblico), sono tutti fattori molto rilevanti nel caso italiano.
Nel 2013 la quota dello stock di debito pubblico italiano dovuta al sostegno finanziario dei Paesi dell’Area Euro è stata pari a 3,5 punti di Pil (più di 55 miliardi di euro). La sostenibilità di medio-lungo termine del sistema pensionistico è stata garantita dalla tanto vituperata riforma Fornero che, estendendo l’applicazione del regime contributivo anche a chi ne era escluso, ha finalmente chiuso una transizione che le riforme degli ultimi vent’anni non hanno mai avuto il coraggio di chiudere. Infine, come ampiamente noto, il debito privato delle imprese non finanziarie e delle famiglie è tra i più bassi tra i Paesi occidentali. Tutti questi fattori dunque, stando al dettato normativo comunitario, devono essere presi esplicitamente in considerazione nel giudicare il percorso di rientro del debito.
b) Il secondo aspetto è quello più importante di tutti per comprendere davvero di cosa stiamo parlando. Sfortunatamente è anche il meno conosciuto ai più. Non è espressamente rinvenibile nel Regolamento, bensì nel “Codice di Condotta del Patto di Stabilità e Crescita” che disciplina in concreto come debba interpretarsi il criterio di riduzione di cui parla l’art.4 del Fiscal Compact.
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Lorenzo Iseppi
Ci sono tre modi in cui il dettato dell’art.4 può essere rispettato. Prendiamo come punto di riferimento il 2015 in quanto si tratta del primo anno in cui tale obbligo si applicherà al nostro Paese. (1)
1) Criterio backward looking: lo step di riduzione di un ventesimo deve essere considerato in media e rispetto ai tre anni precedenti. In pratica, si prendono i tre step annuali che sarebbero necessari da una lettura letterale della norma (cioè come abbiamo fatto nell’esempio precedente del peso-forma) e si fa la media triennale di questi step. Il risultato è la riduzione - rispetto alla differenza tra il valore vero e la soglia del 60% - che è necessario operare nel 2015.
2) Criterio forward-looking: stessa cosa, ma con riferimento non ai tre anni precedenti, bensì ai tre anni successivi a politiche fiscali invariate. Cioè si considera se il programma fiscale annunciato dal governo nei documenti di bilancio (al netto di future eventuali variazioni) è tale da consentire che nel 2017 il rapporto debito/Pil si sarà ridotto di un ventesimo rispetto alla differenza tra il valore del 2015 e la soglia del 60%.
3) Criterio aggiustato per il ciclo: siamo all’interno del criterio 1 (backward looking), ma in questo caso non si considera il rapporto tra debito nominale e Pil nominale, bensì il rapporto tra debito al netto della componente ciclica e Pil potenziale. Vale a dire, il rapporto debito/Pil aggiustato per il ciclo (l’analogo, per quanto concerne lo stock, della misura di deficit corretto per il ciclo di cui abbiamo discusso la scorsa settimana).
Si tratta di tre modi diversi di applicare gli step di riduzione. Come evidente, tutti e tre sono molto generosi verso gli Stati membri rispetto ad una lettura letterale del dispositivo del Fiscal Compact (quale quella che abbiamo applicato, ad esempio, nell’esempio precedente del peso-forma), in quanto considerano uno step medio triennale e non tre step successivi e sequenziali. Come se non bastasse, il Codice di Condotta specifica che un paese membro può limitarsi a rispettare solo uno dei tre criteri di cui sopra e – inoltre – quello a lui più favorevole, vale a dire quello che implica un aggiustamento minore.
Per l’Italia si tratta del criterio forward-looking, il secondo esposto in precedenza. Rispettare il famigerato e terribile vincolo del Fiscal Compact, quindi, significa impostare le nostre politiche macroeconomiche per far sì che nel 2017 il rapporto debito/Pil si sia ridotto in relazione alla distanza media del triennio precedente tra debito/Pil e il valore-soglia del 60%.
Ma vediamo i numeri italiani, come annunciati dal Governo nel Documento di Economia e Finanza.
Se applicassimo il criterio 1 (backward looking), nel 2015 il rapporto debito/Pil dovrebbe essere pari al 124,7% (2), contro invece un valore programmato del 133,3%, superiore di quasi nove punti percentuali. Applicando invece il criterio 2 (forward-looking), il vincolo del Fiscal Compact sarebbe rispettato se nel 2017 il debito fosse pari al 125,5% (3). Il governo dichiara, per il 2017, un rapporto debito/Pil pari al 125,1%, quindi persino leggermente inferiore all’obiettivo (4).
E così – mentre tutti paventano un futuro di fame e stenti quando effettivamente ci toccherà mettere mano alla finanza pubblica per rispettare il Fiscal Compact – scopriamo che, a politiche invariate, il governo ha già rispettato il Fiscal Compact, per quanto riguarda il criterio di riduzione del debito. Infatti il Documento di Economia e Finanza, presentato poche settimane fa e contenente il quadro macroeconomico di finanza pubblica per i prossimi anni, prevede nel 2017 un rapporto debito/Pil ridotto addirittura 4 decimi in più di quello che sarebbe necessario secondo il tanto temuto Fiscal Compact (e comunque ad un livello, un quarto di secolo dopo, superiore a quello che avevamo quando siamo entrati nell’euro).
