Europa presente e futura secondo il Pse
E il Pd deve evitare di chiedere l’impossibile e concentrarsi su misure fattibili meno radicali
Tra i grandi partiti italiani, il Pd appare come il più “europeista”: le posizioni storiche e le dichiarazioni dei suoi leader, rilasciate in questo inizio di campagna elettorale, lo collocano convintamente a sostegno delle istituzioni europee.
La maggiore convinzione si nota anche nei “segni”: il Pd è l’unico ad aver inserito in posizione centrale nel proprio simbolo elettorale il riferimento alla famiglia politica europea di appartenenza, il Pse. Degli altri partiti che i sondaggi danno sopra il 4%: Forza Italia e Movimento 5 Stelle non hanno alcun riferimento alle Europee, Ncd relega il riferimento al Ppe in un angolo del simbolo, con un colore sfumato, mentre Lega Nord addirittura inserisce la scritta No Euro.
Tale “europeismo” viene forse interpretato anche troppo alla lettera, dal momento che il Pd sembra aver rinunciato ad offrire un contributo originale alla piattaforma programmatica del Pse. Allo stesso tempo il suo segretario Renzi ha parlato dell’importanza per l’Italia di un Pd che potrebbe diventare il partito con più parlamentari europei all’interno del Pse, forse sperando di poterne modificare l’impostazione programmatica con la forza dei numeri.
Se l’obiettivo del Pd è condurre una campagna elettorale europea in linea con il manifesto del Pse e “contare” di più in Europa, a nostro avviso ci sono due difficoltà evidenti per l’azione politica nella prossima legislatura. La prima riguarda il programma stesso e la seconda le liste e i candidati.
Tralasciando gli inevitabili elementi folcloristici tipo “per l’Europa Made in Italy”, la maggiore differenza tra il programma del Pd e quello del Pse riguarda l’Europa del presente, più che quella del futuro. Mentre il documento del Pd (pubblicato in realtà solo i primi maggio) ribadisce anche nel titolo l’idea del suo segretario di “cambiare verso” all’Europa, il manifesto del Pse (votato il 1 marzo a Roma dal Congresso paneuropeo del Pse e quindi anche dal Pd) parla di una “Unione che progredisce”. Mentre per il PD (e per l’Italia) quello che più conta oggi è la “cura letale di austerità crescente” e i suoi fastidiosi vincoli di bilancio, nel manifesto del Pse si parla un’Unione futura che corregge alcuni aspetti delle istituzioni comunitarie, senza mettere però in discussione l’impianto fin qui sviluppato.
Nel manifesto non sono mai menzionati né il fiscal compact né eventuali allentamenti dei parametri di valutazione per le procedure di infrazione, se non per la componente “investimenti” (la cosiddetta golden rule, che sta bene anche ai tedeschi e che comunque è già contemplata a certe condizioni). Si critica aspramente la Troika, ma solo perché la procedura di risoluzione delle crisi non ha previsto il pieno coinvolgimento dei Parlamenti europeo e nazionali. Nel manifesto non c’è una riga né sulla Bce né su eventuali modifiche del mandato che la allontanino dai desiderata della Bundesbank. Non trovano posto nel manifesto nemmeno gli Eurobond, mentre nel programma del Pd si parla esplicitamente di mutualizzare il debito attraverso gli Eurobond e si propone un “Social compact” che integri il “Fiscal Compact” per evitare che gli impegni di stabilità dei conti pubblici vadano a discapito della crescita e del lavoro. Ma gli Eurobond sono stati la richiesta più pressante fin dagli albori della crisi finanziaria e non hanno mai trovato orecchie disponibili da parte dei tedeschi: forse il Pd (e l’Italia) ha perso già troppo tempo chiedendo l’impossibile invece di concentrarsi sulle misure meno radicali ma più fattibili?
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Si parla infine di riformare la Bce, affinché il suo mandato assomigli più a quello della Fed che non a quello della Bundesbank.
Per quanto riguarda invece l’Europa del futuro, la sintonia tra Pse e Pd è decisamente maggiore. Stando al manifesto Pse, l’Europa deve spingersi con sempre maggior forza in ambiti rimasti fino ad ora di competenza quasi esclusiva degli stati nazionali: politiche sociali, politiche ambientali, ricerca e istruzione, diritti individuali, difesa e politica estera.
L’Unione deve darsi obiettivi “sociali” e tra questi i principali sono la lotta alla disoccupazione, attaccando in prima istanza il dramma della disoccupazione giovanile e sviluppando l’occupazione femminile, la lotta alla povertà e la lotta a quello che nel documento viene definito ildumping sociale.