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Il percorso previsto dal governo si basa su inflazione e spesa per interessi abbastanza stabili (e, per quanto ne sappiamo, ragionevoli), e una riduzione molto consistente del deficit nominale (poco più di 32 miliardi di euro dal 2013 al 2017), realizzata tramite un aumento di spesa primaria di 36 miliardi e un aumento di entrate totali pari circa al doppio (71,5 miliardi, per l’ottanta per cento rappresentato da aumenti di imposte dirette e indirette). Tale aumento non dovrebbe tradursi, nelle intenzioni nel governo, in nessun aumento di pressione fiscale (prevista addirittura in lieve calo, dal 43,8% del 2013 al 43,5% del 2017) a causa di una crescita del Pil prevista in progressiva accelerazione, come si evince dalla prima riga della tabella. Alla fin fine, anche in questa “seconda puntata” di approfondimento sul Fiscal Compact, l’elemento fondamentale per il rispetto degli impegni è la “fiducia” che il governo sembra riporre in una crescita del Pil sostenuta, realizzata soprattutto grazie a due elementi: la ripresa dei consumi delle famiglie (dal -2,6% del 2013 al + 1.6% del 2017) e le riforme strutturali in grado di accrescere la forza lavoro e la produttività totale dei fattori.
Se essa non dovesse verificarsi, non solo la riduzione del rapporto debito/Pil non rispetterà il dettato del Fiscal Compact, ma anche la pressione fiscale tornerà a crescere, invece che ridursi. Su coloro, ovviamente, che le tasse le pagano regolarmente.
Quello che sembra il criterio più “cattivo” del Fiscal Compact – e cioè la progressiva riduzione del rapporto debito/Pil verso valori medi, che nella leggenda popolare imporrebbe tagli alla spesa pubblica da 50 miliardi di euro l’anno – in realtà è già stato raggiunto dal governo (stando ovviamente al quadro di finanza pubblica annunciato), e si fonderà su un aumento di spesa pubblica di circa 40 miliardi di euro dal 2013 al 2017.
Tale percorso si basa, tuttavia, interamente sulla ripresa dei consumi delle famiglie e sul rilancio di offerta di lavoro e di produttività. A questo sono dedicati i primi provvedimenti del governo Renzi: bonus Irpef, Jobs Act e provvedimenti su riforma pubblica amministrazione e competitività delle imprese. Una buona idea potrebbe allora essere dedicarsi a provare a far funzionare questi provvedimenti e, nel caso, a correggerli.
Lasciamo quindi stare il Fiscal Compact, o perlomeno facciamo lo sforzo di inquadrarlo nel significato originario che gli volle attribuire Mario Draghi quando coniò l’espressione in un famoso discorso del 2011. In quell’occasione egli citò Alexander Hamilton, che alla fine del diciottesimo secolo - alle prese con la costruzione degli Stati Uniti d’America – scrisse che la chiave per favorire e rafforzare l’integrazione tra le ex-colonie britanniche avrebbe dovuto essere un “voluntary compact” tra di loro. Draghi riprese quell’esempio ricordando che l’ostacolo principale per far compiere un passo avanti al processo di integrazione europeo (magari verso l’unione politica immaginata all’indomani della Seconda Guerra Mondiale) non era un problema di volontà, bensì riguardava gli squilibri fiscali presenti in molti stati membri. Quindi, la soluzione per lanciare una nuova frontiera di integrazione europea, ricordando Hamilton, non poteva che essere un Fiscal Compact. Mario Draghi però non immaginava che nel giro di pochi mesi il Fiscal Compact, da avanguardia di una nuova alba di integrazione, sarebbe diventato il capro espiatorio di tutti i nostri errori del passato.
(1) Sarà infatti esaurito il periodo triennale di transizione che valeva per gli Stati che al momento della definizione del Regolamento 1177 - e cioè il novembre del 2011 - si trovavano in Procedura di Deficit Eccessivo
(2) Tale valore si ottiene con il seguente calcolo: 60%+(0.95/3)*(134,9%-60%)+((0.95^2)/3)*(132,6%-60%)+%)+((0.95^3)/3)*(127%-60%)
(3) Tale valore invece si ottiene con il seguente calcolo:60%+(0,95/3)*(129,8%-60%)+((0,95^2)/3)*(133,3%-60%)+((0,95^3)/3)*(134,9%-60%).
(4) Tralasciamo il criterio 3 (backward looking corretto per il ciclo)perché è molto complesso da calcolare; in ogni caso il governo dichiara che tale metodologia è meno favorevole del criterioforward-looking, quindi possiamo ignorarlo.
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