La lotta alla povertà prevede di introdurre un salario minimo in tutta la Comunità, pari al 60% del salario medio nazionale. Per l’Italia questa proposta si tradurrebbe in un salario minimo orario di 9,8 euro. La lotta al dumping sociale prevede la definizione di un diritti comune a tutti i lavoratori europei e la fine dei contratti precari.
Inoltre, è allo studio del Pse una riforma del sussidio di disoccupazione erogato dall’Europa e poi integrato dai singoli paesi europei in valore e in durata. In questo modo, si introdurrebbe un’idea di Europa della Solidarietà che i cittadini potrebbero sperimentare direttamente.
Tuttavia, anche per quel che riguarda il futuro bisogna fare attenzione a distinguere quello che è realizzabile nei prossimi 5 anni da quello che lo sarà forse nei prossimi 50 anni.
Bisogna soprattutto distinguere ciò che rientra tra gli interessi nazionali e quello che, anche se fatto a fini di bene, potrebbe danneggiarli. Il programma europeo ad esempio predica la fine dei contratti precari, ma proprio settimana scorsa l’esigenza di affrontare urgentemente la disoccupazione ha portato l’Italia ad approvare il decreto Poletti, che liberalizza il contratto a termine e diluisce i vincoli formativi dell’apprendistato. Inoltre, una proposta di salario orario minimo di 9-10 euro in Italia sarebbe un livello del tutto irrealistico e controproducente per il rilancio dell’occupazione. Sarebbe certo opportuno costruire un sistema di ammortizzatori sociali finanziato su base comunitaria, ma non bisogna sottovalutare la sfida politica che una tale redistribuzione automatica di risorse comporta: è difficile riformare il sistema in Italia, figurarsi in una Europa dove le differenze di disoccupazione tra le varie macro-regioni raggiungono livelli di 12 (Grecia) a 1 (Baden Wuttemberg) e anche più.
Se il secondo obbiettivo del Pd è contare di più in Europa, le difficoltà oltre che di ordine “storico” (legate al peso dell’Italia in Europa) hanno al centro il problema dei candidati e delle liste. E questo è in realtà un problema comune a tutti i partiti italiani.
Partiamo dalla “testa”. Il candidato presidente della Commissione per il Pd è il tedesco Schultz, suo malgrado simbolo della politica di austerità degli ultimi anni. Sapendo in anticipo che la sfida sarebbe stata tra partiti europeisti e anti-europei, sarebbe stato utile che i paesi che più temono la deriva anti-europea si fossero coalizzati per proporre una personalità straordinaria come candidato alla prima elezione diretta della Commissione, selezionandolo magari con il metodo delle primarie. Solo così si poteva limitare la fisiologica astensione delle elezioni europee. Ma l’Italia e gli altri paesi del Sud Europa non contano abbastanza per proporre un loro candidato.
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Anche in Parlamento per contare non basta avere un numero maggiore di parlamentari, bisogna mandare in Europa dei parlamentari che abbiano le competenze per fare i relatori delle leggi e i presidenti delle commissioni parlamentari. Altri paesi mandano in Europa parlamentari competenti e usano l’Europa come palestra per formare classe dirigente nazionale. Purtroppo, in Italia l’elezione europea avviene con le preferenze, che favoriscono candidati assai popolari perché al termine di un lungo percorso di militanza politica o sindacale. Per costoro l’Europa rimane una sorta di buen retiro.
Eppure le competenze specialistiche sono necessarie proprio per salvaguardare gli interessi nazionali. Basti pensare che, fra le altre iniziative, il Pse intende perseguire la lotta alle elusioni fiscali e alla competizione fiscale. Bisognerà dare il massimo appoggio alle iniziative internazionali volte a chiudere i buchi aperti da alcune nazioni europee (Irlanda in primis, ma anche Olanda e Regno Unito) e che hanno trasformato l’Unione Europea in un colossale paradiso fiscale per le multinazionali di ogni bandiera e colore. Su questo punto, il Pd ha avuto un atteggiamento molto chiaro e netto con il governo Letta.
È sperabile che con il semestre europeo il governo Renzi e i parlamentari del Pd, facendosi forte del sostegno del Pse, giochino bene su questo terreno una partita che per l’Italia è decisiva. Forse il Pd (e l’Italia) dovrebbero evitare di perder tempo chiedendo l’impossibile (ad esempio gli Eurobond e il cambio di mandato della Bce), concentrandosi invece su misure meno radicali ma più fattibili (ad esempio, la lotta alla elusione fiscale e alla erosione della base imponibile causata proprio da alcuni paesi all’interno della Ue).
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